169 Seduta straordinaria della Quarantia
CAPITOLO TERZO
Politica e religione
§ 3.1 Molino testimone della riforma del 1582-83
Il Compendio del Molino è stato talvolta utilizzato, accanto ad altre testimonianze, per cercare di delineare - sulle orme di Leopold von Ranke - caratteri ed orientamenti del cosiddetto patriziato “giovane” nei decenni precedenti all’Interdetto e in particolare nel periodo della crisi costituzionale, che condusse alla riforma del Consiglio dei X del 1582-3 e alla definitiva abolizione della sua “Zonta”241. Più di recente, è però prevalsa una certa cautela nei confronti dell’uso storiografico di categorie troppo rigide e al tempo stesso troppo generalizzanti, come appunto era avvenuto per i “giovani” e i “vecchi”, nel passaggio dalle prime ricerche del Cozzi alle pagine suggestive ma fuorvianti di W. J. Bouwsma242. Di questi dubbi e
di queste esitazioni si è fatto a un certo punto portavoce lo stesso Cozzi, che in un suo intervento del 1979 ha protestato contro l’indebita estensione del concetto, osservando che i “giovani” rappresentano ancora per noi un gruppo dai contorni incerti, non facilmente definibile243.
Tale essendo lo stato della questione, si impone l’esigenza di un rinnovato contatto con le fonti, che, senza escludere a priori la possibilità di recuperare le formule già impiegate da qualificati osservatori contemporanei della vita pubblica
241 Cfr. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, ora in Id., Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, pp. 5-6, 8-10, 16, 25-26, 59; A. Stella, Chiesa e stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia. Ricerche sul giurisdizionalismo veneziano dal XVI al XVIII secolo, Città del Vaticano 1964, p. 66 (ma dello Stella si veda anche La regolazione delle pubbliche entrate e la crisi politica veneziana del 1582, in: Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma 1958, vol. II, pp. 157-171); I. Cervelli, Intorno alla decadenza di Venezia. Un episodio di storia economica, ovvero un affare mancato, "Nuova Rivista Storica", L, 1966, pp. 596-642. Il Compendio del Molino è ampiamente utilizzato anche dal principale critico della interpretazione di Cozzi, M.J.C. Lowry, The Reform of the Council of Ten, 1582-3: an Unsettled Problem?, “Studi Veneziani”, n.s., XIII, 1971, pp. 275-310. Come è noto, G. Cozzi ha riformulato la sua tesi nel volume Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 145-174.
242 W. J. Bouwsma, Venice and the Defence of Republican Liberty. Renaissance Values in the Age of the Counter Reformation, Berkeley 1968 (traduzione italiana parziale, Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del Rinascimento nell’età della Controriforma, con introduzione di Cesare Vasoli, Bologna 1977). Il lavoro di Bouwsma, interamente fondato su fonti edite, non utilizza i diaristi veneziani inediti di fine ’500. Sui Veneziani autori di annali e diari, cfr. ora Ch. Neerfeld, “Historia per forma di diaria”. La cronachistica veneziana contemporanea a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento, Venezia 2006; D. Raines, L’invention du mythe arystocratique. L’image de soi du patriciat vénitien au temps de la Sérénissime, 2 voll., Venezia 2006 (segnatamente vol. I, pp. 147-150, su Francesco da Molino). 243 G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l’Europa, Torino 1979, p. xiv . Dopo il Cozzi, stimolanti riflessioni sul ruolo politico dei “giovani” nel Cinquecento e nel primo Seicento sono state proposte all’interno della originale e discussa interpretazione sarpiana di D. Wootton, Paolo Sarpi between Renaissance and Enlightenment, Cambridge-London-New York 1983.
veneziana, come nunzi e ambasciatori, per descrivere certe dinamiche interne alla politica del Senato, restituisca però più concretamente l’identità dei singoli personaggi e la specificità delle voci che concorrevano, con varie motivazioni, a dar vita alle tendenze anticuriali di una parte del patriziato veneziano.
Una prima empirica distinzione può basarsi sul grado di autorevolezza, sulle cariche pubbliche ricoperte e sulla maggiore o minore intransigenza delle posizioni antiromane. L’attenzione degli studiosi si è comprensibilmente concentrata su personaggi famosi, le cui scelte sono meglio documentate, come gli impetuosi Nicolò Contarini ed Antonio Querini, il più prudente e moderato Andrea Morosini, l’autorevolissimo -ma riservato e a volte enigmatico- Leonardo Donà.
A volte però la ricerca d’archivio è in grado di restituirci anche voci ben più radicali di patrizi dissidenti, come quel Marchiò Michiel, che nel 1603, ospite del Provveditore Generale di Palma, non solo manifestò un generico anticlericalismo “biasmando quelli che fanno chiatini et capi storti”, ma proclamò davanti a due esterrefatti sacerdoti il proprio convincimento sulla salvezza dei musulmani (“turchi”), perché Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi244; ed espresse l’inquietante previsione che i contrasti giurisdizionali fra Venezia, il patriarcato e la Santa Sede sarebbero sfociati in una scomunica, semplice pezzo di carta, di cui la Repubblica non si sarebbe curata245. Era forse la dichiarazione irrilevante di “un matto”246? Lo si sostenne allora, ufficiosamente, per minimizzare l’impatto della denuncia, inevitabilmente destinata a raggiungere il Sant’Ufficio romano.
Ma alla protesta estrema, anche se forse non consapevolmente ereticale, del “cavalier” Michiel, si affiancano altre voci, meno gridate, che segnalano una intensa insoddisfazione per le pretese della curia e del clero: testimonianze, come quella di un Francesco da Molino, che si prestano a una duplice lettura. Da un lato, infatti, il
Compendio si presenta, come si è già sottolineato nei capitoli precedenti, per lunghi
tratti come una sorta di autotestimonianza, se non di autobiografia247, in cui sono rappresentati la vita, la psicologia, l’ambiente familiare di un patrizio di mediocre
244 G. Minchella, L'inquisizione a Palma (1595-1650): una presenza difficile, Palmanova (Udine) 2003. In particolare il Michiel avrebbe dichiarato: “Se io fossi nato turco o moro vorria vive sotto quella legie et essendo nato fra christiani voglio vivere[sotto questa], perché osservando una o l’altra legge lo homo si pol salvare, et addusse questa occrrenza quia Deus vult omnes homines salvos fieri”.
La controversia giurisdizionale cui il Michiel allude è quella per la giurisdizione spirituale sulla fortezza di Palma, su cui cfr. Trebbi, Francesco Barbaro cit., pp. 405-410.
“Che cosa crede monsignor patriarca di aver autorità in questa fortezza et di esser patron in spirituale, questo non sarà mai. So quelo che lui farà, lui al ultimo farà venire una scomunica papale. Et questa che cosa sarà altro che un pezzo i carta scritta?Noi poi useremo altri termini”(ivi, p.129).
Quando uno dei sacerdoti si rivolse per consiglio a Venezia al procuratore Marco Antonio Memmo, questi rispose: “che questo cavaglier è stato scacciato dal loro Consiglio et ch è un matto et che le sue parolle non se debano stimare”(ivi, p. 128).
247 Su questo aspetto dei diari e degli annali, si veda l’ampia bibliografia raccolta in Reenfeld, “Historia per forma di diaria”, cit. pp. 12 segg,
cultura, ma dotato di un vivace spirito d’osservazione, che, dopo una giovanile esperienza nella flotta veneziana tenta di accrescere le proprie fortune percorrendo i grandi spazi del commercio mediterraneo ed atlantico per poi ripiegare, con gli anni, sull’assolvimento di modesti incarichi pubblici a Venezia, nella Terraferma e nello Stato da Mar.
Ora, si può senz’altro osservare che di patrizi come il da Molino dovevano essercene tanti. Ma è anche questo uno dei motivi per cui la sua opera è preziosa. il
Compendio, quando riferisce sui dibattiti tenuti nel Senato, ai quali il Molino aveva
talvolta accesso, sembra riflettere, sia pure attraverso il filtro dalla vigile coscienza dell’autore, opinioni e giudizi più largamente circolanti fra i patrizi che occupavano le cariche della Quarantia, consentendoci così di gettare uno sguardo all’interno di un ambiente destinato altrimenti a restare relativamente nell’ombra, nonostante l’indubbia importanza del ruolo svolto da questo patriziato minore nella storia veneziana del 5-600: una funzione non negata neppure da quegli osservatori di più alto lignaggio, come Gasparo Contarini, che avevano attribuito a questi patrizi- il ruolo di componente “democratica”della Repubblica veneziana (considerata alla luce della teoria dello “Stato misto”).248
Per quanto riguarda i convincimenti etico politici del da Molino, risulta evidente da tutto il Compendio la sua piena adesione ad un ideale repubblicano-aristocratico, sostanzialmente coincidente con quello che siamo soliti definire il “mito” di Venezia. È però originale il modo in cui il da Molino cerca di armonizzare la propria fede nella saggezza degli ordinamenti della Repubblica, istituiti dalla saggezza degli antenati, con la concreta realtà delle tensioni politico-sociali, che egli, nella sua concreta esperienza, aveva talora dovuto constatare.
Forse meno evidente che in altri Stati italiani risultava il conflitto sociale tra la nobiltà e la plebe senza voce nella vita pubblica (però alla morte dell’energico ammiraglio Cristoforo da Canal, il giovanissimo da Molino aveva dovuto pur constatare come la sua morte, pianta dai patrizi, non fosse affatto dispiaciuta alle ciurme249). Invece i contrasti all’interno del ceto dirigente tra patriziato maggiore e minore, tra tendenze più largamente “aristocratiche” e più ristrettamente
248 Cfr. in generale F. Gaeta, Alcune considerazioni sul mito di Venezia, “Bibliothèque d’humanisme et Renaissance”, 23, 1961, pp. 58-75; Id., L’idea di Venezia, in Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, vol. III/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 565-641; Id., Venezia da “stato misto” ad aristocrazia “esemplare”, in: Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, vol. IV/II, Il Seicento, Vicenza 1984, 437-494; A. Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, in: Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, vol. III/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 198l, pp. 513-563
249 “La sua morte a tutti quei che sapevano di quanta perdita era alla patria et a tutta la Cristianità, fu di sommo scontento e dispiacere, ma piacque alle chiusme dell’Armata perché essendo egli stato severissimo osservator della naval militar disciplina degl’antichi nostri, mal si confacea con gl’abusi de moderni tempi” (Compendio cit., p. 8).
“oligarchiche”, tra filoromani ed anticuriali, erano destinati a riempire di sé, ora in modo più aperto, ora attraverso più sottili allusioni, le pagine del da Molino.
A tale proposito sono illuminanti le pagine in cui da Molino descrive i suoi rapporti con il potente patrizio “vecchio” Giacomo Foscarini, che era stato ammiraglio veneziano nell’ultima campagna navale della guerra di Cipro e si era poi particolarmente distinto, dopo la conclusione della pace, come energico riformatore delle istituzioni veneziane a Candia, con la carica di Provveditore Generale con poteri straordinari. In quell’epoca il da Molino era anch’egli a Candia, con la carica di Consigliere a Rettimo, e sembra che riuscisse a stabilire un buon rapporto col Foscarini, dalla cui viva voce apprese i particolari delle ultime sfortunate fasi della guerra. Il Foscarini, anzi, riuscì a persuadere il da Molino delle buone ragioni che avevano indotto il Consiglio dei Dieci e la Zonta a concludere la pace all’insaputa del Senato: sicché su questo punto il Compendio del da Molino abbraccia le posizioni espresse dall’oligarchia del Consiglio dei Dieci, distaccandosi dalle posizioni allora sostenute da Leonardo Donà e da quella componente più irrequieta del Senato, cui in genere il Molino aderiva250. E tuttavia gli orientamenti antioligarchici del da Molino riemergono prepotentemente nella pagina in cui egli esprime un giudizio complessivo sul governo di Giacomo Foscarini. Se da un lato approva la maniera energica in cui Foscarini aveva cercato di consolidare la vacillante autorità veneziana, d’altra parte non nasconde una certa perplessità, in quanto coglie la straordinaria ampiezza dei poteri concessi al Provveditorato, in cui gli pare di intravedere una sorta di avvio verso soluzioni politico-istituzionali incompatibili con il repubblicanesimo veneziano.251
In realtà, come ha spiegato benissimo il Cozzi, tutta una parte del patriziato veneziano, filospagnolo e filocuriale, andava sviluppando un sentimento di profonda ammirazione per i principati assolutistici, di cui erano vivente modello in Italia un Emanuele Filiberto di Savoia o un Cosimo I granduca di Toscana. E la diversità della forma di reggimento, principesco o repubblicano, veniva attenuandosi alla luce
250 Raines, L’invention du mythe arystocratique cit, vol.I, p. 150. Su Leonardo Donà e la guerra di Cipro, cfr. La corrispondenza da Madrid dell’ambasciatore Leonardo Donà (1570-73), a cura di M. Brunetti e E. Vitale, 2 voll., Firenze 1963.
251 “Nel settembre di quest’anno 1574 gionse nel Regno di Candia messer Jacomo Foscarini cavaliere per Proveditor Sindico Inquisitor, et con la suprema auttorità in quel’ isola di Capitan Generale da Mar, auttorità estraordinaria mai più data dal Senato a verun altro suo rappresentante […]. Et insomma publicò ottime leggi, iustissimi ordini e saluberrimi statuti, di modo che fondatamente si pò dire che sii stato fondator et instruitor di un novo regno. Ma con tutto ciò al parer mio, giudicando con quella poca prudenza che il signor Dio mi ha concesso, essendo queste supreme auttorità pericolose e riuscendo quasi tutte al fine di pernitie alle Republiche e massime alla nostra, che aborisce tal maniera di governo diforme a quello degli antichi nostri e sopramodo odioso e di mala sodisfation a suditi, dico al signor Dio che suplicemente il prego che mai più ci faci veder tal magistrato sopra a nostri sudditi et al governo d’alcuna nostra provintia”(Compendio cit., pp. 65-66). Il passo è citato con lievi varianti da R. Zago (Foscarini, Giacomo, in Dizionario biografico degli italiani, vol.49, Roma 1997, p. 367) che attinge al ms. Marciano, Italiani cl. VII, 110, su cui cfr. sopra, nt. 2.
dell’osservazione secondo cui anche i principati assoluti si governavano attraverso ristretti consigli di governo, la cui funzione era in parte paragonabile, secondo gli stessi ambasciatori veneti, a quella svolta a Venezia dal Consiglio dei Dieci e Zonta252.
Si tenga peraltro presente che l’azione politica del Foscarini a Candia appariva al da Molino veramente giustificata dalle esigenze della salvezza dello Stato. Da questo punto di vista, meno giustificate dovevano invece sembrargli le usurpazioni di competenze dei rettori veneti, della Quarantia e dagli Auditori portate avanti di Dieci, spesso per soddisfare meschini interessi privati, come quelli dei segretari Ottobon, con la cui tracotanza il Molino si era dovuto misurare a Pordenone253.
Delle opinioni del da Molino nel 1582, ormai più nettamente ostile ai Dieci, alla Zonta, ai segretari, è specchio fedele il Compendio, che merita un’attenta analisi.
Che la narrazione del da Molino rappresenti una delle nostre fonti più autorevoli per la ricostruzione delle circostanze che portarono all’abolizione della Zonta del Consiglio dei Dieci è riconosciuto dalla migliore storiografia sull’argomento. A queste pagine hanno fatto costantemente riferimento quanti hanno trattato la storia della riforma del 1582, da Leopold von Ranke254, Gaetano Cozzi e Aldo Stella fino a Martin Lowry. Da parte sua, Peter Burke ha rimproverato alla monumentale storia della storiografia rinascimentale italiana di Eric Cochrane la mancata consultazione di opere storiche manoscritte, segnalando tra le più importanti proprio il Compendio255.
A noi, tuttavia, in questa sede interessa soprattutto individuare l’ottica dalla quale il da Molino ha guardato a queste vicende. In cosa si differenzia la sua visione di cronista da quella di uno storico autorevole come Andrea Morosini, che compose in latino le sue Historiae Venetae nel primo Seicento?
Alcune differenze sono di carattere formale. Il Morosini, ad esempio, ha costruito la narrazione intorno ad alcuni grandi discorsi, seguendo apparentemente una tradizione umanistica (anche se, nel suo caso, sembra – e non è una differenza da poco – che i discorsi si mantengano aderenti a quelli effettivamente pronunciati). Egli ha inoltre concentrato in un’unica trattazione organica tutta la vicenda, dalle origini all’epilogo; mentre il da Molino, pur avendo scritto dopo i fatti (sicché il suo
252 Cfr. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani cit., pp. 145-174; Id., La politica culturale della repubblica di Venezia nell’età di Giovan Battista Benedetti e di Palladio, ora in Id., Ambiente veneziano, ambiente veneto. Saggi su politica, società, cultura nella Repubblica di Venezia in età moderna, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 1997, pp. 269-290.
253 Cfr. sopra, cap. I.
254 Venezia nel Cinquecento, con un saggio introduttivo di Ugo Tucci, Roma 1974, pp. 154 segg., segnatamente pp. 169-170 (Ranke utilizza Francesco da Molino per sintetizzare i risultati della riforma). 255 Peter Burke, recensione a Eric Cochrane, Historians and Historiography in the Italian Renaissance (Chicago 1981), in “The Journal of Modern History”, 55, 1, marzo 1983, p. 146.
Compendio non è, in questa parte, un diario steso giorno per giorno), ha lasciato
separate dalla narrazione principale sia le prime segnalazioni di abusi bisognosi di correzione256, sia il resoconto di un estremo tentativo di rieleggere la Zonta compiuto dal patriziato più potente nel maggio del 1591257. Notizia interessante, quest’ultima, che però, confermando l’“ard(e)nte desiderio ch’era ne’ Vecchi in voler veder sussitar ancor questo governo” avrebbe turbato, se recepita nelle Historiae Venetae, l’ordine della ricostruzione del Morosini, tutta indirizzata a negare la gravità della lacerazione e a ribadire il ritorno ad una perfetta armonia tra gli organi di governo.
Altro elemento essenziale della narrazione del da Molino, che non si riscontra con egual enfasi nel Morosini, è l’insistenza sul ruolo dei segretari nelle più gravi “deviazioni” del Consiglio dei Dieci e Zonta. Questa denuncia è ripetuta e insistita: i famosi abusi della Zonta erano “cento introducioni per quanto mi penso a poco a poco nate dall'utile e dall'ambitione de secretarii piutosto che dai Senatori”258; coloro che più si batterono per salvare il Consiglio dei Dieci e Zonta furono“i Vechi e più i secretarii quali si tenevano spogliati e di molto utile et auttorità”259; per convincere il Maggior Consiglio a rieleggere la Zonta fu elaborata un’artificiosa proposta, “havendosi affaticato in compor detta scrittura un di più buoni e savii secretarii che detto Cons(igli)o di Dieci havessero”260; ed anche il ritardo di molti mesi nel giungere a una deliberazione definitiva (grave responsabilità verso la Repubblica, che le due fazioni si rimproveravano a vicenda) derivò dalla resistenza congiunta del patriziato maggiore e dei segretari: “i grandi volevano pur l'aggionta, […] solecitati infiammati da secretarii del Cons(igli)o di Dieci che lacrimavano l'auttorità, l'utile, che perdevano”261.
Come si vede, i segretari dei Dieci appaiono sempre in prima fila nel racconto del Molino. Le accuse colpiscono sia loro, sia i patrizi “vecchi”; ma a volte sembra
256 Compendio, p. 116. Tra questa descrizione di abusi e la trattazione della riforma si inseriscono le notizie diplomatiche dalla Turchia.
257 “Et in Senato alla fin del mese di maggio si tratò di poner parte di cavar l’aggionta del Cons(igli)o di X.ci con fondam.to che nel Maggior Cons(igli)o erano già passati i capitoli con che governar si dovea non ponendo in consideratione li tanti anni passati, et quello seguì, s’unia a proponer quest’opinione tutto il Colleggio ma contradetta da Sebastian Querini dell’ord(i)ne di XL al criminale valorosissimam(en)te e prudentem(en)te et la getò sosop(r)a anci che fu preso di no, onde si pò creder che quell’ard(e)nte desiderio ch’era ne’ Vecchi in voler veder sussitar ancor questo governo si estinguesse e mortificasse” (Compendio, pp. 163-164).
258 Compendio, p. 117. Giova anzi citare l’intero brano, ancorché tortuoso nello stile, perché pone il problema della maggiore o minor responsabilità dei “vecchi” rispetto ai segretari: “cento introduzioni per quanto mi penso a poco a poco nate dall'utile e dall'ambitione de secretarii piutosto che dai Senatori percioché guai la libertà d'ogn'altra Republica se si havesse comportato per tanti anni il dominio assoluto in numero de pochi e pochi principali e potenti come ha fatto Venitiani, ma questi ampliss(im)i padri nati in cità liberi e come si sol dire con la libertà nelle viscere in quest'aere, che nudrisse nemici alle tirannidi più tosto contra la natural dispositione delle cose han governato quasi che temperatam(en)te, benchè invechiandosi il governo di giorno in giorno e d'anno in anno si vedevano alcune attioni alla libertà nostra dannose”.
259 Ivi, p. 119. 260 Ivi. 261 Ivi, p. 122.
che questi ambiziosi “cittadini originari” siano considerati dal Molino più colpevoli di quegli stessi autorevoli senatori. E’ solo un espediente retorico? Certamente esso consentiva di non riversare accuse troppo dure sui patrizi più potenti; ma comportava il rischio, che si paleserà più chiaramente, mezzo secolo dopo, nel movimento di Renier Zeno, di perdere di vista l’elemento fondamentale degli squilibri costituzionali veneziani (lo strapotere dei “grandi”) per concentrarsi su obiettivi pur importanti, ma meno essenziali262; tanto più che, a ben guardare, il potere dei segretari non aveva tanta rilevanza politica, quanto piuttosto si esercitava, come aveva intuito lo stesso da Molino, al livello dell’ “utile”, era cioè un potere amministrativo, una sorta di