EZIOPATOGENESI DELLA DEPRESSIONE SECONDO IL MODELLO PSICODINAMICO
2.2. LA DEPRESSIONE SECONDO UN MODELLO RELAZIONALE- RELAZIONALE-PSICODINAMICO
2.2.3. JOHN BOWLBY
John Bowlby (Londra, 1907 - 1990) pediatra e psicoanalista londinese, fautore della celebre teoria dell’attaccamento, ha influenzato notevolmente la psicologia più recente, rivoluzionando il modo di concepire il legame primario fra madre e bambino (Lis, Stella, Zavattini, 1999).
Dopo aver conseguito la laurea presso l’università di Cambridge nel 1928, Bowlby lavorò come volontario in una scuola per bambini con problemi psicologici, maturando la decisione di avvicinarsi alla psichiatria e alla psicoanalisi infantile. In concomitanza con gli studi di medicina e psichiatria, intraprese il tirocinio presso il British Psychoanalytic Institute, dominato a quel tempo dall’influenza di Melanie Klein; difatti, in quegli anni, fu in analisi con Joan Rivière, vicina alle idee kleiniane e, successivamente, in supervisione
dalla stessa Klein. Pur riconoscendo loro il merito di averlo indirizzato alla psicoanalisi infantile, espresse fin da subito riserve su alcuni aspetti dell’approccio kleiniano; mentre ella attribuiva quasi interamente i problemi emotivi infantili alle fantasie generate da conflitti interni pulsionali, Bowlby era giunto alla convinzione che le esperienze familiari vissute fossero di gran lunga più rilevanti nel determinare l’insorgenza dei disturbi psichici, maturando un precoce interesse teorico e clinico per l’indagine delle relazioni primarie del bambino (Liotti, in Bara, 1996). Compì il tirocinio post-laurea alla Child Guidance Clinic, realizzando il suo primo studio empirico, fondato sulle cartelle cliniche dei casi osservati, al fine di collegare i loro sintomi a storie di separazione e di deprivazione materna.
Alla fine della seconda guerra mondiale, divenne direttore del reparto infantile della Tavistock Clinic, da lui ribattezzato “reparto per bambini e genitori” sulla base della sua convinzione di poter aiutare i piccoli offrendo supporto ai genitori.
Qui creò il primo gruppo di ricerca finalizzato allo studio della separazione madre-bambino ove, nel 1950, giunse anche Mary Ainsworth, con la quale Bowlby intrecciò una collaborazione fruttuosa che l’avrebbe condotto alla formulazione completa delle sue teorizzazioni (ibidem).
Nel 1949 (Lis, Stella, Zavattini, 1999), ricevette l’incarico dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) di studiare la salute mentale dei bambini senza famiglia nell’Europa del dopoguerra, compito che portò alla pubblicazione di un rapporto e di un filmato, dal titolo “Cure materne ed igiene mentale” (1951) che ebbe un fortissimo impatto in ambito scientifico, suscitando non poche controversie.
In tale lavoro, Bowlby evidenziò molto chiaramente gli effetti nocivi attribuibili alla separazione prolungata o alla perdita della figura materna, cause dirette di reazioni e di processi psicopatologici nella vita futura, e sottolineò la basilarità di una relazione affettuosa, intima, continuativa e gratificante con la madre, nel periodo critico della primissima infanzia: “la psiche indifferenziata sembra dover essere sottoposta, in certi periodi critici, all’influenza dell’organizzatore psichico - la madre (…) Il bambino è perciò dipendente, in questo periodo, dalla madre il cui meccanismo mentale funziona per lui (…). Essa è il suo Io e il suo Super-Io (…). Lo sviluppo dell’Io e del Super-Io è dunque inestricabilmente legato ai primi rapporti umani del bambino” (ibidem, pag. 69-70).
La responsabilità, non unicamente attribuibile ai genitori, dovrebbe essere condivisa anche da una rete sociale di sostegno: “come i bambini dipendono completamente dai propri genitori per la loro sussistenza, così (…) i genitori, soprattutto le madri, dipendono dalla società. Se una società s’interessa ai propri bambini, deve prendersi cura anche dei loro genitori” (ibidem, pag. 113).
Partendo da questi primi risultati, Bowlby continuò il suo impegno di ricerca, attingendo a molteplici discipline (la cibernetica, la teoria dei sistemi, l’approccio piagetiano e, in particolare, l’etologia e la teoria evoluzionistica), fondando però sempre le proprie convinzioni su numerosi studi empirici e su osservazioni dirette. Nonostante il carattere interdisciplinare, il suo imprescindibile schema di riferimento rimase sempre la psicoanalisi, sviluppandone ampiamente il modello relazionale; in lui la teoria delle relazioni oggettuali trovò una piena formulazione ed applicazione (Lis, Stella, Zavattini, 1999).
La maggior eredità di Bowlby, frutto del lavoro di tutta la sua vita, fu l’elaborazione della cosiddetta teoria dell’attaccamento, la quale offre un impianto concettuale di grande importanza e valore euristico per comprendere sia lo sviluppo psichico nell’infanzia, sia la psicopatologia (quindi, per lo scopo del presente discorso, anche la depressione).
Le prime esposizioni ufficiali di tale teoria avvennero tra il 1958 e il 1962, ma la sua prima formulazione definitiva e completa venne presentata nella trilogia
“Attaccamento e perdita”, composta da tre volumi: “L’attaccamento alla madre” (1969), “La separazione dalla madre” (1973), “La perdita della madre” (1980).
Nel primo volume, “L’attaccamento alla madre” (1969), Bowlby afferma che negli organismi più evoluti, quindi principalmente nell’uomo, agiscono sistemi comportamentali complessi che guidano la condotta, modulando gli istinti e le pulsioni con intenzioni di ordine superiore.
Un primitivo sistema motivazionale, operante sin dalla nascita, è costituito dall’attaccamento, concepito come una motivazione primaria, un bisogno primario del bambino di stringere e mantenere un legame affettivo preferenziale di amore e di vicinanza con un’altra persona (la madre). Tale bisogno di attaccamento non si fonda sulla necessità fisiologica di soddisfacimento di esigenze alimentari o fisiche, ma piuttosto sulla base di predisposizioni innate, avendo una propria funzione biologica interna di natura affettiva ed emotiva.
“Nel bambino c’è una tendenza innata a tenersi in contatto con un essere umano e ad attaccarsi ad esso. In questo senso c’è il “bisogno” di un oggetto indipendentemente dal cibo, bisogno che è non meno primario del “bisogno” di cibo e di calore. Propongo di chiamare questa posizione “teoria dell’attaccamento primario all’oggetto”” (ibidem, pag. 220).
L’attaccamento comporta nel bambino un conseguente comportamento di attaccamento, definibile come tutto un insieme di attività mirate ad assicurare e a mantenere la vicinanza con la figura di attaccamento; esso viene innescato dalla separazione, o dalla minaccia di allontanamento, e viene mitigato dalla prossimità fisica; difatti, “non possiamo veramente affermare che vi sia un comportamento di attaccamento fino a che non è dimostrato che il bambino non solo riconosce la madre, ma tende anche a comportarsi in modo da mantenersi vicino a lei” (ibidem, pag. 245).
Il comportamento di attaccamento è caratterizzato da cinque fondamentali modelli di condotta: il succhiare, l’aggrapparsi, il seguire, il piangere, il sorridere, azioni che si dirigono in maniera discriminante verso la figura di attaccamento specificatamente riconosciuta; ciò avviene inequivocabilmente nel corso della seconda metà del primo anno di vita.
Una volta stabilito l’attaccamento, il legame diventa via via più complesso, carico di profonda affettività: “Nessuna forma di comportamento più che il comportamento di attaccamento è accompagnata da intensi sentimenti. Le figure verso le quali esso è diretto sono figure amate, e il loro arrivo è salutato con gioia” (ibidem, pag. 256).
La qualità del rapporto che viene a crearsi può essere sia positiva sia negativa (attaccamento sicuro e attaccamento insicuro) e dipende direttamente dalla capacità e dalla sensibilità della figura di attaccamento (la madre) di recepire e rispondere ai segnali del bambino (sebbene in una certa misura ne venga influenzato anche dai fattori costituzionali di quest’ultimo).
Pertanto: “quando l’interazione fra i due membri di una coppia funziona bene, ogni membro manifesta intenso piacere per la compagnia dell’altro. Viceversa, quando l’interazione dà luogo a un conflitto persistente, ogni parte tende a manifestare in qualunque occasione intensa angoscia o infelicità, specialmente quando l’altro è rifiutante” (ibidem, pag. 293).
Modelli ripetuti di esperienze interattive di attaccamento generano, nella mente del bambino, dei modelli operativi interni (working models), ovvero rappresentazioni di se stesso, degli altri e dell’ambiente, organizzate attorno alle aspettative di risposta delle figure accudenti, che vengono generalizzate e formano dei riferimenti rappresentazionali relativamente fissi che il bimbo usa per predire il mondo e mettersi in rapporto con esso, guidando profondamente il decorso dello sviluppo psichico del piccolo; pertanto, la qualità dell’attaccamento risulta strettamente connessa alla qualità del funzionamento mentale nella vita adulta.
Un attaccamento sicuro determinerà un modello dell’altro come persona amorosa ed affidabile e un modello di sé come valente, adeguato, degno; al contrario, un attaccamento insicuro porterà a vedere il mondo come ostile, pericoloso, inaffidabile, respingente e a considerare se stesso come indegno e non amabile (Lis, Stella, Zavattini, 1999).
Nel secondo volume della trilogia, “La separazione dalla madre” (1973), Bowlby individua nei bambini due distinte classi di stimoli che elicitano paura e promuovono due forme opposte di fuga: la presenza di indizi di pericolo (fuga dalla situazione minacciosa) e l’assenza di una figura di attaccamento (fuga verso di essa).
Secondo l’Autore: “delle molte situazioni atte a suscitare paura prevedibili da un bambino e da un adulto, nessuna ha maggiore probabilità di spaventare che l’eventualità che una figura di attaccamento sia assente o, in termini più generali, non sia disponibile quando se ne ha bisogno” (ibidem, pag. 257).
La separazione prolungata dalla madre costituisce una condizione estremamente paurosa e penosa per il piccolo, capace di suscitare reazioni emotive negative progressivamente sempre più disfunzionali per lo sviluppo psicologico. Dapprima, il bambino reagisce con angoscia, pianto, agitazione, irrequietezza. Poi subentra la collera, la rabbia, il risentimento che si intensificano fino a tramutarsi in collera non funzionale. Infine, raggiunge uno stato di rassegnazione e l’affetto verso la figura di attaccamento si esaurisce;
“la collera non funzionale si verifica quando una persona, bambino o adulto, diventa tanto intensamente e/o persistentemente irritato verso il suo partner, che il legame tra di loro si indebolisce, anziché rafforzarsi, e il partner si estranea (…). Le separazioni, specialmente quando prolungate o ripetute,
hanno un doppio effetto: da una parte suscitano la collera; dall’altra attenuano l’amore” (ibidem, pag. 317).
Condizioni di separazione, fisica o emotiva, possono manifestarsi in svariate situazioni: dopo la morte della madre, dopo un periodo di allontanamento o di cure sostitutive, dopo un ricovero ospedaliero, in mancanza di figure di riferimento stabili, in relazioni rifiutanti e ostili, in conseguenza di minacce di abbandono o di suicidio con le quali ricattare il bimbo e ottenerne l’obbedienza.
Conseguenza di tale carenza materna, reale o psicologica, consiste nel formarsi di un attaccamento insicuro e di inevitabili modelli operativi negativi;
difatti, se il genitore si sottrae e si separa con modalità diverse dalle richieste di conforto e di sostegno del figlio, questi costruirà un modello interno di sé come persona poco valida, indegna d’amore, inadeguata.
Una simile predisposizione negativa interiore costituirà un fattore di vulnerabilità evolutiva all’insorgenza di disagi o, addirittura, di patologie psichiche: “stati di angoscia e di depressione che si presentano nell’età adulta, e anche condizioni psicopatiche, possono essere collegate in modo sistematico agli stati di angoscia, disperazione, distacco (…)” di quando “un bambino viene separato per lungo tempo dalla sua figura materna, o quando teme una simile separazione, o quando (…) perde tale figura per sempre” (ibidem, pag. 21).
Fra le altre, la depressione viene quindi ricondotta da Bowlby all’attaccamento insicuro connesso alle diverse possibili forme di separazione ed assenza materna.
Nel terzo ed ultimo volume della raccolta, “La perdita della madre” (1980), il discorso delle conseguenze patogene, soprattutto di natura depressiva, della deprivazione affettiva viene approfondito nell’affrontare la drammatica evenienza del lutto per la perdita della madre.
Bowlby assegna al concetto di perdita un significato più ampio: non solo la morte della figura di attaccamento, ma anche abbandoni, separazioni, divorzi, cure sostitutive, disamore e rifiuto da parte dei genitori. Tutte queste situazioni predispongono a legami ansiosi o ambivalenti e ad evoluzioni psicopatologiche, giacché risulta, secondo l’Autore, che “(…) gran parte delle malattie psichiatriche siano un’espressione di lutto patologico, o che tali malattie includano molti stati di angoscia, di depressione o di isteria” (ibidem, pag. 36).
In particolare, esperienze di perdita che possono determinare un quadro
depressivo nella vita adulta sono: il non aver mai instaurato un rapporto stabile e sicuro coi genitori; il non essere riuscito a soddisfare le loro richieste, in uno stato di amore non incondizionato; l’essere stati spesso rinfacciati di mancanza di amabilità, di inadeguatezza, di inettitudine; la reale perdita del genitore, per morte o per allontanamento. Queste eventualità relazionali agiscono come agenti provocanti o come fattori di vulnerabilità che aumentano la sensibilità individuale verso decorsi depressivi; ne consegue, infatti, che il bambino sviluppa un modello di sé come essere non amabile e non desiderabile e un modello degli altri come rifiutanti ed ostili, da cui dipenderà il suo sentirsi impotente, inferiore, pessimista, non degno di ricevere affetto e considerazione.
“Nella maggior parte delle forme di disturbo depressivo, ivi compreso il lutto cronico, il punto principale a proposito del quale una persona si sente impotente è la sua incapacità di mantenere rapporti affettivi. La sensazione di essere inetti sotto questo particolare aspetto si può a mio parere attribuire alle esperienze avute nella famiglia d’origine” (ibidem, pag. 299).
E ancora: “Il modello demoralizzato del paziente è la conseguenza naturale di ciò che egli pensa di sé e del mondo, e di come prevede il proprio avvenire”
(ibidem, pag. 302), quindi delle esperienze relazionali reali.
Le concezioni teoriche di Bowlby furono sostenute ed ampliate dalla sua collaboratrice Mary Ainsworth, la quale completò la teoria dell’attaccamento introducendo un sistema di classificazione delle diverse forme di legame madre-bambino, direttamente derivato dall’applicazione di una rigorosa procedura sperimentale su base osservativa, definita Strange Situation (Ainsworth, 1963, 1967, 1978). Questa procedura di laboratorio venne formulata con l’intento di esaminare l’equilibrio tra attaccamento ed esplorazione, in bambini di età compresa tra i dodici e i diciotto mesi.
In tale “situazione insolita” appunto, il bimbo viene introdotto insieme alla madre in una stanza adibita al gioco che vede per la prima volta; qui sono accolti da una persona sconosciuta; dopo pochi minuti il genitore esce dalla stanza e si osservano le reazioni del piccolo alla separazione; trascorsi al massimo tre minuti, la mamma ritorna e si registrano le reazioni del bimbo al ricongiungimento.
Grazie a questo esperimento, la Ainsworth evidenziò tre pattern di attaccamento, oggi accertati con sicurezza (Liotti, in Bara, 1996):
- L’attaccamento insicuro-evitante (A), in cui il bambino mostra un’apparente indifferenza alla separazione e, al momento della riunione, mantiene tale indifferenza cercando attivamente di evitare il contatto con la madre; tipico di bambini abituati ad essere rifiutati, evitati seccamente quando richiedono vicinanza affettiva.
- L’attaccamento sicuro (B), nel quale il bambino protesta vivacemente al momento della separazione, cercando attivamente la madre assente, ma si calma prontamente dopo il ricongiungimento; tipico di bambini fiduciosi nei confronti di un genitore sensibile e responsivo.
- L’attaccamento insicuro-ambivalente/resistente (C), in cui il bambino protesta durante la separazione ma non riesce a calmarsi e a confortarsi quando il genitore ritorna, rifiutando il suo abbraccio che dovrebbe placarne il disagio;
tipico di bambini incerti circa la disponibilità di un genitore non sempre coerente nelle sue risposte.
Successivamente, venne delineato anche un quarto schema:
- L’attaccamento insicuro-disorganizzato/disorientato (D), in cui il bambino reagisce con comportamenti contradditori e disorganizzati sia al momento della separazione sia al momento della riunione (sguardo fisso, perso nel vuoto o rivolto altrove, movimenti goffi e rallentati, stati oniroidi come dissociati, cambiamenti repentini, rabbia, repulsione, paura); tipico di bambini in situazioni di accudimento fortemente negative e patologiche.
Gli studi sull’attaccamento sono proseguiti fino all’epoca più recente; ancora oggi la teoria Bowlby-Ainsworth continua ad essere stimolo per ricerche di portata sempre più vasta nel campo della psicologia e della psicopatologia dello sviluppo (anche oltre l’ambito psicodinamico), dimostrando la stretta connessione fra stile di attaccamento e qualità dell’accudimento materno e proclamando in maniera ormai incontestabile il ruolo delle relazioni affettive primarie nello sviluppo sano o non sano del bambino. L’attaccamento insicuro è stato inequivocabilmente individuato quale precursore di difficoltà e di disturbi psichiatrici in età adulta (Lis, Stella, Zavattini, 1999).
In particolare (come affermato da Ruberti, in Bara, 1996), fra i diversi pattern di attaccamento insicuro, quello che sembra predisporre maggiormente alla costituzione di una personalità di tipo depressivo, che può poi scompensare o meno in sindromi depressive sintomatiche, risulta essere lo stile di
attaccamento insicuro- evitante (A) rintracciabile in esperienze di non-ascolto, indifferenza o aperta ostilità da parte delle figure genitoriali.
Un accudimento di questo tipo può essere frutto di situazioni familiari diverse:
atteggiamenti distanzianti di una madre che non accetta il proprio ruolo o che sia incline a favorire nel figlio una troppo precoce autonomia; esperienze di prolungato allontanamento o di lutto precoce; una madre disturbata da problemi medici o sociali; una madre sofferente di depressione che non riesce a rappresentarsi mentalmente il suo bambino e il suo compito materno (gravi le possibili conseguenze di una depressione post-partum, come si evidenzierà in seguito).
Ripetuto distacco, lontananza, rifiuto, non curanza, deprivazione e carenza (fisica o affettiva) portano il bambino a formarsi una rappresentazione di sé come persona negativa, attraverso la sensazione di essere direttamente responsabile della condizione in cui vive. Pertanto, egli salvaguardia la bontà della sua figura di attaccamento, assumendo su di sé tutta la colpa e strutturando un nucleo depressivo attorno a vissuti di non amabilità, non valore personale, inadeguatezza, svalorizzazione ed inferiorità.
Come riflessione conclusiva, per chiudere questa prima parte dedicata alla sintomatologia e all’eziologia della depressione, si è ritenuto significativo affrontare queste tematiche, nell’ambito di un lavoro di ricerca sulla depressione post-partum, al fine di indagare le caratteristiche, le dinamiche e i vissuti di una patologia grave e diversificata, della quale la forma ad insorgenza nel post-partum rappresenta una tipologia più specifica.
I contributi esposti non hanno in alcun modo la pretesa di essere esaustivi o di ritenere completato un discorso indubbiamente molto più ampio di quanto qui proposto; si è tentato di illustrare i disturbi depressivi e di evidenziare il più possibile le modalità attraverso le quali sono stati interpretati nel corso della storia della psicoanalisi, dalle origini fino a tempi più recenti, presentando alcuni degli Autori che più hanno collaborato, con le loro opere, alla comprensione attuale dei meccanismi sottesi alla depressione stessa.