• Non ci sono risultati.

EZIOPATOGENESI DELLA DEPRESSIONE SECONDO IL MODELLO PSICODINAMICO

2.2. LA DEPRESSIONE SECONDO UN MODELLO RELAZIONALE- RELAZIONALE-PSICODINAMICO

2.2.1. SANDOR FERENCZI

Sàndor Ferenczi (Miskolcz, 1873 - Budapest, 1933), ottavo di dodici figli di un ebreo immigrato in Ungheria dalla Polonia, fondatore e principale rappresentante della scuola ungherese di psicoanalisi, nonché per lungo tempo stretto collaboratore di Freud al punto da entrare a far parte del Comitato segreto nel 1922, rappresenta sicuramente una delle personalità più ragguardevoli del movimento psicoanalitico (Lis, Stella, Zavattini, 1999).

Spontaneo, ricco di comunicativa, dal temperamento poetico, Ferenczi era un uomo dotato di grande fascino ed immaginazione, considerato da molti come la personalità più calda, umana e sensibile fra i primi psicoanalisti (Roazen, 1998).

Uomo di vasta cultura e di molteplici interessi, dopo gli studi di medicina e di neurologia a Vienna, si trasferì a Budapest per avviare la propria attività professionale; incontrò la psicoanalisi nel corso dei suoi esperimenti associativi, interessandosi delle possibilità offerte dal nuovo metodo conoscitivo e terapeutico per convertirsi poi, infine, alle idee freudiane.

Il primo incontro con Freud avvenne nel 1908 e sancì l’inizio di uno stretto legame di amicizia e di collaborazione, caratterizzato da un breve rapporto analitico seguito da una fitta corrispondenza, da visite frequenti e da viaggi comuni. “Fu un colpo di fulmine, una reciproca seduzione. S’iniziò da quell’anno

un decennale sodalizio che fece di Ferenczi, pur fisicamente lontano, il più vicino fra gli allievi di Freud, tanto da non poter distinguere quanto l’uno dovesse all’altro” (Semi, 1988, pag. 148).

Freud, anch’egli ebreo, ammirò in Ferenczi le peculiari qualità della cultura mitteleuropea ed ebraica: la curiosità intellettuale, l’anticonformismo, la disponibilità, la capacità introspettiva (ibidem).

Nel 1909 Ferenczi seguì Freud nel suo viaggio in America. Nel 1910 propose la fondazione dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale, di cui divenne presidente nel 1918. Nel 1913 diede vita alla Società Psicoanalitica Ungherese (Lis, Stella, Zavattini, 1999).

A partire da 1919, i rapporti con Freud cominciarono a raffreddarsi, per un intreccio di motivazioni personali e di divergenze teoriche. Difatti, l’amicizia tra i due fu, sin dal suo esordio, ambigua e caratterizzata da un transfert speculare, dalla paura dell’abbandono ferencziana connessa alla paura del tradimento freudiana; Ferenczi aspirava irrealisticamente ad una vicinanza simbiotica ed esclusiva col Maestro, lamentandosi e soffrendo del paternalismo e della distanza che questi interponeva tra sé e i suoi seguaci; Freud, dal canto suo, pretendeva una riverenza e un ascolto assoluti per cui, pur spronando il suo allievo ad una maggiore autonomia, ne temeva il tradimento non appena questi manifestava un pensiero indipendente (Haynal, in Borgogno, 2001).

Cosicché, per un insieme di incomprensioni, conflittualità e mutamenti di prospettive teoriche e terapeutiche, che portarono Ferenczi verso l’elaborazione della “tecnica attiva” fondata su un atteggiamento empatico col paziente attraverso interventi diretti anche non verbali, si determinò un progressivo allontanamento tra i due grandi psicoanalisti.

L’effetto di tale frattura relazionale si ripercosse su tutto il mondo psicoanalitico, determinando un rifiuto categorico ed un ostracismo istituzionale nei confronti di Ferenczi, dichiarato portatore di resistenze nevrotiche che ne avrebbero motivato il distanziamento dall’ortodossia freudiana; le sue idee, per anni dopo la morte, vennero trasmesse silenziosamente, subendo massicce censure ed esclusioni da parte della psicoanalisi ufficiale, fino alla più recente grande rivalutazione (Rand, in Borgogno, 2001).

Il pensiero di Ferenczi, oggi riapprezzato in tutto il suo valore e la sua significatività, con l’importanza assegnata all’interazione, all’intersoggettività, al

contesto, all’ascolto e al soccorso dell’alterità, rende tale Autore il vero capostipite della psicoanalisi fondata sulle relazioni oggettuali (Borgogno, 1999b). La relazione è alla base dell’elaborazione sia metodologica che teorica di Ferenczi.

Dal punto di vista terapeutico, l’aspetto relazionale rappresenta il cuore fondante dei suoi concetti di elasticità della tecnica, di tecnica attiva, di controtransfert, di intensificazione della cura; l’Autore concepisce la psicoanalisi

“come un esercizio autentico di pensiero e sensibilità al servizio del paziente e della comprensione della sua sofferenza (…), una sperimentazione viva che nasce dal cuore e si radica in un’esperienza affettiva di relazione e colloquio, su cui riflettere procedendo per prove ed errori” (ibidem, pag. 152). Centrale nella sua visione risulta essere la responsabilità e l’influenza del terapeuta nell’incontro analitico, l’ascolto, il contenimento, il rispetto, la valorizzazione del paziente, il “riconoscimento della sovranità dell’altro” (ibidem, pag. 157).

Dal punto di vista teorico, analogamente, le dinamiche relazionali assumono un ruolo centrale e basilare nel comprendere la sofferenza e la malattia psichica, generate da situazioni di trauma reale, nel contesto di relazioni esterne con le figure accudenti nel corso della prima infanzia.

La riflessione di Ferenczi sul trauma, sul traumatico e sul mondo infantile rappresenta il suo contributo più originale, innovativo e moderno e fu anche la principale ragione di disaccordo concettuale con Freud. Difatti, Freud aveva abbandonato, appena un anno dopo averla concepita, la sua teoria della seduzione infantile del 1886, secondo la quale alla base delle nevrosi vi erano reali avvenimenti traumatici di natura sessuale accaduti nell’infanzia; a questa impostazione aveva ben presto sostituito una concezione intrapsichica di nevrosi determinata da un trauma interno, ovvero da desideri e fantasie sessuali inconsce, connesse alle vicessitudini pulsionali.

Del tutto contrariamente, nei primi anni della loro conoscenza, Ferenczi concordava pienamente con l’ultima formulazione freudiana, per discordarsene gradualmente fino a rivalutare il ruolo delle esperienze reali, organizzando compiutamente, tra il 1927 e il 1933, una teoria eziologia delle nevrosi attorno al concetto di trauma, mai approvata o sostenuta da Freud (Bonomi, in Borgogno, 2001). Secondo Ferenczi, il trauma riguarda “tutte quelle condizioni continuative o temporanee, cumulative o improvvise, che comportano forme di deprivazione

per eccesso o per difetto sul corpo e sulla mente in formazione e crescita (…).

Un’addizione, dunque, e una sottrazione di qualcosa, che modifica il naturale avvio alla vita psichica mediante operazioni di intrusione e di estrazione (…) che segnano e danneggiano l’esperienza del bambino” (Borgogno, 1999b, pag.

162-163). Detto altrimenti, il trauma si configura come catastrofe, come una

“vasta gamma di non risposte e di risposte improprie, messe giorno per giorno in circolazione nell’interazione che viene proposta dai genitori (…)” (Borgogno, 2001, pag. 179). Esso acquisisce tutta la sua tragicità proprio dall’essere realizzato da coloro che dovrebbero prendersi cura del bambino, principalmente le figure genitoriali, verso i quali il piccolo nutre sentimenti di amore, fiducia e dipendenza. Si innesta come irruzione inaspettata della passione di un adulto nel corpo e nella psiche di un bambino. “Il linguaggio della passione dell’adulto (…) si scontra violentemente con il linguaggio della tenerezza del bambino.

Questo “malinteso” suscita nel bambino, che aveva riposto tutta la sua fiducia nell’adulto, paura, delusione e dolore” (Cabré, in Borgogno, 2001, pag. 167).

Ferenczi parla delle disumane sofferenze cui è sottoposto il bambino dalla noncuranza traumatica dei suoi genitori: disattenzione, insensibilità, indifferenza, non rispetto, tirannide, sfruttamento, omissione di soccorso, intromissione, menzogna, ipocrisia (Borgogno, 1999b).

L’elemento che scatena, tuttavia, l’effetto traumatico e patogeno non è l’evento in se stesso, ma soprattutto il diniego da parte dell’adulto aggressore o di un’altra persona cui il piccolo si rivolge per ricevere soccorso e chiarire il senso dell’accaduto. L’adulto nega, disconosce la percezione della realtà traumatica del bambino, ne paralizza il pensiero e la possibilità rielaborativa ed impone, talvolta con la minaccia o la menzogna, il silenzio e l’impossibilità di creare una rappresentazione o una fantasia dell’evento stesso. “Il trauma appartiene (…) al campo del non nominato, non detto, non affrontato, non capito e simbolizzato, ma certamente (…) vissuto e sperimentato (…)” (ibidem, pag. 165).

In conseguenza del diniego del trauma, il bambino reagisce disconoscendo se stesso; si instaura in lui una scissione nella percezione di sé, una frammentazione della personalità in virtù della quale esce fuori da sé ed entra difensivamente in un luogo mentale di estraniazione, di non-esistenza, di isolamento in cui può separarsi ed allontanarsi dalla realtà terrorizzante (Borgogno, 2001).

La scissione e l’alterazione del sé, tuttavia, delineano quel nucleo patogeno che potrà portare nel futuro allo sviluppo di gravi disagi o disturbi psichici.

Nella concezione ferencziana, difatti, il trauma si delinea come fondamentale fattore causale di gravi patologie psichiche: psicosi, borderline, perversioni, ritiri schizoidi, depressioni, organizzazioni di personalità anomale, laddove la scissione e la dissociazione, determinate da pesanti umiliazioni e ferite dell’amore di sé, si sostituiscono alla rimozione e ai meccanismi più propriamente nevrotici (Borgogno, 1999b).

Pertanto, pur non avendo lasciato scritti specificatamente dedicati ai disturbi depressivi, Ferenczi affronta comunque indirettamente il tema della depressione entro il discorso più ampio e globale delle conseguenze patogene del trauma, inserendo quindi la sua concezione in un modello teorico di stampo relazionale. Nelle sue opere, viene esposta un’eziologia traumatica delle gravi psicopatologie (pertanto anche delle gravi depressioni) come risultato di una violazione fisica o psichica del bambino nell’ambito dei rapporti affettivi familiari che, in virtù del diniego, genera una scissione traumatica e patogena dell’Io.

Fondamentale risulta il contesto relazionale famigliare, primariamente con le figure genitoriali, vero “teatro” ove spesso si consumano i peggiori maltrattamenti.

Nell’opera “L’adattamento della famiglia al bambino” (1927), Ferenczi dichiara apertamente l’importanza basilare, al fine di un positivo sviluppo psichico del bambino, di un accudimento sensibile, responsivo e di relazioni amorevoli con i propri genitori. Pur non negando l’esistenza di fattori innati ed ereditari, sottolinea la maggiore influenza, sulla maturazione e la salute psichica futura, delle esperienze relazionali ed educative successive alla nascita.

Pertanto secondo l’Autore, all’opposto delle opinioni allora culturalmente e pedagogicamente dominanti, si evidenzia come priorità indispensabile l’adattamento della famiglia al bambino, e non viceversa. Il piccolo tende naturalmente e spontaneamente ad adattarsi lui alla famiglia, introiettando l’ambiente, reagendo obbedendovi in virtù del legame di amore e di dipendenza che prova verso i genitori. Sono quindi i genitori a dover andare prioritariamente incontro al figlio, a dover compiere il primo passo in direzione dell’adattamento, imparando non da loro stessi ma dall’interazione col loro piccolo, per riconoscerlo, ascoltarlo e comprenderlo.

I genitori dovrebbero rendersi conto della sensibilità dei bambini, dedicare maggiore attenzione alle loro reazioni e soppesare esattamente le difficoltà con cui essi si scontrano nel complesso periodo dell’apprendimento del codice normativo degli adulti. Malauguratamente, spesso la famiglia non riesce ad adattarsi positivamente al proprio bambino e Ferenczi individua la causa di tale incapacità genitoriale nell’oblio dell’infanzia; difatti, “l’errore dei genitori coincide con l’oblio della propria infanzia (…). Tale difetto di comprensione della propria infanzia costituisce per i genitori il maggior impedimento alla comprensione dei problemi pedagogici essenziali” (ibidem, pag. 278). Dimenticando cosa sia stato per loro essere bambini, essi ridurrebbero l’ascolto a un farsi ascoltare, anziché dedicarsi all’accoglimento del figlio, diminuendone così col tempo l’intensità delle richieste affettive di amore e tenerezza e aumentandone le angosce (Borgogno, 2001). Quando la madre e il padre falliscono nel loro compito di accudimento del bambino, nel delicato periodo del passaggio dal primitivismo della primissima infanzia alla vita sociale, possono verificarsi situazioni traumatiche. Rivolgendosi ai genitori, Ferenczi afferma: ”se gli arrecate un danno sia pure minimo quando la sua vita è agli inizi, ciò potrà proiettare un’ombra su tutto il resto della sua vita” (Ferenczi, 1927, pag. 282); un’ombra che oscura la gioia e la fiducia, che interdice l’entusiasmo e l’esplorazione curiosa dell’esistenza.

Esempi di traumi reali che possono realizzarsi in famiglia vengono rintracciati da Ferenczi nello svezzamento infelice (che influenza sfavorevolmente i rapporti oggettuali dell’infante); nell’obbligo alla pulizia (se i genitori non comprendono gli interessi e gli impulsi anali dei primi anni di vita, in cui gli escrementi vengono considerati ancora come una parte di sé, a metà tra il soggetto e l’oggetto e, conseguentemente, si mostrano crudeli e punitivi nell’educazione igienica); nella soppressione delle “cattive abitudini”, ovvero della masturbazione infantile (se i genitori non ne comprendono il significato autoerotico e soffocano duramente ogni manifestazione primitiva dell’istinto sessuale, anziché ammettere l’importanza libidica degli organi genitali, guidando con sincerità il difficile sviluppo psicosessuale); infine, anche nelle punizioni nell’ambito scolastico.

In definitiva, non senza una certa ironia, Ferenczi conclude: “Freud ha chiamato una volta la psicoanalisi una specie di seconda educazione dell’individuo (…).

Si tratta (…) di insegnare a educatori e genitori a trattare i bambini in modo da rendere superflua la “seconda educazione”” (ibidem, pag. 291).

L’effetto negativo più fosco e più catastrofico dei traumi infantili viene tracciato ne “Il bambino indesiderato e il suo istinto di morte” (1929), significativo soprattutto per comprendere il potere patogeno di tali esperienze.

Ambienti familiari maltrattanti, non protettivi, non accudenti, non supportivi suscitano nei figli “l’esperienza spiacevole di sentire la vita come indegna di essere vissuta” (ibidem, pag. 361), stimolano fortemente in loro l’istinto di morte, manifesto nelle tendenze autodistruttive, nel desiderio di non vivere.

Tali bambini sono “ospiti indesiderati della famiglia”. “Tutto faceva pensare che questi bambini avessero recepito i segni, consapevoli o inconsapevoli, con cui la madre manifestava il suo rifiuto o la sua impazienza nei loro confronti e che per questo motivo si fosse prodotta una frattura nella loro volontà di vivere. Nei periodi successivi, circostanze relativamente poco gravi si rivelarono quindi sufficienti a provocare la loro volontà di morire, anche se compensata da una forte volontà di adattamento. Pessimismo morale e filosofico, scetticismo e sfiducia diventarono tratti salienti del loro carattere; ma si poteva anche parlare di una malcelata nostalgia di tenerezza (passiva), di avversione al lavoro, di incapacità a sopportare sforzi di lunga durata , insomma un certo grado di infantilismo emozionale (…)” (ibidem, pag. 362).

E ancora: “(…) i bambini accolti freddamente e senza affetto muoiono con facilità o hanno una propensione a morire. Essi possono cioè utilizzare una delle tante possibilità organiche per un rapido decesso, ma anche quando si sottraggono a questo destino, conservano una disposizione al pessimismo e una sorta di svogliatezza di fronte alla vita” (ibidem, pag. 363).

L’acuita forza dell’istinto di morte in tali bambini è, a parere di Ferenczi, comprensibile poiché il lattante è molto più vicino rispetto all’adulto allo stato di non-esistenza, non essendone ancora separato sufficientemente dalla durata dell’esperienza di vita; quindi risulta facile, in virtù di eventi negativi, che scivoli all’indietro, nella non-vita. “La “forza vitale” capace di resistere alle difficoltà della vita non è dunque di per sè così grande, ed è solo a condizione di venir trattato ed educato con delicatezza che il bambino acquisisce una progressiva immunizzazione contro i danni fisici e psichici (…) solo nella maturità, in

sostanza, l’istinto di vita arriverebbe a equilibrare le tendenze distruttive”

(ibidem, pag. 364).

La definitiva concettualizzazione del trauma viene formulata nell’opera

“Confusione delle lingue tra adulti e bambini” (1932). Alla base del trauma, molto più frequente di quanto non si pensi, vi è una confusione tra il linguaggio della tenerezza del bambino e il linguaggio della passione dell’adulto, ovvero alla richiesta di tenerezza infantile si risponde, per un morboso fraintendimento, come se si trattasse di una richiesta sessuale.

Il meccanismo soggiacente viene così descritto: “Un adulto e un bambino nutrono affetto reciproco; il bambino ha la fantasia di fare per gioco la parte della madre con l’adulto. Questo gioco può assumere forme erotiche, pur rimanendo al livello delle manifestazioni di tenerezza. Ma le cose vanno diversamente quando l’adulto ha delle tendenze patologiche (…). Allora egli scambia gli scherzi del bambino per desideri di una persona sessualmente sviluppata, oppure si lascia andare ad atti sessuali, senza valutarne la conseguenze” (ibidem, pag. 421).

Traumi possono essere non solo di natura sessuale ma anche aggressiva; oltre all’amore passionale, può verificarsi anche la punizione passionale e il terrorismo della sofferenza (quando il genitore, del tutto ingiustificatamente, scarica sul figlio la responsabilità dei propri dispiaceri).

Il piccolo traumatizzato, sotto la prepotenza e l’autorità degli adulti, reagisce con paura paralizzante, cosicché ne segue che “la personalità ancora debolmente sviluppata risponda al dispiacere improvviso, anziché con processi di difesa, con l’identificazione per paura e l’introiezione di colui che minaccia o aggredisce” (ibidem, pag. 422).

Così, le conseguenze dirette della seduzione diventano l’identificazione con l’aggressore (attraverso la quale il bimbo, dimentico di sé, plasma la propria identità su quella dell’aggressore per indovinarne e anticiparne la volontà, sottomettendosi ad essa; in tal modo, la realtà esterna scompare e l’evento diventa intrapsichico); l’introiezione del senso di colpa (per cui si sente colpevole al posto dell’adulto per i suoi bisogni e le sue azioni); la scissione (che permette ad una parte della personalità di regredire alla felicità precedente al trauma, vivendo come se questo non si fosse mai verificato).

In conclusione, coerentemente con la visione ferencziana, la depressione può essere concepita come strettamente connessa al trauma e alla vittoria dell’istinto di morte, così come la maggior parte degli altri gravi disturbi psichici.

Il maltrattamento, l’abuso, il rifiuto genitoriale vengono dal bambino percepiti come da lui direttamente provocati, suscitando profondi sensi di colpa e una sorta di ordine a morire, a non esistere psichicamente; da qui quella disposizione al cupo pessimismo, ala svogliatezza di fronte alla vita, alla rinuncia, in definitiva alla depressione della forza vitale dell’individuo (Borgogno, 1999b).