139 Ivi, p. VII.
140 Ivi, pp. 32-33.
141 Ad esempio, nel già citato giudizio su Cristoforo da Canal; o quando riferisce il diverso atteggiamento della nobiltà e del popolo di Venezia nei confronti dell’alchimista Mamugna.
142 Così, alla falsa notizia della vittoria della flotta spagnola su quella di Elisabetta, nel 1589, “quasi per tutta Italia dove possede il Re di Spagna si havea fatto allegrezze, et publiche feste con giubilo incredibile degli affetionati di quella corona, ma i buoni italiani e gli interessati ne’ governi sospiravano vedendo acumular si fatta potenza alla natione spag.la (Compendio, p. 140: la sottolineatura è mia). 143 Cfr. Alberto Tenenti, La nozione di “stato” nell’Italia del Rinascimento, in Id., Stato: un’idea, una logica. Dal comune italiano all’assolutismo francese, Bologna 1987, pp. 53-97.
Certamente, esisteva ed era già antica l’idea geografica e culturale dell’Italia. Se però Ugo Tucci ha ritenuto di poter affermare l’esistenza, fin dal ‘500, della coscienza dell’Italia come “un organico aggregato naturale, fondato su un’individualità culturale e storica ben definita”144; Tenenti fa notare, invece, che questo spazio italiano era un contenitore dai contorni elastici ed aggiunge, a titolo di esemplificazione:.
“Nel 1468 le autorità veneziane consideravano le città di Segna e Zara come porte dell’Italia. Addirittura nella seconda metà del Cinquecento Paolo Paruta stimava Cipro poco meno che italiana. Nel discorso in Maggior Consiglio che egli attribuisce al doge Alvise Mocenigo, lo storico veneziano gli faceva sottolineare appunto gli aiuti che la Serenissima aveva ricevuto ‘perché si conservi questo splendore all’Italia e questo propugnacolo alla Cristianità”145.
Tenenti fornisce anche un altro esempio veneziano:
“per mettere in rilievo fin dove poteva spingersi il patriottismo locale nell’appropriarsi dell’italianità ad uso di uno solo degli organismi politici della Penisola: nelle sue Istorie
veneziane, composte intorno al 1620, il patrizio e futuro doge Nicolò Contarini attribuisce a
Leonardo Donà l’affermazione secondo la quale ‘la Crovazia, la Dalmazia, l’Albania, l’isole dello Ionio, del Mediterraneo, sono sottoposte alla legge d’Italia”.
Osserva Tenenti:
“Questo fluttuare delle frontiere e questo consapevole gioco sulla nozione d’Italia era certo soprattutto possibile in uno stato come quello veneziano, che aveva alimentato aspirazioni di conquista facendo ostinatamente di sé un centro di gravitazione politica ed una entità sovranamente prioritaria e privilegiata”.
Il discorso di Tenenti è sicuramente più generale e riguarda tutta l’Italia. La parola Italia racchiude in sé molteplici significati, ma ciò che è importante è che per nessuno, essa era la Patria. Tenenti aggiunge:
144 Ugo Tucci, Credenze geografiche e cartografia, in Storia d’Italia, a cura di Ruggero Romano e Corrado Vivanti, vol V/I, I documenti, Torino 1973, pp. 49-85, segnatamente p. 84.
145 Alberto Tenenti, Profilo e limiti delle realtà nazionali in Italia fra Quattrocento e Seicento, in Id., Stato: un’idea, una logica cit., pp. 139-155.
“Quello che davvero contava erano le sue parti: i suoi principi, le sue potenze, i suoi stati. Sia pure come contenitore, tuttavia l’Italia svolgeva un ruolo … distingueva l’insieme dall’esterno, dagli altri paesi…”.146
E ancora:
“L’Italia non aveva un valore in sé e per sé, proprio come non aveva concretamente un’esistenza; ma essa fungeva da identità di secondo grado di riferimento, in questo più o meno invocato contesto”.147
Anche sul piano poltico, come è noto la “libertà d’Italia” invocata nel Quattrocento e nel Cinquecento non era l’unità nazionale, ma l’indipendenza delle singole realtà, di quelle gelose identità statali, che, in contrapposizione al pericolo dell’egemonia di singoli stati, italiani o stranieri, desideravano la quiete e quella politica di equilibrio che per lungo tempo aveva garantito la Pace di Lodi, ma che, specialmente dopo le guerre di Carlo V e Francesco I, era oramai perduta.
E’ vero, concede Tenenti, che nel Ciquecento si comincia a parlare di Italiani. Ma è anche vero che “l’albeggiare di una mitologia nazionale appariva ancora fortemente marcato dal particolarismo statale”. Paruta non mancò infatti di farlo rilevare quando scrisse: “Affermavano tutti a quel tempo nelle tenebre di tanta adversità risplendere ancora alcun lume dell’antica gloria d’Italia et della virtù vinitiana”.148
Con queste premesse, possiamo correttamente inquadrare il Molino, che nel parlare “di Italiani e di italiani” sostanzialmente non usa questi termini in un significato diverso da quello che troviamo impiegato nei grandi scrittori e politici veneziani del suo tempo, da Paolo Paruta a Leonardo Donà e Nicolò Contarini. Anche per lui, dunque, l’Italia è una sorta di contenitore delle varie identità statali e regionali della penisola.
Il Molino utilizza spesso la parola “Italia” per indicare l’ambito entro il quale vive, opera e si misura con i suoi emuli un artista, un oratore, un musico si identifica, con l’impicito desiderio di sottolineare una superiorità italiana. Nicolò da Ponte era stato giureconsulto e oratore, “reputato a’suoi tempi haver pochi pari e in questa Republica e forse in Italia”149; nel 1574 in onore di Enrico III “dai primi musici di Venetia e forse d’Italia…furono uditi concerti rarissimi.”150
146 Ivi, p. 143. 147 Ivi, p. 144. 148 Citato ivi p. 154. 149 Compendio, p. 93 150 Ivi.
L’idea di una nazione italiana appare più manifestamente in ambito letterario, e con riferimento agli uomini d’arme: culmina dunque là dove le lettere celebrano la gloria delle armi, nella esplosione letteraria che salutò la vittoria di Lepanto: fenomeno letterario che stupì il da Molino, così come avrebbe attirato l’attenzione degli storici moderni.151
Quanto alle armi italiane, già il Guicciardini, col racconto della disfida di Barletta, aveva voluto reagire alla cattiva fama che gli Italiani si stavano facendo come soldati; il Molino non è da meno, e nel riferire un assalto a Modone, mette in bocca allo stesso don Giovanni d’Austria elogi ai fanti italiani, e critiche agli spagnoli152.
Quando il nostro Autore parla degli arruolamenti per la guerra di Cipro, si riferisce con orgoglio alla gioventù italiana, ai “signori italiani”.153 O ancora quando viene raccontato l’assedio di Famagosta prima del tracollo finale, Molino individua nelle truppe non tanto i veneziani, quanto gli italiani: ben duemilacinquecento soldati che combattono per la Repubblica.154
Esiste, naturalmente, un’Italia delle corti e delle diplomazie.
La notizia della pace con i Turchi nel 1573, si diffonde rapidamente e sebbene sia stata una risoluzione giusta e opportuna, è biasimata dai principi d’Italia.155, e poi anche dalle altre corti della Cristianità (cioè, in sostanza, dell’Europa). Le stesse corti italiane però sono pronte a rallegrarsi nel 1577 per l’elezione al dogato dell’eroe di Lepanto, Sebastiano Venier.156
Al di là delle glorie di Lepanto, si pone in modo sempre più angoscioso, come meglio vedremo nel capitolo III, il problema dei rapporti con la Spagna. Nella misura in cui vi sono ancora in Italia stati relativamente indipendenti (i domini spagnoli fanno parte a sé e vi si ragiona di politica e diplomazia secondo criteri diversi, se non opposti)157, sarebbe necessario che questi principi operassero di concerto:
151 Ivi, p. 32: “né vi fu alcun poeta di qualche nome in Italia, che non componesse e mandasse in luce qualchosa in materia della vittoria”. Cfr. Carlo Dionisotti, La guerra d’Oriente nella letteratura veneziana del Cinquecento, in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1966, pp. 471-493.
152 Compendio, p. 43: uno scontro nel 1572 presso Modone (in Morea): “furono lodati gl’italiani estremamente et all’incontro rabbuffati et ripresi gli spagnuoli dal sig.r Don Giovanni, che era sbarcato per vedere tal fattione”.
153 Compendio, p. 15. 154 Ivi, p. 26. 155 Ivi, p. 46.
156 Ivi, p. 81: “si commossero anco molti prencipi d’Italia in proceder in ellettione di huomo così benemerito estraordinariamente nelli uffitii del ralegrarsi come Ferrara, Firenze, Urbino, Savoia, Mantova che mandarono ambasciatore espresso per tal cirimonia, et il Sommo Pontefice mandando novo legato per far residenza in tal occasione fece apresentar a Sua Ser.tà et alla Republica la rosa d’oro” 157 Cfr. sopra, nt. 5.
occorrerebbe una migliore intesa fra Venezia e Firenze158 e soprattutto tra Venezia e Roma.
Per questa ragione sono criticabili, da un punto di vista “italiano”, le scelte di Sisto V nella crisi francese, che sembrano voler aprire la porta al predominio spagnolo.
O ancora in riferimento all’avvicinamento di Enrico III a Enrico di Navarra, Molino traduce la perplessità di Venezia, sottolineando che molto si era fatto per “conservar l’Italia senza disturbo d’armi”159. La situazione allarma ancora di più i principi italiani quando Sisto V scomunica il Re di Francia, tale azione è stimata essere poco prudente e nata, dirà Molino, dalla troppa fiducia data al Re di Spagna; e la decisione potrebbe partorire un lacrimoso evento “alla Republica cristiana”160, ma soprattutto all’Italia. Più significativa, però, è l’accusa a Sisto V di condurre una politica volta all’affermazione della causa cattolica in Inghilterra e in Francia, sostenendo la Spagna e il duca di Savoia, senza curare gl interessi dei principi italiani161, “scordatosi d’esser italiano e prencipe e padre commune”.
Concludiamo con un’ultima citazione, che sembra riferirsi a un episodio minore, le onoranze a Enrico III nel suo viaggio veneziano, ma è pure sgnificativa. Molino è orgoglioso delle spettacolari onoranze tributate a questo gran re, che hanno certamente accresciuto la reputazioen della Serenissima, tanto che annota:
“Restò Venetia doppo la sua partita molto sodisfatta e contenta vedendo, che in recetar162 questo Re gli apparati, et le feste e trionfi erano passati di modo che non solo dava ardire di non si poter desiderar meglio, ma che in ogni loro parte erano riusciti tali, che haveva vinta se stessa onde si cavava certa concusione che oltre l’haver cattivato l’animo di quel Re prima così ben disposto veso questa Rep(ubbli)ca si havea sodisfatto a Prencipi Italiani, et honorata Italia tutta onde allegri tutti gli ordini della città giubilavano in se medesmi”163.
Un passo dove è facile notare, come, in perfetta analogia con la pagina già citata del Paruta, è la gloria di Venezia a riverberarsi sul resto d’Italia. Il legame sentimentale, patriottico è quello con la Serenissima; come dice Tenenti, “L’Italia non
158 Ciò emerge soprattutto nelle pagine del Molino su Bianca Cappello,. su cui cfr. più oltre. 159 Compendio p. 146.
160 Compendio p. 148.
161 Compendio, p. 142. “…il Pontefice …per la dignità pontificia non ambiva e desiderava altro che il castigo alla Regina d’Inghilterra, et la conversion di quel Regno al santo catolico e romano rito, onde non vedendo più oltre scordatosi d’esser italiano e prencipe e padre commune permeteva cotai mezzi per ottenir il desiato fine” senza curare la quiete d’Italia
162 BOERIO: recetar, dar ricetto.
aveva un valore in sé e per sé, proprio come non aveva concretamente un’esistenza; ma essa fungeva da identità di secondo grado di riferimento.164
§ 2.4 La città di Venezia
Il veneziano si sente quindi solo limitatamente appartenente ad un gruppo più grande, quello italiano: il suo riferimento sono la città di Venezia e lo stato “di terra” e “da mar” che dipendono dalla Dominante. Ma Venezia stesa presenta al suo interno una società articolata e strutturata in maniera complessa.
Come è noto la società veneziana è divisa in ceti. Anche in questa realtà di forti differenze sociali, chi guarda con occhio attento le dinamiche che legano i diversi gruppi, che sono in parte retaggio dell’antica struttura comunale, può cogliere una sorta di “unione collaborativa”, che cosa si intende con tale definizione? Si vuol sottolineare che esiste una consapevole accettazione delle condizioni personali, la quale accettazione permette di vivere in una dimensione di serenità. Infatti anche nelle circostanze più difficili, si nota che l’ordine a Venezia non tracolla; dove non arriva lo Stato subentra la collaborazione, nasce una sorta di solidarietà, una reazione corale tra i ceti: come in occasione delle grandi sciagure, per esempio nei due incendi di Palazzo Ducale
I ceti e le differenze esistono di fatto, tuttavia assumono a Venezia caratteri affatto particolari: per esempio, non esistono a Venezia quartieri riservati ai patrizi: tutti vivono assieme, condividono gli spazi; il Molino, infatti vive a Castello, nota come zona popolare, ma abitata anche da diverse famiglie patrizie165.
Seguire l’esposizione del Molino attraverso i molteplici episodi di cui si compone il Compendio significherebbe frammentare inutilmente l’analisi dell’ opera, tanto più che su alcune di queste vicende, pur importanti in sé (cito ad esempio il processo inquisitoriale a Francesco Barozzi, la velleitaria ripresa della repressione della “sodomia”, l’atto di pirateria dello Emo, ecc.) i brevi cenni del Molino costituiscono solo una parte assai modesta della documentazione a nostra disposizione; e non è certamente nostra intenzione esaurire qui ogni possibile
164 A. Tenenti, Profilo e limiti delle realtà nazionali cit., p. 144
165 Fondamentale, per questa parte, Ennio Concina, Venezia nell’età moderna. Strutture e funzioni, Venezia 1989.
utilizzazione del Molino, come fonte per la storia di Venezia nella seconda metà del Cinquecento.
Ci sono però altri episodi nei quali il Molino non solo rappresenta una delle testimonianze più significative, ma raggiunge -entro i limiti del suo stile- una notevole efficacia narrativa e, soprattutto, esprime con chiarezza la sua visione della vita e della società veneziana; mi riferisco in particolare all’incendio di Palazzo Ducale e alla sua ricostruzione, da cui apprendiamo qualcosa sulla visione artistica del Molino; ma penso anche agli episodi in cui appaiono le rare figure di donne, comuni o straordinarie, tratteggiate dal Molino (la madre, Bianca Cappello, Vittoria Accoramboni) o, ancora all’episodio dell’alchimista Mamugna, che ci presenta una sorta di summa della capacità del Molino di descrivere realisticamente gli atteggiamenti dei vari gruppi sociali, compresi i ceti dirigenti, principi e patriziati di fine ‘500, che si disvelano ai nostri occhi come assai poco saggi e prudenti, nel momento in cui cercano di approfittare di quella che a molti di loro (ma non certo al Molino o al Sarpi) dovette sembrare un’eccezionale opportunità per risanare le finanze pubbliche e private: sicché la pietra filosofale del Bragadin si trasforma per noi in una cartina al tornasole dell’Italia della Controriforma.
§ 2.5 Arte, architettura e politica: la ricostruzione di Palazzo Ducale dopo il secondo incendio.
Il noto poligrafo Francesco Sansovino166, figlio di quell’Iacopo Tatti, che tanto aveva contribuito a rimodellare l’immagine di Piazza San Marco con la Libreria e la Loggetta, esaltò nella sua opera più fortunata Venezia come “città nobilissima e singolare”, autentico tempio delle lettere, delle arti e della musica167. Pur non essendo nato a Venezia, egli si sentiva così profondamente coinvolto in tutto ciò che riguardava il prestigio e l’immagine pubblica della sua patria d’adozione, che questo sentimento lo spinse a presentare –a titolo personale, non interpellato dalle autorità – una sua proposta per la ricostruzione di Palazzo Ducale dopo il suo secondo incendio168.
166 Su di lui, cfr. Elena Bonora, Ricerche su Francesco Sansovino imprenditore librario e letterato, Venezia 1994.
167 Ivi, pp. 163 segg. Venetia città nobilissima e singolare apparve a Venezia, per i tipi di Giacomo Sansovino, nel 1581.
168 Lionello Puppi, Andrea Palladio, Milano 1973, vol. II, p. 424. Sugli interessi artistici del Sansovino, che sicuramente lesse e utilizzò sia il Vasari, sia la Notizia d’opere di disegno attribuita a Marcantonio Michiel, cfr. anche Bonora, Ricerche cit., pp. 178 segg., 188 segg.
Anche Francesco da Molino fu profondamente colpito da quella catastrofe, che venne quasi a suggellare una luttuosa sequenza di distruzione, guerra e pestilenza. L’ “horribil accidente” che “perturbò gl’animi con acerbo ramarico di tuti i cittadini” lo ebbe anzi come testimone diretto fin dall’inizio. Infatti, “la vigilia di S. Tommaso apostolo alle vintiun’hora, in tempo ch’io me n’andava il postpranso169 alla Quarantia criminale e che comparsi et arivai in Piazza, si scoperse fuoco nelli alti tetti della sala dello scrutinio sopra la porta maestra del Palazzo alla Carta”170. Nonostante il pronto accorrere delle maestranze dell’Arsenale, i danni furono ingenti, con la distruzione di un ricco patrimonio archivistico171 e di molte celebri opere d’arte, e soprattutto con grave pregiudizio per la stabilità strutturale dell’intero edificio. Scrive infatti il Puppi, riassumendo le risultanze delle fonti, che quando l’incendio fu alfine domato, al Senato veneziano ed agli esperti da esso interpellati si presentò subito un quadro non disperato, ma certo allarmante:
“Le condizioni statiche dell’edificio eran compromesse sovrattutto nel momento delicato della convergenza delle strutture verso il punto d’incontro angolare sulla piazzetta, sia per la distruzione delle travi pavimentali le quali legavano, come tiranti o catene, le due facciate del palazzo verso S. Giorgio e verso la Piazzetta con quelle verso il cortile interno, sia pel conseguente cedimento delle catene che saldavano i volti dei sottostanti portici, talché s’eran spezzati o incrinati numerosi capitelli delle colonne dell’ordine inferiore e del superiore, ponendo fuori piombo il muro verso S. Giorgio, e così creando uno stato di precario equilibrio che l’abbassamento della grossa colonna verso il ponte della Paglia in rapporto al livello delle altre aggravava in maniera preoccupante”172.
Il Compendio dedica molte pagine alla vicenda; e gli storici dell’arte, che, dallo Zorzi al Puppi, hanno cercato di ricostruire le discussioni svoltesi nel Senato sul modo migliore di porre riparo alla incombente rovina del Palazzo, hanno dovuto fare largamente ricorso alle annotazioni del Molino, che per una fortunata coincidenza partecipò a pieno titolo a quelle sedute, essendo proprio allora membro della Quarantia, e poté quindi registrare l’andamento generale di quei dibattiti, non conservati se non in minima parte, come di consueto, negli atti ufficiali, che registrano solo le deliberazioni finali.173