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la complessa geografia religiosa del Piemonte settecentesco

4. Difformità territoriali fra province e diocesi: i casi di Asti e Cuneo

4.1. Una provincia, nove diocesi: il caso di Asti

4.1.1. Le parrocchie di Montechiaro d’Asti: un “giardino aperto”

A Montechiaro d’Asti la giurisdizione parrocchiale, su base territoriale, era suddivisa fra tre diverse parrocchie: Santa Caterina (pievania), San Bartolomeo (arcipretura) e Santa Maria Maddalena (rettoria). Esse erano rispettivamente le parrocchie dei tre storici ‘quartieri’ in cui era suddivisa la villanova fondata dalla città di Asti nel marzo 1200: Pisenzana, Mairano, Maresco. Essi a loro volta riflettevano l’antica struttura insediativa – e quindi l’originaria provenienza degli abitanti – dei tre villaggi che facevano capo ciascuno alle antiche chiese di Santa Maria di Pisenzana, dei Santi Nazaro e Celso e di San Vittore98. All’interno della villanova si mantenne e replicò dunque da parte degli homines trasferitisi l’originaria appartenenza alle proprie rispettive chiese di villaggio (Canobbio 2002): si venne così a creare una peculiare struttura parrocchiale di impianto medievale – una sorta di confederazione parrocchiale99 – che ha attraversato oltre sette secoli di storia. Le strutture parrocchiali di Montechiaro, con i loro problemi di confini e di giurisdizioni, hanno varcato, quasi immutate, il passaggio dal medioevo alla contemporaneità100: un caso quindi particolarmente interessante per vedere la ‘lunga durata’ dei confini parrocchiali, le cui problematiche neppure le ‘geometriche’ precisioni della riorganizzazione napoleonica seppero superare. La parrocchia di Maresco venne soppressa nel 1837, le due sopravissute vennero unificate aeque

principaliter solamente nel 1958: ancora oggi – 2012 – i parrocchiani più anziani

identificano la propria appartenenza all’una piuttosto che all’altra parrocchia. 98 Un po’ in tutte le villanove piemontesi sorte nel corso del Duecento “il tessuto urbanistico […] si articolò in quartieri, che si svilupparono attorno alle chiese trasferite entro la cinta muraria e si connotarono per l’omogenea provenienza dei loro abitanti: evidentemente, l’edificio sacro costituiva un fattore di coesione per le famiglie immigrate, un elemento di ordine religioso-affettivo di grande rilievo per il loro adattamento nel nuovo centro, e di cui i promotori delle fondazioni erano ben consapevoli” (Canobbio 2002, p. 422). Tale dinamica insediativa aveva senso nell’immediato, quando era ancora forte il legame identitario con il villaggio di provenienza, ma con il passare delle generazioni e dei secoli esso perde di consapevolezza e di significato al punto di diventare “addirittura un ‘non luogo’, perché il villaggio viene abbandonato e cade in rovina” (Morandini 1999, p. 250).

99 L’espressione è utilizzata, a partire proprio dal caso montechiarese, da Torre 1995, p. 35.

100 Renato Bordone, riferendosi alle trasformazioni dell’assetto insediativo fra tardo medioevo e prima età moderna, ha scritto di un “lungo autunno del medioevo nella formazione del paesaggio astigiano” (Bordone 2006a, p. 17).

L’unificazione formale e definitiva sarebbe poi stata attuata solamente nel 1986 in seguito alla revisione dei Patti Lateranensi101.

Quelle di Montechiaro erano tre piccole parrocchie, se si considera che a metà Settecento la popolazione ascendeva complessivamente a poco meno di 1500 abitanti, per raggiungere poi i circa 1900 al tempo della Relazione dell’intendente Petitti (Muttini Conti 1962, vol. II, p. 15): nel 1742 i parrocchiani erano rispettivamente 617 (San Bartolomeo), 448 (Santa Caterina), e 403 (Santa Maria Maddalena)102. La vita religiosa di Montechiaro fu sempre fortemente disturbata dalla compresenza delle tre chiese parrocchiali, separate poche decine di metri l’una dall’altra. Il primo a farsi carico del problema fu il vescovo Francesco Panigarola, che cercò di trovare una soluzione, anzi un “faticoso compromesso” (Torre 1995, p. 35), in occasione della vista pastorale del 1588103. Causa delle principali frizioni fra le tre parrocchie era, in quel momento, la conservazione dell’eucaristia: questa veniva tenuta esclusivamente a San Bartolomeo, ove aveva sede anche la Confraternita del SS. Sacramento. Monsignor Panigarola, accogliendo la proposta avanzata dai maggiorenti montechiaresi che aveva appositamente consultato in un’assemblea, dopo aver ascoltato i parrocchiani, decise che il Santissimo sarebbe stato conservato a rotazione quattro mesi per parrocchia: da gennaio ad aprile a Santa Caterina104, da maggio ad agosto a San Bartolomeo, da settembre a dicembre a Santa Maria Maddalena. Fu una decisione che evitò forse divergenze e tensioni nell’immediato, ma che fece poi sentire tutti i propri limiti sul lungo periodo. Tale sistema di turnazione perdurò fino all’unificazione del 1958: in seguito alla soppressione della chiesa di Maresco nel 1837 si passò semplicemente dalla rotazione quadrimestrale a quella semestrale. Don Bo, ultimo arciprete di San Bartolomeo, avvicinandosi al termine del suo lungo ministero in quella parrocchia (1901-1947), al proposito così scriveva nel 1940:

101 Archivio parrocchiale di Santa Caterina di Montechiaro d’Asti, faldone 7, fasc. 199, Fascicolo relativo

a dispute tra le diverse parrocchie di Montechiaro, per le processioni, feste religiose e sepolture

(1620-1947).

102 Archivio storico Curia Vescovile di Asti, Relazioni sullo stato delle chiese, 1742, vol. VI.

103 Archivio storico Curia Vescovile di Asti, Visita pastorale di mons. Panigarola, vol. III, ff. 248-249; Bo 1940, pp. 6-9.

104 Questa rigida turnazione fece sì che la messa pasquale (che cade sempre nel periodo 22 marzo-25 aprile) venisse sempre celebrata in Santa Caterina, segnando così, seppur forse implicitamente, una speciale preminenza sulle altre due “comparrocchie”.

i due Parrochi di Montechiaro nei giorni festivi per sei mesi dell’anno non veggono i loro uomini nella propria chiesa parrocchiale. Gli uomini preferiscono ordinariamente la Messa ultima che si celebra tutto l’anno alle ore 11. E siccome la Messa delle 11 si dice per sei mesi in una parrocchia, e per sei mesi nell’altra, la grandissima maggioranza degli uomini, i quali alla festa purtroppo sentono solo la Messa105, per sei mesi non veggono in chiesa il loro Sacerdote, e per sei mesi il parroco non può far giungere al loro orecchio una sola parola. […] E non sono solamente gli uomini e i giovanotti che si trovano in tale triste condizione. Anche la maggioranza della gioventù femminile segue lo stesso costume, e perciò si trova nelle stesse condizioni del padre e dei fratelli adulti. Quindi nulla sa questa gente di quello che il parroco dice, nulla degli avvisi, raccomandazioni; nulla di quello che si dice vita parrocchiale (Bo 1940, p. 89)106.

Quanto lamentato in chiave pastorale da don Bo nel chiudere la storia della sua parrocchia trova riscontro nell’analisi storiografica più generale che Angelo Torre ha fatto della potestas iurisdictionis del parroco di antico regime, mettendo in luce che “ciò che definisce il parroco è una serie di atti rituali: l’amministrazione dei sacramenti ne è un momento costitutivo e definitorio, ed è la sua effettiva amministrazione a definire la piena potestà di chi è parroco” (Torre 1999b, p. 202). Tale condizione di “piena potestà” a Montechiaro, proprio per l’alternarsi quadrimestrale dei parroci celebranti la mëssa granda domenicale, elemento centrale di questo processo “costitutivo e definitorio”, di “ripetuto riconoscimento” (1995, p. 37), non poteva mai concretizzarsi compiutamente, lasciando quindi i tre parroci di fatto, anche se non di diritto, in una posizione di debolezza.

La soppressione di Santa Maria Maddalena – che delle tre parrocchie era forse considerata la “sorella minore” (Visconti 2000, p. 50) – non aiutò a superare le difficoltà pastorali e le tensioni che caratterizzavano la dinamica interparrocchiale di Montechiaro. Sorsero anzi quasi subito nuove liti tra i due parroci e le compagnie religiose: “si formò così uno stato di cose increscioso, che sempre guastò e guasta anche presentemente – scriveva ancora nel 1940 uno dei parroci – la convivenza 105 Don Bo si riferiva evidentemente al fatto che gli uomini non erano soliti partecipare alla funzione pomeridiana del Vespro.

106 Questo testo di don Bo è tratto dall’appendice III (1940, pp. 87-100) con cui chiudeva la sua trilogia dedicata alla storia locale di Montechiaro (1985), appendice significativamente intitolata Alcune ragioni

che sembrano suggerire la soppressione di una parrocchia a Montechiaro. Sulla celebrazione della messa

domenicale, quale momento aggregante l’identità comunitaria, cfr. Beck 1997, pp. 23-32; vd. anche Bossy 1998, pp. 143-190.

benevola, la mutua intesa, il desiderio e lo sforzo comune pel maggior bene di tutti, con danno evidente spirituale e anche morale delle due povere popolazioni parrocchiali” (Bo 1940, p. 85). La separazione del territorio fra Santa Caterina e San Bartolomeo, operata dopo il decreto del 1837, era infatti stata mal congegnata, in quanto i parrocchiani assegnati a Santa Caterina erano obbligati “a percorrere doppio cammino per recarsi alla sua chiesa, attraversando il territorio della parrocchia di S. Bartolomeo” (Bo 1940, pp. 84-85). Fra i molti inconvenienti segnalati da don Bo vanno rimarcati quelli che si verificavano durante le processioni, momento di sacralizzazione del territorio comunitario, ma soprattutto occasione per rimarcare i confini, rinnovare la propria appartenenza comunitaria e in cui quindi era più facile il sorgere di conflitti e l’esplodere di tensioni che coinvolgevano tanto i parroci quanto i parrocchiani (Fassino 2002, 2009b). A Montechiaro, ancora nel Novecento, si facevano tre processioni del Corpus Domini (due a Santa Caterina, una a San Bartolomeo) che insistevano su medesimi itinerari passando “innanzi all’altra chiesa parrocchiale durante le funzioni, e qualche volta accadono inconvenienti”107 (Bo 1940 p. 92; Garesio Pelissero 2011, pp. 76-81, 90, 149-152).

Una definizione stabile delle prerogative e spazi delle tre parrocchie, dopo quanto era già stato stabilito, come si è visto, da Panigarola nel 1588, fu poi fissata il 23 maggio 1671 con una apposita convenzione fra i tre parroci, che però non fu in grado di risolvere compiutamente le controversie locali108. Ancora un secolo dopo, nel 1764, in occasione della visita pastorale di mons. Caisotti, l’arciprete don Antonio Leonardo Bongano lamentava i molti “inconvenienti” e “pregiudizi” derivanti dalla convenzione (Bo 1940, p. 37). Oltre alla frequenza domenicale, la ripartizione quadrimestrale fra le tre parrocchie riguardava infatti anche altre prerogative. Ad esempio l’insegnamento della dottrina cristiana dal 1668 veniva fatto alternativamente di quadrimestre in quadrimestre dai tre parroci, così come la scelta del quaresimalista era fatta alternativamente dai tre parroci (Visconti 2010, p.

107 In un’altra pagina don Bo scriveva: “si ricordano ancora le miserie del 1902 in occasione di processioni religiose” (1940, p. 85); per una storia delle processioni in Piemonte, fra sacro e profano, rinvio a Fassino 2009b.

108Archivio parrocchiale di Santa Caterina di Montechiaro d’Asti, faldone 3, fasc. 90, Copia di

121)109. La massima visualizzazione delle differenti prerogative e preminenze fra le tre cure d’anime di Montechiaro i parrocchiani la potevano notare durante la celebrazione della veglia pasquale. Nel corso di tale funzione, officiata a Santa Caterina (chiesa che derivava forse le prerogative battesimali dalla chiesa matrice di Santa Maria di Pisenzana, antica pieve altomedievale), concelebravano insieme al pievano i due parroci di San Bartolomeo e Santa Maria Maddalena i quali erano tenuti a servirlo “uno in qualità di Diacono, l’altro in qualità di Suddiacono” (Visconti 2000, p. 41; 2010, p. 117).

Il problema della riduzione delle parrocchie montechiaresi, le cui controversie dopo la convenzione del 1671 erano tutt’altro che sopite, fu affrontato del teologo Giovanni Domenico Della Valle110, pievano di Villa San Secondo (1764-1815), comunità finitima a quella di Montechiaro. Il teologo Della Valle, fratello del più celebre frate minore Guglielmo Della Valle (uno dei fondatori della moderna storia dell’arte111), era uno dei rappresentanti più illustri, e forse il più autorevole, del tardo giansenismo astigiano. Egli insieme ad altri parroci e sacerdoti della diocesi di Asti nel gennaio 1801 sottoscrisse, per primo, l’adesione alle “preziose verità che risplendono ne’ canoni e decreti del Concilio nazionale di Francia celebratosi in Parigi l’anno dell’era cristiana 1797 e particolarmente quella di dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”112. È quindi nel contesto della sensibilità giansenista e gallicana che il teologo Della Valle scrisse il suo Progetto per la

riduzione delle parrocchie di Montechiaro113. Il Progetto del teologo Della Valle non è datato, ma Luigi Bo (1940, pp. 36, 75) lo riferisce al 1810 circa. Tale datazione è verosimile in quanto in quel momento una delle tre parrocchie, quella di San Bartolomeo, era dal 1806 vacante: l’assenza di un parroco era infatti condizione pressoché indispensabile per addivenire ad una eventuale soppressione. Dal 1809, in 109 Una situazione simile la si riscontra a Bra dove la spiegazione della dottrina cristiana si faceva per i primi sei mesi dell’anno a Sant’Andrea, per i tre seguenti a Sant’Antonino e per gli ultimi tre a San Giovanni Battista (Comino 2007, p. 259).

110 Su Giovanni Domenico Della Valle cfr. Stella 1964, pp. 28-29.

111 Su Guglielmo Della Valle cfr. Previtali 1989, pp. 107-116; Venturi 1984, pp. 550-563; Chiodo 2012.

112 Adesione di ecclesiastici ai canoni e decreti del Concilio nazionale del 1797, conservato presso la Bibliothèque de la Société des Amis de Port-Royal, Paris, edito in Stella 1974, vol. III, pp. 227-228 (riproduzione fotografica fra le pp. 234-235).

113 Non è stato possibile individuare l’originale del documento, edito parzialmente da Bo (1933, pp. 59-63; 1940, pp. 77-81), né all’interno dell’Archivio storico parrocchiale di Montechiaro, né in quello di Villa San Secondo.

seguito alla morte di mons. Gattinara, la diocesi astigiana visse un lungo e tormentato periodo, in cui fu di fatto priva di vescovo, in quanto la nomina di mons. Dejan fatta da Napoleone non venne mai ratificata da Pio VII, nel frattempo imprigionato. Forse anche per questa concomitanza il Progetto non venne attuato se non parzialmente e solamente molti anni dopo con la soppressione della parrocchia della Maddalena nel 1837114. Merita comunque ripercorre almeno alcuni dei passaggi salienti della relazione del pievano di Villa: le tre parrocchie “ammucchiate”, spiegava il teologo Della Valle, erano con il tempo “diventate a sé medesime d’impaccio, e confusione; ed insieme più di dissipazione che di edificazione al Popolo” (Bo 1933, pp. 59-60). Dopo aver richiamato l’unità della Chiesa spirituale riferendosi al Simbolo niceno, Della Valle evidenziava nel suo memoriale come “mancano sì pregiabili rapporti di unità nelle chiese parrocchiali di Montechiaro, dove le prerogative di una chiesa sopra le altre, privano queste delle più decorse funzioni, e fan cangiare sovente al gregge di pastore”. Infatti, come abbiamo visto, la consuetudine, in forza di quanto stabilito da Panigarola nel 1588 e dalle convenzioni del 1671, prevedeva che i montechiaresi si comunicassero presso la chiesa che, secondo la turnazione, custodiva l’eucaristia: “i patti e le convenzioni obbligano i parrocchiani – deplorava ancora il Della Valle – per due terzi dell’anno a mendicare il pane eucaristico, e quello della divina parola in un’altra casa non sua; ad adorare il S. Sacramento in un tempio estraneo, e dove il maggior comodo, talora il genio più per un parroco che per l’altro, e fors’anche il capriccio o il caso frammischia e confonde i membri di un corpo all’altro, in disprezzo delle più sante ordinazioni ecclesiastiche, che vorrebbero la parrocchia fosse un giardino chiuso ad ogni altro” (Bo 1933, pp. 60-61). Il pievano di Villa San Secondo, che da convinto giansenista ben conosceva le ripercussioni delle differenti visioni teologiche sulla “moral pratica”, mise in luce il rischio, tutt’altro che remoto, che le difficoltà strutturali, topografiche derivanti dalla compresenza di tre parrocchie venissero amplificate da divergenze teologiche nel caso in cui “li tre Parrochi stessi fossero 114 La riorganizzazione delle parrocchie di Montechiaro, così come di quelle di Viarigi, Passerano, Bra era prevista dai diversi piani predisposti dai vescovi di Asti durante gli anni napoleonici: Plan pour la

Circonscription des Paroisses du Diocese d’Asti redigé sur les bases proposées par Monseigneur Villaret Evêque de Casal Commissarie, et au meme adressé par l’ Evêque d’Asti, relazione di mons. Pietro

Arborio di Gattinara datata Asti, 22 marzo 1806 (redazione ?) e 22 luglio 1807 (spedizione ?); Notes de

l’eveque d’Asti sur l’Organisation de son Diocése, relazione senza firma e data (entrambi in Archives

stati anch’essi tra loro divisi per differente umore e dottrina, e perciò uno che edificasse e un altro che distruggesse” (Bo 1933, p. 61). Della Valle era convinto che le convenzioni del 1671 fossero da considerarsi nulle in quanto in contraddizione con i dettami del Concilio di Trento e propose pertanto l’unificazione delle tre parrocchie di Montechiaro, “onde non avrebbe più alcuno a poter ripetere: Io sono di Paolo, io invece di Pietro, ed un altro di Apollo” (Bo 1933, pp. 61-62; Visconti 2000, p. 52). Il “giardino aperto” di Montechiaro andava quindi chiuso. Se la parrocchia, sul modello della Chiesa universale, doveva essere “l’unica sposa di Gesù Cristo”, essa doveva organizzarsi in un “solo Tempio”, in una “sola Casa” (Bo 1933, p. 60).

Da questa rapida e parziale disamina del complesso caso di queste tre parrocchie emerge come, anche in presenza di un habitat accentrato come quello della villanova montechiarese, possano ripetersi, ed anzi trovare amplificazione, intrecci persistenti e strutturali di giurisdizione che, originati da trasformazioni politiche ed insediative, si rivelano essere non privi di riflessi e conseguenze anche “sul significato stesso dell’espressione religiosa” (Torre 2011, p. 17).