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la complessa geografia religiosa del Piemonte settecentesco

4. Difformità territoriali fra province e diocesi: i casi di Asti e Cuneo

4.1. Una provincia, nove diocesi: il caso di Asti

4.1.4. Il caso di Castelnuovo d’Asti:

da confine medievale a enclave anacronistica

Il problema della grande irregolarità dei confini religiosi era avvertito anche a livello delle singole comunità locali, che in taluni contesti pativano gli effetti negativi che l’eccessiva frammentazione comportava non solo rispetto alle esigenze organizzative della parrocchia a livello istituzionale, ma anche nelle conseguenze che talvolta avevano sulla vita stessa dei singoli e delle famiglie. Di particolare interesse appare essere il caso di Castelnuovo d’Asti (ora Castelnuovo don Bosco): si tratta di una comunità posta in provincia di Asti, a ridosso della provincia di Torino, al crocevia di diversi confini diocesani. Castelnuovo fino al 1805 fu una

enclave della diocesi di Vercelli, attorniata da parrocchie che afferivano alle curie di

Torino (Moncucco, Moriondo e Buttigliera), Asti (Capriglio) e Casale (Mondonio, Pino e Albugnano) (carta 9). Infatti nel 1474 le parrocchie monferrine erano passate alla neo-costituita diocesi “dinastica” di Casale, mentre i territori astigiani (come Castelnuovo) e quelli dei Radicati (Passerano, Cocconato, ecc.) rimasero a Vercelli

135. Nel 1805 la parrocchia castelnovese, a differenza delle vicine comunità di Berzano e Albugnano, venne poi assegnata alla diocesi di Asti e solo nel 1817 passò all’arcidiocesi torinese cui tuttora è soggetta.

cfr. Sturani 1995. Sulla storia di Marmorito cfr. Binetti 1939; Moiso 2009, Fassino 2009c, Pia 2010, pp. 169-171.

Carta 9 – Castelnuovo d’Asti, enclave vercellese (verde acqua) contornata da parrocchie delle diocesi di Torino (in rosso), Asti (in verde chiaro) e Casale (in viola).

L’intero alto astigiano, di cui Castelnuovo è il paese preminente, fu storicamente un coacervo non solo di confini ecclesiastici, ma anche di frontiere politiche e amministrative. Gli archivi comunali di tutto il territorio alto astigiano conservano abbondante documentazione attestante le reiterate istanze, fra Sette e Novecento, di passare dalla circoscrizione provinciale di Asti (e per lungo tempo, di Alessandria) a quella di Torino. La capitale sabauda, per importanza politica ed economica era vissuta dalla popolazione locale come indubbio punto di riferimento sociale ed economico e la maggior vicinanza di Torino rispetto ad Asti (e, soprattutto, ad Alessandria) era quindi uno dei motivi principali, anzi il primo, che veniva allegato a tutte le richieste di mutazione provinciale. Tali richieste non vennero mai accolte (salvo una breve parentesi durante la Restaurazione, fra 1814 e 1819). Anche il governo napoleonico, che mutò profondamente le circoscrizioni amministrative introducendo la nuova suddivisione dipartimentale, pur condividendole in linea di principio, respinse le istanze castelnovesi per il fatto che “les convénances de proximité appliqées à la question présente feroient naître une foule de réclamations” da parte di territori in situazioni analoghe, con il rischio di innescare una scomposizione amministrativa di fatto poi non più gestibile. È significativo come il

prefetto Hue Jacques Éduard Douchy argomentasse che, dietro alle istanze degli amministratori locali, vi fosse in realtà il clero locale: “les prêtres du Diocése en relation avec l’Eglise de Turin ont exercé leur influence [...] cette derniere réclamation est due encore à leurs conseils, et que des motifs bien étrangers au bien publique l’ont dictée”136. Nel cantone di Castelnuovo, con i nuovi confini diocesani stabiliti pochi mesi prima, metà dei comuni afferivano alla diocesi di Torino (Moncucco, Buttigliera, Berzano e Albugnano) mentre i restanti quattro (Castelnovo, Pino, Mondonio e Primeglio-Schierano) erano stati assegnati ad Asti. Quanto segnalato dal prefetto non ha trovato, sino ad oggi, ulteriori conferme ma appare comunque plausibile. Se si considera poi che la parrocchia di Moncucco era in quegli anni affidata al teologo Francesco Cottino, fedelissimo e stretto collaboratore degli arcivescovi torinesi per oltre un quarantennio, il quale aveva un forte ascendente sulla popolazione locale e sugli stessi amministratori pubblici, si capisce anche chi fu, probabilmente, se non il ‘registra occulto’, comunque uno degli ispiratori dell’istanza che voleva cercare di legare definitivamente all’area torinese degli interessi, non solo religiosi ma anche civili, del territorio alto-astigiano137.

Nel contesto di questo tentativo di avvicinamento “amministrativo” e “circoscrizionale” a Torino si colloca anche l’aspirazione della comunità castelnovese, maturata nel corso del XVIII secolo, a venire aggregata all’arcidiocesi di Torino. La questione venne affrontata in un memoriale indirizzato al sovrano, di cui è conservata la minuta presso l’Archivio storico comunale138. Il documento è senza data, ma la sua redazione è riferibile credo agli ultimi decenni del Settecento (1770-1790 circa). Nel memoriale venivano messi in evidenza i motivi per cui la comunità castelnovese richiedeva il cambio di diocesi da Vercelli a Torino: si tratta in particolare della distanza più che doppia di Vercelli rispetto a Torino, distanza resa 136 Archives Nationales, Paris, F/2(I)/859, istanza dei sindaci e del giudice di pace del cantone di Castelnuovo al Ministro degli Interni del 14 brumaio XIV (5 novembre 1805) e parere del Prefetto di Marengo del 14 gennaio 1806 (parzialmente cit. in Pansini 2007, p. 268). Entrambe i documenti sono qui integralmente trascritti in appendice (n. 7).

137 Ciò è documentato ad esempio dai carteggi del Cottino, parte presso l’Archivio storico della Parrocchia San Giovanni Battista di Moncucco, parte presso l’Archivio Arcivescovile di Torino. In questa prospettiva si possono ricordare, a titolo esemplificativo, i suoi interventi a favore dell’uso pubblico della fonte di acqua solforosa di Bardella (Castelnuovo don Bosco) e le numerose opere idrauliche da lui realizzate a Moncucco per conto dell’amministrazione comunale.

138 Archivio storico del Comune di Castelnuovo don Bosco, Era Antica, faldone n. 42, fasc. 46, Motivi per

muovere S.R. Maestà a far ascrivere Castelnuovo sotto la Diocesi di Torino, e Vicaria di Chieri. Il

più gravosa dalla presenza del guado sul Po139, non sempre attraversabile, e da strade non sempre praticabili, in particolare nel tratto monferrino – che era interamente collinare –, cioè da Castelnuovo fino al fiume Po. Così il memoriale predisposto dagli amministratori di Castelnuovo illustrava le effettive difficoltà di accesso a Vercelli:

l° Cammino di trenta miglia circa.

2° Strada quasi impraticabile ne’ tempi d’autunno, inverno e primavera dovendosi oltrepassar tutto il Monferrato.

3° Il fiume Po da varcare, che spesse fiate niega il tragitto a cagion della pienezza dell’acque, o si permette soventi non senza evidente pericolo della vita. Onde avviene che non di rado o si ritardano, od aver non si possono le opportune provvidenze per le dispense, che frequenti si richiedono; o non si dà pronto riparo a’ disordini, che occorrono malgrado di tutto il popolo.

A Vercelli i castelnovesi erano obbligati a ricorrere per tutte quelle pratiche di amministrazione ecclesiastica che necessitavano dell’autorizzazione vescovile o pontificia: in particolare tale autorizzazione era necessaria per le dispense matrimoniali, da richiedersi sia per matrimoni tra parenti e affini sino almeno al quarto grado140, sia per matrimoni con extra-diocesani. In quest’ultimo caso infatti il parroco, per il tramite dell’autorità vescovile, doveva verificare che il nubendo dell’altra diocesi non fosse già sposato, al fine di evitare casi di bigamia (Lombardi 1996; Zarri 2000, pp. 224-225, 228). Entrambe queste casistiche a Castelnuovo dovevano essere abbastanza frequenti, in quanto venivano a sommarsi la forte 139 Nel XVIII secolo gli unici ponti di attraversamento del Po erano quelli di Torino (in legno, come si può vedere nella Veduta dell’antico ponte sul Po a Torino di Bernardo Bellotto, presso la Galleria Sabauda di Torino) e di Casale (dove vi era un semplice ponte mobile di barche). La direttrice più breve fra Castelnuovo e Vercelli prevedeva quindi necessariamente l’attraversamento del Po, probabilmente per mezzo del porto natante sito fra Verrua e Crescentino. Fino alla metà del Novecento mancava inoltre la “strada delle grange”, che ora attraversa obliquamente la pianura risicola: da Crescentino si era infatti costretti a proseguire, attraverso percorsi lunghi e tortuosi, sino a Vercelli; cfr. Aa.Vv. 2002, Sarasso 1999, pp. 85-91.

140 Flandrin 1979, pp. 63-64, 80. Questo caso lo si ritrova ad esempio nelle nozze contratte il 10 luglio 1795 a Castelnuovo d’Asti fra Giovanni Cafasso e Orsola Beltramo, genitori di san Giuseppe Cafasso, per i quali furono “omissis denuntiationibus supra quibus ab Eminentissimo et Rev.mo Domino Domino Episcopo Cardinali fuit indultum, impetrata a Sancta Sede dispensatione supra quintum et quartum affinitatis gradum, quoerant supradicti irretiti” (Allamano 2002, vol X, pp. 224-225 e 226 n 11). L’eminentissimo cardinale citato nell’atto era l’allora vescovo di Vercelli Carlo Giuseppe Filippa di Martiniana (1724-1802). Secondo un verosimile modello teorico costruito dallo storico Jean-Louis Flandrin, nelle società endogamiche di antico regime per ogni giovane in età di matrimonio vi sono mediamente almeno 43 ragazze da marito che è proibito sposare perché parenti entro il quarto grado. In caso di seconde nozze il numero raddoppia in quanto si sommano per affinità le 43 ragazze teoriche imparentate con la prima moglie (Flandrin 1980, p. 19; sul complesso sistema delle dispense matrimoniali cfr. anche Merzario 1981, 1982).

attitudine all’endogamia territoriale, la tendenza cioè a prendere moglie nel raggio di pochi chilometri, con il fatto che la parrocchia era completamente circondata da paesi soggetti ad altre diocesi: Torino, Asti e Casale. Il matrimonio di un parrocchiano di Castelnuovo con qualcuno anche solo delle vicine comunità di Moncucco, Buttigliera, Mondonio poteva quindi necessitare di un inoltro del

processicolo matrimoniale alla curia di Vercelli. Sui parrocchiani gravavano pertanto

sovente le spese del messo incaricato di recapitare appositamente la documentazione presso la lontana cancelleria vescovile: “niun traffico, e commercio di sorte alcuna tra Castelnuovo, e la città di Vercelli. Si debbono pagare espressi corrieri non meno di £. 5 per caduna volta. Onde nasce che nell’aver raccorso o pelle dispense, o nel soccorrere i Chierici, che colà si mantengono aglj studj, recasi assai grave dispendio a’ Particolari, ed alla Comunità”. Viceversa si evidenziarono i legami economici con la capitale: “il cotidiano commercio, e traffico in ogni stagione de’ mulattieri, ed altri con carri, che traducono vino, grano, e gisso a Torino”.

Il memoriale castelnovese mette in luce anche un altro problema che colpiva particolarmente le comunità che si trovavano isolate dal territorio diocesano: l’impossibilità di ricorrere, in caso di necessità, a confessori esterni provenienti dalle diocesi limitrofe, in quanto non “approvati” dall’ordinario vercellese: “la situazione di Castelnuovo circondato per ogni parte da ville, delle quali niuna è soggetta alla Diocesi di Vercelli. Quindi è che qualora non sono sufficienti i confessori del proprio luogo, non può venir soccorso da altri perché non sono approvati per la Diocesi di Vercelli”.

Che le differenze di appartenenza diocesana non fossero una semplice questione curiale, ma che potessero essere invece direttamente percepite dalla popolazione nel proprio vissuto esperienziale e quotidiano è un dato che sembra emergere per altri aspetti anche dall’analisi della documentazione settecentesca relativa alla parrocchia di Mondonio, località prossima a Castelnuovo, del cui territorio comunale anzi è parte integrante dal 1929. Mondonio, ora in diocesi di Asti, appartenne fino al 1805 alla diocesi di Casale Monferrato, ed era uno fra i paesi più lontani, se non addirittura il più lontano dalla sede vescovile. Tale lontananza rendeva evidentemente difficili e complesse le comunicazioni fra ‘centro e periferia’, probabilmente sporadiche le visite pastorali e blandi i controlli del

vescovo. Non è questa la sede per entrare in dettagli che porterebbero troppo lontano dal nostro tema. Merita però segnalare quanto registrato da don Domenico Battista Signorino, parroco dal 1730 al 1742 (circa) in una relazione sugli abusi che si compivano nella sua vicaria (cioè nel territorio che oltre a Mondonio comprendeva Pino ed Albugnano). Don Signorino nel novembre 1731 notificava a mons. Caravadossi ben venti punti che richiedevano a suo avviso l’intervento riformatore del vescovo di Casale, che proprio in quei mesi compiva la visita pastorale e si accingeva a celebrare il Sinodo diocesano (Modica 1992, pp. 87-88). A disturbare il priore di Mondonio erano l’autonomia economica delle compagnie parrocchiali e le eccessive pretese di benedizioni con il Santissimo da parte dei fedeli, ma soprattutto si mostrava infastidito – ed è quel che qui interessa – dalla poca collaborazione e dallo scarso zelo degli altri sacerdoti presenti sul territorio (cappellani e maestri di scuola):

il clero – scriveva don Signorino a mons. Caravadossi – [è] scandaloso, frequenta mercati, [sono] incipriati, [indossano] calzetti bianchi, di modo che dalle vicine e circonvicine diocesi si dice, che della diocesi di Casale il clero è il più scandaloso, né tan poco assistono al confessionario, né al catechismo, né la messa grande, né vespero e benedizione con cotta

ed ancora al termine della sua relazione don Signorino insisteva:

quello che più mi rincresce si è la puoca assistenza alli divini uffizi del clero, impegnando la magior parte del tempo alli mercati, a caccie diurne e notturne con poca buona edificazione del popolo141.

La vita a ridosso dei confini diocesani di queste comunità consentiva evidentemente alle popolazioni locali di fare un confronto diretto ed immediato con il clero torinese e con quello astigiano, così da mettere facilmente in luce il poco zelo di questi preti monferrini, lasciati isolati ai margini di una diocesi troppo vasta e in cui in particolare il capoluogo, Casale, non era baricentrico rispetto al territorio.