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EZIOPATOGENESI DELLA DEPRESSIONE SECONDO IL MODELLO PSICODINAMICO

2.2. LA DEPRESSIONE SECONDO UN MODELLO RELAZIONALE- RELAZIONALE-PSICODINAMICO

2.2.2. RENE’ A. SPITZ

René A. Spitz (Vienna, 1887 - Denver, 1974), psicoanalista di rilievo per la specificità dei suoi apporti teorici ed anche metodologici, contribuì notevolmente allo sviluppo della psicoanalisi evolutiva.

Esponente della psicologia dell’Io, egli si orientò apertamente anche verso un modello relazionale, volgendo il suo interesse all’indagine delle relazioni oggettuali madre-bambino e allo studio delle funzioni dell’Io che consentono all’infante di acquisire consapevolezza e capacità adattiva alla figura materna.

I suoi lavori proclamarono l’essenziale importanza delle cure materne per la salute mentale e fisica del figlio. Inoltre, sul piano metodologico, egli fu importante per il suo tentativo di introdurre il metodo sperimentale nell’osservazione infantile (Lis, Stella, Zavattini, 1999). Spitz compì numerosi studi sui bambini ospedalizzati ed istituzionalizzati, rilevando come fosse deleteria per il loro sviluppo psichico la mancanza della madre, o comunque di un adulto che svolgesse la funzione di oggetto d’amore primario, e dimostrando inequivocabilmente l’importanza fondamentale delle cure materne.

I bambini da lui osservati infatti, ospiti di orfanotrofi o di ospedali, ricevevano gli accudimenti basilari legati ai bisogni fisiologici elementari (soddisfazione della fame, della sete, del sonno, ecc.) ma trascorrevano quasi tutto il giorno da soli deprivati di qualsiasi scambio di natura affettiva con un possibile sostituto materno. Essi finivano per soffrire di un ritardo evolutivo generale in tutte le sfere, arrivando a condizioni psicopatologiche e fisiche anche gravi e addirittura al marasma e alla morte.

Da queste osservazioni l’Autore dedusse come una figura materna, in una relazione reciproca di scambio circolare dominata dall’affetto, potesse essere considerata il fattore esperienziale fondamentale ed indispensabile dello sviluppo di un bambino. Secondo il pensiero di Spitz, la madre guida la costruzione della struttura psichica del piccolo individuo in formazione, mediando ogni suo tipo di percezione, di azione e di conoscenza e regolandone la frustrazione. Conseguentemente, ogni situazione di carenza affettiva (quali la mancanza di una madre, o di un suo sostituto, o la presenza di relazioni oggettuali disturbate, improprie o insufficienti) viene ad essere considerata come la principale causa di anomalie evolutive e forme psicopatologiche.

In particolare, sulla base dell’osservazione di bambini istituzionalizzati, Spitz evidenziò la comparsa di un fenomeno che denominò “depressione anaclitica”.

Tale particolare forma psicopatologica di natura depressiva, tipica della primissima infanzia, venne da lui descritta nell’opera “La depressione anaclitica: indagine sulla genesi delle malattie psichiatriche nella prima infanzia” (1946), scritto fondamentale, realizzato con la collaborazione di Katherine M. Wolf, che contribuisce alla comprensione dei meccanismi precoci sottesi alla patologia depressiva.

La depressione anaclitica viene descritta come una sindrome depressiva specifica che insorge nel corso della seconda metà del primo anno di vita, in media attorno all’età di nove mesi, in bambini deprivati e separati dalla loro mamma. La causa scatenante direttamente connessa al suo esordio, risulta essere la mancanza della madre, di quell’appoggio affettivo, emotivo e rassicurante donato e rappresentato proprio dalla vicinanza con una figura accudente; per questo motivo, la depressione anaclitica viene anche definita

“depressione d’appoggio”.

I sintomi principali di tale patologia sono:

“Apprensione, tristezza, facilità al pianto. Mancanza di contatto, respingimento dell’ambiente, ritiro. Ritardo dello sviluppo, ritardo della reazione agli stimoli, lentezza dei movimenti, abbattimento, stupor. Perdita dell’appetito, rifiuto di mangiare, perdita di peso. Insonnia.” (Spitz, 1946, in Gaylin, 1973, pag. 177).

L’esistenza della depressione anaclitica emerse nel corso di uno studio longitudinale sul comportamento infantile, condotto dai due Autori su 123 bambini istituzionalizzati in una Nursery, figli di donne prigioniere da cui erano

stati separati dopo un limitato periodo dalla nascita, tra il sesto e l’ottavo mese di vita. Nella seconda metà del primo anno di età, alcuni di questi bambini svilupparono una sindrome sorprendente (19 in forma grave e 26 in forma leggera), lentamente peggiorante nel tempo.

In un primo stadio, della durata di circa tre mesi, essi assunsero un atteggiamento piagnucoloso, triste, in netto contrasto col loro precedente comportamento allegro e spensierato, un’espressione di sofferenza profonda, di apprensione, un’estrema facilità al pianto e alle urla, soprattutto se qualcuno tentava un approccio un po’ più insistente nei loro confronti.

Dopo questi tre mesi, se la separazione dalla madre si prolungava ulteriormente, sorgeva un secondo stadio, più grave, caratterizzato da ritiro, indifferenza, rifiuto del contatto, disinteresse per l’ambiente esterno, espressione rigida, glaciale, immobile, talvolta attività autoerotica nelle zone orali, anali e genitali, fino a progredire con la manifestazione di insonnia, perdita di peso, sviluppo ritardato del quoziente intellettivo, apatia, stupore.

Fattori assolutamente non correlati all’insorgenza della sindrome furono l’età, la razza, il sesso e il livello evolutivo ed intellettuale di partenza; l’unico fattore eziologicamente significativo, in tutti i casi che svilupparono la malattia, risultò essere la mancanza prolungata (di almeno tre mesi) della madre durante il primo anno di vita.

“In tutti la madre era stata allontanata dal bambino tra il sesto e l’ottavo mese per un periodo praticamente ininterrotto di tre mesi, durante i quali il bambino o non vedeva affatto la madre, o al massimo la vedeva una volta alla settimana (…). Nessun bambino sviluppava la sindrome in questione se la madre non si era allontanata” (ibidem, pag. 179). Tuttavia, la separazione dalla mamma risultò una causa necessaria ma non sufficiente, poiché comunque non tutti i bambini soli svilupparono la stessa sintomatologia.

La conferma definitiva della concezione di depressione anaclitica come reazione alla perdita della madre venne dall’intervento messo in atto con questi bambini: fu preso il provvedimento di far ritornare le loro madri dopo tre, quattro mesi, cui seguì in tutti i casi una piena remissione dei sintomi e un totale recupero. I piccoli tornarono improvvisamente cordiali, allegri, avvicinabili e, sorprendentemente, si verificò un salto del loro quoziente evolutivo, entro dodici ore dal ritorno della madre. In mancanza di un intervento riparativo di questo

genere, invece, la depressione anaclitica tese irrimediabilmente verso l’aggravamento a livelli drammatici.

In uno studio successivo su bambini dell’orfanotrofio, nella Foundling Home, in cui la separazione dalla madre si prolungava ben oltre i tre mesi, diventando spesso definitiva, il quadro depressivo risultò una sindrome di natura progressiva ed irreversibile, con catatonia deteriorata stuporosa o idiozia agitata, gravi manifestazioni psicosomatiche con facilità alle infezioni respiratorie ed intestinali e alle malattie, marasma e, in molti casi, morte (alto tasso di mortalità infantile). Nessun intervento risultò più efficace a contrastare tali effetti così nefasti. Questi risultati portarono Spitz a ipotizzare un intervallo di tempo di tre mesi come periodo critico: entro i primi tre mesi la sindrome era reversibile, grazie al ritorno della madre o al reperimento di un oggetto sostitutivo che potesse colmare la solitudine e il vuoto affettivo; se la separazione andava oltre i tre mesi consecutivi, la depressione anaclitica assumeva la sua forma più grave, progressivamente sempre più irreversibile, fino a poter comportare la morte stessa del bambino.

In definitiva, quindi, la depressione anaclitica si configura come un disturbo depressivo primario conseguente alla perdita dell’oggetto d’amore; come nella melanconia adulta, nel bambino agisce un profondo sentimento di non essere amato; a differenza della depressione adulta, si configura non come regressione ma come alterazione e disturbo dello sviluppo di un Io ancora infantile, debole e rudimentale.

Tuttavia, la deprivazione affettiva non porta direttamente alla depressione senza che il bambino non cerchi di reagire attivamente a tale condizione, mettendo in atto “tentativi di sostituzione” più o meno riusciti, ovvero tentativi di riconquistare il mondo oggettuale perduto, di ritrovare un oggetto nuovo capace di amarlo, accettarlo, gratificarne i bisogni affettivi, riparare il trauma psichico dell’abbandono. Forte ed imperante è il bisogno di incorporare l’oggetto d’amore come oggetto riparatorio, ed il bambino cercherà di farlo con l’unica struttura psichica di cui dispone, ovvero col suo Io ancora rudimentale ed essenzialmente corporeo; tale Io infantile utilizza spesso ancora come strumento principale la locomozione, che diventa allora, per il bambino, un indispensabile presupposto per realizzare tentativi di ricerca dell’oggetto sostitutivo. Quando la ricerca dell’oggetto d’amore fallisce, quando sono

ostacolate le opportunità di locomozione, di sfogo delle pulsioni, di stabilire nuove relazioni con l’altro (come capita gravemente nei bimbi istituzionalizzati), allora tutta la pulsione aggressiva inibita nello sfogo motorio viene rivolta contro l’Io e si instaura la sindrome depressiva anaclitica.

L’unica terapia valida, quando il disturbo non si presenta ancora in forma troppo avanzata, risulta essere la restituzione di un oggetto d’amore (della madre o spesso, più verosimilmente, di un sostituto materno). Sicuramente è più difficile sostituire un oggetto soddisfacente di uno insoddisfacente; gli studi mostrano infatti che la depressione è molto più grave e frequente nei casi di una relazione positiva con la madre, precedentemente all’abbandono.

Secondo Spitz una “misura terapeutica completa” si compone dei seguenti tre gruppi di interventi:

- profilassi (evitare assolutamente quanto più possibile la separazione prolungata dall’oggetto d’amore durante il primo anno di vita);

- restituzione (restituire al bambino il suo oggetto entro tre mesi al massimo);

- sostituzione (sostituire l’oggetto d’amore perduto con un oggetto sostitutivo, qualora non fosse possibile il ritorno della madre).

Particolare attenzione va riservata a facilitare l’esternazione e la scarica delle pulsioni locomotorie dell’infante affinché possa scegliere attivamente un oggetto sostitutivo capace di scongiurare la caduta in uno stato depressivo grave ed irrecuperabile.