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la complessa geografia religiosa del Piemonte settecentesco

2. Tentativi di riforma delle diocesi sabaude fra Sei e Settecento

Non è questa la sede per ricostruire compiutamente l’evoluzione e le motivazioni profonde che concorsero a determinare e consolidare nel corso dell’età moderna un quadro istituzionale della geografia ecclesiastica dei territori piemontesi complesso ed articolato, peraltro già ben definito da numerosi studi recenti (Erba 1979; Silvestrini 1997; Cozzo 2007a). Sia quindi sufficiente, in questo contesto, richiamare gli snodi essenziali e più problematici per delineare il quadro che i francesi si trovarono a dover affrontare al momento dell’unificazione del Piemonte alla Francia (11 settembre 1802). L’esigenza razionalizzatrice delle circoscrizioni ecclesiastiche manifestata da Napoleone in Piemonte aveva già trovato, lungo tutto il Settecento, numerose e diversificate occasioni di attenzione da parte sia dei governanti che degli intellettuali (Carena, Pellisseri, Morardo, ecc.).

Con l’estendersi del potere sabaudo, fra Sei e Settecento, su più vaste aree territoriali e con il parallelo rafforzarsi dell’istituzione provinciale si fece infatti via via sempre più sentita l’esigenza di razionalizzare i confini diocesani: “la crescita della provincia porta irresistibilmente lo stato che ha una vocazione giurisdizionalistica e una cultura in parte gallicana a voler far coincidere diocesi e province” (Ricuperati 2007, p. 42). L’esigenza di avere uno stato “bene amministrato” e l’estendersi via via dei confini del regno sardo-piemontese, con le acquisizioni a occidente degli Escartons di Oulx, Pragelato e Casteldelfino, a oriente del Monferrato, Novarese, Lomellina, Vigevanasco, Tortonese e Val Trebbia contribuirono a tenere viva, senza peraltro mai concretizzarla, l’idea di far coincidere giurisdizioni provinciali ed episcopali31. Se la riflessione più matura in tal senso fu probabilmente l’opera dell’avvocato Angelo Paolo Carena (infra, par. 3), essa fu preceduta da altri tentativi32, anch’essi orientati a ottenere una coincidenza fra giurisdizione civile ed ecclesiastica. Il primo a muoversi in questa direzione agli 31 Merita succintamente ricordare le principali tappe dell’estensione dei domini dei Savoia: Asti nel 1531, Saluzzo nel 1601 (ma occupata dal 1588), il Monferrato in parte nel 1631 e parte nel 1713, Pinerolo a fine XVII sec., Alessandria, Valenza e Valsesia nel 1713, Tortona e Novara nel 1738, Bobbio,Voghera, Vigevano e Alto Novarese nel 1748.

32 Va precisato che si trattava appunto di tentativi e di proposte che non si concretizzarono: la coincidenza fra provinice e diocesi non fu mai raggiunta, né nel corso del Settecento (come sembrerebbero invece lasciare intendere Bianchi 2002a, p. 30; 2002b, p. 383; Ricuperati 2007, p. 42), né con la riorganizzazione del 1817 (si vedano ad esempio i vari “difetti di circoscrizione ecclesiastica” segnalati da Ilarione Petitti di Roreto, Giovanni Eandi, Goffredo Casalis per i quali cfr. infra par. 4.1).

inizi del Seicento sembra essere stato il vescovo di Fossano, mons. Agostino Solaro di Moretta33, consigliere del duca Carlo Emanuele I. Nel 1622, dopo una generale riorganizzazione delle province sabaude34 attuata l’anno precedente, il presule fossanese consigliava al duca “di richiedere alla Sede apostolica l’erezione di sei nuovi vescovadi, in modo tale da far coincidere i confini politico-amministrativi delle province appena istituite con quelli ecclesiastico-religiosi delle diocesi piemontesi” (Cozzo 2003, p. 295)35. Le nuove diocesi da istituire, nel progetto di monsignor Solaro erano quelle di Cuneo, Pinerolo, Susa, Ceva, Biella e Savigliano. Le motivazioni erano molteplici ed essenzialmente politiche. Lo scopo di una simile operazione era infatti soprattutto quello di dimostare

al mondo maggiormente la pietà sua et il zelo alla religione, et insieme apparirà non esser i Stati suoi inferiori ad un regno per numero di città, per moltitudine de’ popoli, né per grandeza il Stato, come si potrebbe provare con l’esempio del regno di Napoli, il qual riceve più splendore dal numero delle città e de’ vescovi che da altra cosa, et pure la più parte di quelle città non devono uguagliarsi in cosa alcuna con moltissimi luoghi di Piemonte […]. È utile ancora a V.A. perché haverà maggior numero de soggetti da valersene nell’occasioni, presupponendo io che se ne farà scelta et non si ridurrà alla scarsezza in che si trova, che di tanti prelati di pochi si può servire. […] È anche utile perché di tanti vescovi qualch’uno ne riuscirà, con i favori et aiuto suoi, cardinale et forsi papa, la qual cosa apporterebbe utile grande e riputatione al Stato et V.A. ancora, come s’è visto in altre provintie con loro infinito benefitio et honore. Et V.A. lasci dire chi vuole: faccia stima di Roma, nutrisca le sue adherenze, et se vuole anche si renderà il papa partiale (Cozzo 2006, pp. 300-301).

Con l’erezione di Ceva a vescovato si sarebbe liberata questa cittadina “con l’altre del suo mandamento dal dominio spirituale del vescovo d’Alba”. Questi, così 33 Mons. Agostino (in alcuni testi chiamato però anche Agassino o Agaffino) Solaro di Moretta, detto anche il cavaliere di Moretta, entrò nella Compagnia di Gesù, fu quindi prevosto di Moretta e poi teologo auditore del cardinale Maurizio di Savoia. Fu vescovo di Fossano dal 1621 al 1625, anno in cui fu nominato vescovo di Saluzzo, sede di cui non prese però mai possesso perché morto anzitempo (Morra 1995, pp. 31-32). Scrisse un importante (ancorché poco noto) trattato sulla Sindone, comparso postumo, intitolato Sindone evangelica, historica e theologica, Torino, Cavalleris, 1627 (Zaccone 2003).

34 Cioè un’area all’epoca ancora abbastanza circoscritta, priva ancora del Monferrato e degli altri territori annessi nel corso del secolo successivo.

35 Proposizioni fatte a S.A.R. dal Cavagliere di Moretta per l’erezione de vescovadi in Cuneo, Pinerolo,

Susa, Ceva, Biella e Savigliano (1622), in Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie Ecclesiastiche, Materie Ecclesiastiche per categorie, cat. 2, Materia beneficiaria, mazzo 2, fasc. 7, ora edito in Cozzo

2006, appendice 3, pp. 300-304. Sulla proposta di mons. Solaro di Moretta cfr. Erba 1979, p. 31; Cozzo 1998, pp. 44-48; 2003, p. 295; 2006, pp. 246-247; 2007a, pp. 200-201; 2007b, pp. 202-203; Bianchi 1999, p. 6; 2002a, pp. 80-81; Merlo 2009, pp. 22-25.

come il vescovo di Casale e quello di Acqui, era infatti un suddito monferrino: bisognava invece fare in modo che “niun vescovo di dominio forestiero avesse diocesi o giurisdizione alcuna” sui territori sabaudi. Secondo la proposta di monsignor Solaro nell’erigere i nuovi sei vescovati non si sarebbero dovute toccare le rendite delle abbazie e degli altri benefici ecclesiastici già esistenti “perché direbbe Roma che V.A. vol far molti vescovati a spese della Chiesa senza utile d’essa Chiesa”. Il vescovo di Fossano di contro proponeva al duca di attingere, per dotare le nuove mense vescovili, alle rendite delle confrarie dello Spirito Santo36:

questi beni sono come derelitti, non apportano utile considerabile né al padrone né al Stato, et Roma sentirà utile per gl’emolumenti delle bolle, collazioni, vacanze, et V.A. viene a far molti vescovati di suo juspatronato senza spesa et senza interesse et senza diminutione d’abbatie né d’altri beneficii.

Le terre poi nelle quali si farà tal applicatione non perdono totalmente li redditi, ma cambiano solo il modo di consumarli. Se si dirà che i poveri restano privi di tali aiuti, si risponderà che il maggior bene si deve sempre preporre al minore, che con tutto ciò i poveri non vengono a perdere, anzi guadagnano, perché ove per tali redditi non hanno che soccorso una volta l’anno, con l’occasione del vescovo havranno l’elemosina tutto l’anno, sapendosi massime l’abuso grande che si commette nell’amministratione, et maggiore nella distributione, nella quale ben poca parte ne tocca a’ poveri, come è pur noto (Cozzo 2006, p. 303).

L’aumento delle sedi vescovili, qui intese come vero e proprio instrumentum

regni, avrebbe dunque favorito, nella strategia prospettata al duca da mons. Solaro,

un “maggior controllo sui sudditi e maggior prestigio internazionale” (Merlo 2009, p. 23), motivazioni che in parte si ritroveranno ancora un secolo e mezzo dopo nelle

Considerazioni di Carena (1878, pp. 638-639, 661-662).

Il suggerimento prospettato da mons. Solaro di Moretta per la costituzione di nuove diocesi non fu l’unico. Un secolo dopo troviamo ad esempio una proposta originale, quale appare essere l’ipotesi di istituire una nuova sede vescovile a Nizza Monferrato, caso particolarmente interessante perché rivela l’esistenza di una “spinta dal basso, un interesse da parte delle élites locali per la promozione della

36 Sulle confrarie dello Spirito Santo, “forma complessa e sfuggente di organizzazione rituale, […] osteggiata da poteri laici ed ecclesiastici” (Torre 2011, p. 33), cfr. Torre 1995, pp. 81-150 (con ampia bibliografia di riferimento alle pp. 81-82 n. 24) e Torre 2011, pp. 33-71.

città”. La proposta venne avanzata nel 1739 dall’abate di Calamandrana37, un esponente della piccola nobiltà locale, e consisteva nello smembramento di una trentina di località dalla diocesi di Acqui, poste a corona intorno alla città di Nizza. Il Calamandrana offriva in dote i benefici ecclesiastici di cui era in quel momento investito, chiedendo però in contropartita al sovrano la propria nomina a primo vescovo della cittadina: egli era infatti mosso dal “desiderio d’unire al mio decoro quello della stessa città patria” e suggeriva altresì al sovrano di erigere il territorio nicese in provincia autonoma: “formare perimenti una nuova prefettura e renderne capo questa medesima città di Nizza […] degna d’avere ancora un tale honnore” (Cozzo 2001, pp. 374-375). Il re in cambio avrebbe ottenuto, alla morte di Calamandrana, il diritto di nomina di un vescovo in più, ed un maggior prestigio per il regno. La proposta avanzata dall’abate nicese non trovò applicazione, ma essa è comunque un esempio significativo di come articolati contributi tesi a conseguire una nuova e diversa organizzazione ecclesiastica e territoriale venissero promossi anche a partire da iniziative locali, in un complesso e fecondo rapporto fra centro e periferia. Sempre fra le proproposte settecentesche tese ad aumentare i vescovati va annoverata quella di Angelo Paolo Carena che, come si vedrà meglio nelle pagine che seguono, ipotizzò nelle sue Considerazioni sopra una nuova divisione delle

province e diocesi degli Stati di S.M. il Re di Sardegna l’istituzione di ulteriori

diocesi nell’Alto Novarese (con sede a Omegna), a Biella, Susa e Cuneo (Carena 1878, pp. 663, 665; Comino 2003, p. XI), riprendendo e aggiornando al mutato quadro territoriale la proposta seicentesca di mons. Solaro i cui contenuti, a Settecento inoltrato, “mostravano ancora una sorprendente attualità” (Cozzo 2003, p. 320).

Nel corso del XVIII secolo, nonostante i Savoia fossero riusciti a mutare il quadro istituzionale con la creazione delle tre nuove diocesi di Pinerolo, Susa e Biella non fu però possibile attuare una riforma dei confini diocesani che portasse ad una riorganizzazione e razionalizzazione complessiva. Tenendo invece presente un principio che potremmo definire dei “saldi invariati” si avviò a metà del secolo una serie di permute finalizzate a riordinare in particolare le giurisdizioni piccole e 37 Non mi è stato possibile appurare l’effettiva identità dell’abate di Calamandrana, dietro cui potrebbe celarsi forse il gesuita Giulio Cesare Cordara (1704-1785) o più probabilmente il suo zio paterno, mons. Giacomo Cordara.

disperse delle abbazie nullius. Tale riordino, come si vedrà molto parziale, andò poi a toccare giocoforza anche alcune diocesi (essenzialmente Torino e, in misura minore, Alba). La prima e più consistente serie di permute la si ebbe nel 1749, contestualmente all’erezione del vescovato di Pinerolo. Nell’ambito della creazione di quella nuova diocesi fu infatti necessario provvedere anche ad un parziale riordino delle giurisdizioni che altre abbazie e priorati avevano nella vicina valle di Susa (prevostura di Oulx, priorato di San Giusto di Susa, Santa Maria Maggiore di Susa, Sacra di San Michele) (Sacchetti 1788, pp. 119-126; Cozzo 2001, pp. 355-357). Cinque parrocchie dipendenti dall’abbazia di San Giusto di Susa (contestualmente trasformata in chiesa collegiata) – di cui era abate il cardinal Carlo Vittorio Amedeo delle Lanze (1712-1784)38, in quell’anno investito della commenda abbaziale di San Benigno di Fruttuaria – furono cedute all’arcivescovo di Torino39: Vigone (ove sorgevano due parrocchie: Santa Maria del Borgo e Santa Caterina), Cantalupa (all’epoca meglio nota come Monastero), Ferrusasco (l’attuale Frossasco)

40 e la parrocchia di Priola. Quest’ultima era situata nell’alta Valle Tanaro, in un territorio circoscritto da parrocchie all’epoca sottoposte alla giurisdizione del vescovo di Alba, motivo per cui venne immediatamente permutata da Torino con Verduno: questa località, posta sulle colline delle Langhe che si affacciano sulla valle del Tanaro era infatti la parrocchia albese più vicina ai confini diocesani di Torino. Il vescovo di Alba41 aveva proposto al collega torinese una terna di parrocchie fra cui sceglierne una che compensasse appunto la cessione di Priola: si tratta di Roddi, La Morra e, appunto, Verduno42. A sua volta l’arcivescovo di Torino 38 Maria Teresa Silvestrini ha di recente sottolineato la centralità di questa figura, definendo il cardinal delle Lanze “‘ministro-ombra degli affari ecclesiastici’ per il re Carlo Emanuele III [di cui era cugino naturale], e probabilmente anche quello di arcivescovo virtuale della diocesi torinese, in velato antagonismo con monsignor Roero di Pralormo” (Silvestrini 2002, pp. 409-410; 1997, p. 360); sul card. delle Lanze cfr. i profili biografici di Stella 1990 (con ulteriore bibliografia) e Anselmo 2000, 2002, pp. 47-50. Il card. delle Lanze, dopo la morte avvenuta nel 1784, fu sepolto nella chiesa abbaziale di San Benigno di Fruttuaria dove divenne oggetto di pellegrinaggi taumaturgici, segno dell’indubbio prestigio che la sua personalità seppe mantenere lungamente anche fra il minuto popolo delle sue terre abbaziali (Di Giovanni, pp. 76, 79; Bertotto 1985, p. 21).

39 Mons. Giovanni Battista Roero (1744-1766).

40 Per l’identificazione del toponomimo cfr. Rossebastiano 1990, pp. 288-289.

41 Era all’epoca vescovo di Alba il carmelitano scalzo mons. Francesco Vasco (1727-1749).

42 Verduno confinava con la parrocchia di Pollenzo (che appartenne all’arcidiocesi di Torino fino al 1805) per il tramite di un breve tratto del fiume Tanaro, su cui si affaccivano entrambe le comunità. Va rilevato come Verduno fosse inoltre la patria del padre filippino Sebastiano Valfré (1629-1710), poi detto “l’Apostolo di Torino”, beatificato nel 1834, che proprio a metà Settecento, nel momento quindi della scorporazione della parrocchia da Alba, si trovava a Torino al centro di una intensa devozione (Dordoni

compensò l’abate di San Giusto cedendogli la giurisdizione vescovile sulle parrocchie di Coazze e Villar Almese43 (oggi Villar Dora). L’abate di Susa rimise a quello di San Michele il territorio di Coazze (comprensivo di Forno e Indiritto, successivamente eretti entrambi in parrocchia) e da questo ricevette in cambio Novaretto, Celle (frazioni di Caprie) e Villar Almese (Sacchetti 1788, p. 123). Nel complesso furono localmente cambiate molte giurisdizioni, ma a parte l’eliminazione dell’enclave di Priola, il quadro dei confini risultò mutato nella sua articolazione, ma solo parzialmente semplificato nel suo intersecarsi. Il nunzio apostolico di Torino, mons. Ludovico Merlini, aveva seguito da vicino la complessa permuta e nello specifico di Verduno riconosceva come fosse stata una scelta un po’ forzosa, ma la vedeva come una soluzione transitoria e si diceva convinto, nello scriverne al pontefice Benedetto XIV, di “dar poi in questo particolar un miglior sesto, terminata che sarà la detta erezione, allor quando si accomoderanno le altre diocesi di questo stato, secondo l’intenzione già manifestata da questo sovrano” (Cozzo 2001, p. 398 n. 116).

Il riferimento del nunzio torinese era relativo ad un ulteriore e più articolato tentativo di ridefinizione dei confini vescovili – allo studio in quel momento da parte della Segreteria degli Interni torinese (Ricuperati 1994, p. 502 n. 2) – anche in questo caso da attuarsi sempre sulla base di una nuova articolazione provinciale (ridisegnata nel 1749), proposto da Carlo Emanuele III ai vescovi piemontesi da lì a pochi anni (1751) quando si presentò un “piano di concordia tra diverse diocesi, vescovati ed abbaziali de’ Stati di S.M. di qua da’ Monti per la permuta di varie terre che hanno conclavate le une nelle altre”44. Tale piano era finalizzato ad “estendere in

1992, pp. 129-130, 136-137). Tale circostanza, ma è al momento solo un’ipotesi, potrebbe aver favorito l’inserimento di Verduno nell’ambito diocesano torinese. Angelo Paolo Carena commentò negativamente questa permuta: “non so poi qual buona ragione siasi potuto avere in questi ultimi tempi per separare dalla diocesi d’Alba il luogo di Verduno, vicinissimo a questa città, ed unirlo alla diocesi di Torino, dalla quale si erano a buona ragione per la loro distanza smembrati varii luoghi delle valli di Susa e Lucerna per unirli alla nuova diocesi di Pinerolo che la intersecava, si poteva trovare un tal compenso più vicino a Torino” (1878, p. 637). In realtà l’analisi di Carena circa il caso di Verduno appare un po’ confusa, in quanto i termini della complessa permuta erano strettamente legati fra le diocesi di Alba e Torino e in tale contesto Verduno appariva essere la soluzione più logica (cfr. supra carta 4). Cfr. anche Taricco 2004, p. 65.

43 Da non confondersi con la vicina Almese, come fa Cozzo 2001, p. 355.

44 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie Ecclesiastiche, Materie Ecclesiastiche per categorie, cat. 40, mazzo 1 da inventariare, fasc. 9. Su questo tentativo di riforma vd. Ricuperati 1994, p. 502; Erba 2007, pp. 61-70; Cozzo 2007a, p. 205; cfr. anche Libra 2003, p. 159 n. 245 (contiene ulteriori indicazioni archivistiche).

modo razionale ed uniforme un potere complesso che passava non solo attraverso le figure del governatore, dell’intendente e del prefetto, ma anche attraverso la sacralità del vescovo, che doveva la sua nomina al sovrano” (Ricuperati 1994, p. 502). Il progetto riorganizzativo era basato su due “riflessi” fondamentali: da un lato “la necessità che vi è di fare questo scambio”, dall’altro l’idea che ogni modifica andasse in qualche modo equilibrata e ricompensata, valutando di caso in caso “l’indennità di ciascuna diocesi che, ciò facendo, può e deve procurarsi”. Il contenuto del “piano di concordia”, come ha messo bene in luce Achille Erba si basava sull’“esigenza fondamentale, sotto il profilo pastorale, di eliminare le distanze delle periferie diocesane dai vari capoluoghi episcopali” (Erba 2007, pp. 62-63). Le ragioni addotte erano la necessità di mantenere l’ortodossia della fede (soprattutto nelle zone soggette all’influenza valdese, cioè le valli pinerolesi) e la disciplina ecclesiastica, oltre alla necessità di agevolare i ricorsi alle Curie vescovili da parte dei fedeli senza doversi sobbarcare “viaggi e dispendi gravissimi”. Sono ragionamenti e problematiche che si ritroveranno ad esempio, come si vedrà, nel caso di Castelnuovo d’Asti (infra, par. 4.1.4). Gli indennizzi previsti prevedevano di valutare le permute in base al numero di ecclesiastici residenti e di fedeli, oltre ad una valutazione economica di “qualità e quantità de’ benefici tanto curati che semplici, patronati e di libera collazione” (Erba 2007, p. 63).

Nel caso della diocesi eporediese, recentemente analizzato da Erba e che possiamo qui sintetizzare a titolo di esempio, era prevista una permuta con le confinanti diocesi di Torino e di Vercelli. Ivrea avrebbe dovuto cedere a Torino le parrocchie di Volpiano, Chivasso, Verolengo (comprensivo all’epoca anche di Torrazza Piemonte) e l’intero vicariato foraneo ultra Padum, cioè i territori situati a sud del Po: San Sebastiano, Moriondo di San Sebastiano, Casalborgone e Berzano, tutti paesi considerati lontani da Ivrea “e più a portata di Torino”. Viceversa Torino avrebbe dovuto compensare Ivrea cedendo buona parte delle parrocchie pedemontane dell’Alto Canavese: Cuorgnè, Canischio, Rivara, Camagna (ora frazione di Rivara), Pratiglione, Pertusio, Prascorsano, San Colombano, San Ponzo, Salassa, Valperga e Favria45. Alla diocesi di Vercelli Ivrea avrebbe potuto invece 45 Merita segnalare che Favria fino al 1801 – pochi anni prima dunque della riforma attuata dal card. Caprara – era suddivisa in due parrocchie: San Pietro “de Peza”, sottoposta alla diocesi di Ivrea, e San Michele “in castro”, appartenente all’arcidiocesi di Torino (Berta 1994 e 1995; Forneris, Oppesso 2002, pp. 631-637).

cedere le due parrocchie di Torrazzo e di Alice Castello, ricevendone magari in cambio quella di Moncrivello, quest’ultima incuneata nel territorio canavesano. Il “piano di concordia” venne inviato ai vescovi dalla Segretria di Stato il 14 aprile 1751 e trovò una dura opposizione da parte dei vescovi piemontesi che fecero così arenare l’ipotesi di riforma. Quello di Ivrea, mons. Michele Vittorio de Villa di Villastellone, argomentò “che nessuna località della sua diocesi era distante in misura eccessiva dalla sede episcopale […]; nelle valli della fascia alpina nordoccidentale ammetteva l’esistenza di zone d’accesso difficilissimo, per le quali, tuttavia, non erano ipotizzabili permute, essendo esse ancor più inaccessibili per i vescovadi confinanti; quanto infine alle enclaves di altre diocesi o in altre diocesi, egli si limitava a constatare la loro esistenza, quasi fosse un dato immodificabile, senza neppur prendere in considerazione quindi l’eventualità di scambi con Torino e Vercelli” (Erba 2007, pp. 63-64).

Negli anni seguenti si verificò qualche piccola cessione di territori particolarmente lontani dalle sedi vescovili. Si trattava comunque sempre di piccole modifiche basate più su accordi locali e sull’iniziativa di singoli vescovi che non l’esito di un’azione riformatrice più generale. Nello specifico poi si trattava di formalizzare cessioni stabilite da secoli in bolle pontificie e mai portate ad effettivo compimento, vuoi perché di incerta attribuzione, vuoi per l’opposizione delle comunità locali. Nel 1768 la diocesi di Asti cedette a quella di Mondovì sei parrocchie del vicariato di Torre di Ceva (ora Torre Mondovì): una lunga e stretta

enclave schiacciata fra le diocesi di Alba e Mondovì che comprendeva Niella

Tanaro, Pamparato, San Michele Mondovì, Ciglié, Rocca Ciglié oltre naturalmente a