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I confini religiosi del Piemonte napoleonico. La riforma delle diocesi subalpine dall'annessione alla Francia alla Restaurazione (1802-1817)

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Storia: culture e strutture delle aree di frontiera

Ciclo XXIV

TESI DI DOTTORATO DI RICERCA

I confini religiosi

del Piemonte napoleonico

La riforma delle diocesi subalpine dall’annessione alla Francia

alla Restaurazione (1802-1817)

DOTTORANDO: Gianpaolo Fassino RELATORI

Prof. Gian Paolo Gri Prof. Flavio Rurale

(2)

INDICE

pag.

Introduzione 4

Cap. I - Fra antiche diocesi e abbazie nullius: la geografia religiosa nel

Piemonte settecentesco 20

1. Un quadro complesso 20

2. Tentativi di riforma delle diocesi sabaude fra Sei e Settecento 31 3. Le Considerazioni sopra una nuova divisione delle province e diocesi di

Angelo Paolo Carena (1768-1769) 46

4. Difformità territoriali fra province e diocesi: i casi di Asti e Cuneo 61

4.1. Una provincia, nove diocesi: il caso di Asti 63

4.1.1. Le parrocchie di Montechiaro d’Asti: un “giardino aperto” 77

4.1.2. Due parrocchie, una chiesa: il caso di Viarigi 84

4.1.3. Un caso di apparrocchiamento: nuovi confini per Marmorito 87

4.1.4. Il caso di Castelnuovo d’Asti: da confine medievale a enclave

anacronistica 93

4.2. Una provincia senza vescovo: il caso di Cuneo 99

Cap. II - Idealità giacobine e circoscrizioni diocesane: due differenti

progetti di riforma 107

1. Festina lente: la riforma delle diocesi subalpine nel Progetto di governo

rivoluzionario o sia provvisorio per il Piemonte di Maurizio Pellisseri (1796) 108 2. La riforma delle diocesi subalpine negli scritti di Gaspare Morardo, “primo

apostolo della rivoluzione del Piemonte” (1798-1802) 117

Cap. III - Un dipartimento, una diocesi: la nascita di un’idea dalla Francia

rivoluzionaria al Piemonte napoleonico 126

1. La nascita dei dipartimenti in Francia 126

2. Dalla Francia al Piemonte 128

Cap. IV - Un territorio antico, uno sguardo nuovo: la letteratura

dipartimentalista e il Piemonte 133

1. Il Tableau du Piemont sous le régime des rois di Jacques Marauda

(1802-1803) 135

2. Il Voyage en Piémont di Jean-Baptiste-Joseph Breton (1803) 138

3. La Statistique générale et particuliere de la France (1803) 142

4. Il Tableau historique, statistique et moral de la Haute-Italie di Carlo Denina

(1805) 146

5. Il Voyage en Savoie, en Piémont, a Nice, et a Gènes di Aubin-Louis Millin

(1811-1813) 153

Cap. V - Alcuni protagonisti della riforma 159

1. I vescovi del Piemonte napoleonico: conferme, rimozioni, spostamenti 159

2. L’economo generale: il giansenista Carlo Tardì 164

(3)

Cap. VI - La riforma delle diocesi del 1802-1805 e i suoi effetti sul

territorio 206

1. La trattativa politica e diplomatica 206

2. Il caso di Moncucco 217

3. Il caso di Cocconato: un dipartimento, due parrocchie e due diocesi 221

4. Il caso di Verrua Savoia 224

5. “Padrino è stato il Giacobinismo, Madrina è stata la Rivoluzione”. Il caso di

Frassineto Po: morte e nascita di una parrocchia 228

6. Il caso di Cherasco 234

7. Il caso della Valle d’Aosta: una diocesi soppressa 238

8. Il caso della Valsesia: confine di Stato e confine di diocesi 248

8.1 “La natura grida in un tuono imponente: la Sesia non può essere confine” 249

8.2 La divisione delle parrocchie valsesiane 254

Conclusioni 260

Appendici documentarie 264

1. Lettera dell’arcivescovo di Torino C.L. Buronzo del Signore (1802) 265 2. La proposta di riforma delle diocesi piemontesi del generale Menou (1803) 269 3. Bolla Gravissimis causis adducimur (1803) e Decreto esecutoriale del card.

G.B. Caprara riguardante la nuova organizzazione ecclesiastica del Piemonte

(1803) 271

4. Decreto esecutoriale del card. G.B. Caprara (23 gennaio 1805) 283

5. Decreto cardinal P.G. Solaro (20 ottobre 1817) 299

6. Il carteggio Faussone-Cottino (1803-1806) 315

7. Istanza del Cantone di Castelnuovo d’Asti per passare al dipartimento del Po

(1805) 339

8. Ipotesi di riforma delle diocesi piemontesi (1810) 341

Appendici cartografiche-Schede di lettura della cartografia 344

1. Le diocesi piemontesi alla fine del XVIII sec. 346

2. Il territorio della provincia di Asti alla metà del XVIII secolo suddiviso per

diocesi 352

3. I dipartimenti del Piemonte napoleonico (1801-1805) 353

4. Le diocesi piemontesi in età napoleonica (1805-1817) 358

5. Le diocesi piemontesi dopo la bolla Beati Petri (1817) 360

Bibliografia 363

Sitografia 402

Indice delle carte 403

Indice delle illustrazioni 404

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(Bernard Lepetit, Marie-Vic Ozouf-Marignier, Biagio Salvemini, 1993, p. 150)

I padri nostri videro bene nella religione del Dio Termine la sicurtà e santità dei beni domestici e della società municipale; ma non seppero valersene alla sicurezza e santità d’altri beni più sublimi e d’altra pur necessaria e più vasta società. Che importerebbe mai la ineguale ampiezza delle giurisdizioni, in seno ad un’Italia tutta libera e tutta armata? Siffatte distribuzioni non sarebbero mai di maggiore inciampo che non siano in seno alla Chiesa i vescovati e li arcivescovati.

(5)

Introduzione

Questa tesi di dottorato indaga le trasformazioni dell’assetto diocesano piemontese al passaggio fra ancien régime ed epoca napoleonica. Si tratta di un tema noto nelle sue linee essenziali, ma del quale ancora mancava uno studio complessivo che tentasse di mettere in evidenza, su scala regionale, da un lato i mutamenti dell’assetto territoriale, dall’altro le complesse dinamiche politiche e sociali sottese alla riforma dei vescovati attuata dal governo francese fra il 1802 e il 1805 e poi rimasta in vigore fino al 1817.

Il Piemonte napoleonico, ed in particolare la sua organizzazione religiosa, sono stati sempre un po’ dimenticati dalla storiografia novecentesca, credo a causa essenzialmente delle sue peculiari caratteristiche di territorio annesso all’Impero francese. Se infatti sono ben note le politiche religiose ed i risvolti pratici della riorganizzazione concordataria nel Regno d’Italia (si pensi agli studi di Carlo Zaghi, Daniele Menozzi, Ivana Pederzani, Filiberto Agostini), non altrettanto possiamo dire per la storia ecclesiastica e religiosa del Piemonte napoleonico, nonostante Napoleone stesso giudicasse la riforma da lui attuata in questa regione un fatto di primaria importanza: “l’organisation des diocèses dans le Piémont est de la dernière importance” scriveva infatti a Cambacérès, arcicancelliere dell’Impero, il 13 maggio 1805 (Napoleon 2008, vol. V, p. 300). L’argomento non trova ad esempio spazio nel volume sul Piemonte napoleonico comparso all’interno della Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso (Notario, 1993)1. Qualche accenno vi ha invece riservato la

successiva sintesi divulgativa, non scevra però da imprecisioni, di Filippo Ambrosini sul Piemonte giacobino e napoleonico (2000, pp. 240-242). Trattazioni più o meno ampie sulla riforma napoleonica delle diocesi si trovano invece giocoforza nelle storie diocesane2, ma sovente la trattazione presenta forti limiti (ad esempio

restringendo l’analisi all’elenco delle località acquisite o cedute) riprendendo i dati 1 Valgono anche per questo volume, con specifico riferimento all’articolazione e alle trasformazioni

dell’assetto ecclesiastico regionale, le osservazioni di carattere più generale fatte recentemente alla Storia

d’Italia Utet da Andrea Gardi (2011a, p. 7); cfr. anche Pederzani 2002, pp. 22-23 che ricorda il

disinteresse, fino ad anni recenti, della stessa storiografia francese per la storia della politica ecclesiastica in età napoleonica.

2 Dai datati volumi del Pollini (1889), del Bosio (1894) e dell’Orsenigo (1909) al recente repertorio

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dalla storiografia ottocentesca (essenzialmente dalle opere di Giovanni Battista Semeria e Tomaso Chiuso). Le fonti analizzate sono solitamente solo quelle locali conservate negli archivi vescovili (ma sovente ci si è limitati a ripetere i dati ufficiali della bolla pontificia e dei due decreti esecutoriali del 1803 e 1805), senza riscontri con le fonti conservate altrove, che – come si cercherà di illustrare via via nel corso del lavoro – sono particolarmente abbondanti. Mi riferisco in particolare alle carte conservate negli Archives Nationales di Parigi, sia nel fondo della legazione del cardinal Caprara che in quello del Ministère des Cultes, sulle cui carte si è fondato gran parte del lavoro di ricerca archivistica che sostanzia questa tesi di dottorato3.

Presso l’Archivio Segreto Vaticano si trovano carte riguardanti la riorganizzazione delle diocesi piemontesi nel fondo della Segreteria di Stato sia nelle serie Epoca

Napoleonica, Francia e Italia che in quella delle Lettere ai Cardinali4. Nel corso del

lavoro di ricerca oltre agli archivi di Parigi e Roma sono stati esaminati i fondi relativi all’epoca napoleonica degli archivi vescovili di Aosta, Asti, Alba, Casale Monferrato e Mondovì, un campione diversificato e significativo delle diocesi piemontesi, oltre che quelli di alcuni archivi parrocchiali (Frassineto Po, Moncucco Torinese e Chieri in particolare) e statali (Vercelli e Varallo). Gli archivi locali e periferici sono stati utili per integrare le informazioni raccolte a Parigi, che per quanto preziose ed interessanti, tendono a fornire talvolta una visione troppo burocratica della realtà (Palluel-Guillard 1984, p. 151). Proprio per ascoltare la voce dei territori piemontesi, su cui parroci e parrocchiani, canonici e autorità civili videro calare ad un tempo una nuova geografia civile e religiosa, si è prestata particolare attenzione alle cronache contemporanee: quella dell’Incisa per Asti, del canonico De Conti per Casale Monferrato, del conte Adami di Bergolo per Torino e di Pietro Civalieri per Alessandria5.

3 Sui fondi degli Archives Nationales di Parigi di interesse piemontese si veda Peroni 1936 e, con

specifico riferimento al Piemonte, Massabò Ricci, Carassi 1990, pp. 113-118.

4 Su questi fondi dell’Archivio Segreto Vaticano cfr., per un primo orientamento, Leflon, Latreille 1950 e

Bassani 1990 (in partic. p. 371); si tenga anche presente Pizzorusso, Poncet, Sanfilippo 2006.

5 In questa prospettiva ho tenuto conto delle indicazioni teoriche e metodologiche sviluppate, fra stroria e

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Le erudite storiografie diocesane e locali, le uniche ad aver riservato all’interno della propria produzione una certa qual attenzione alla vicenda sono sin qui state a mio avviso fortemente condizionate “dall’artificiosità” del “quadro geografico” con il forte rischio di cadere nell’errore dell’“anacronismo” (Bloch 2009, pp. 64-65), di chi vuole forzosamente circoscrivere la plurisecolare, mutevole e complessa storia diocesana negli stretti confini attuali, al più rapportandoli a quelli delle province postunitarie, un quadro geografico che poco o nulla ha in realtà da spartire con la geografia dei vescovati di antico regime e di età napoleonica. Le trasformazioni territoriali di ogni singola diocesi sono state sino ad ora abitualmente lette in rapporto ai confini precedenti (ante 1805) e successivi (post 1817) della diocesi stessa, mentre la grande riorganizzazione attuata dal cardinal Caprara per essere pienamente compresa va vista non a livello di ogni singola diocesi, ma su scala regionale e nell’intimo, dinamico rapporto che tale riorganizzazione ebbe rispetto alla dipartimentalizzazione attuata a livello civile. Occorre cioè anche in questo caso trovare il “quadro geografico” più idoneo per leggere una trasformazione che si presenta evidentemente caratterizzata da una grande complessità.

A parziale spiegazione, a mio avviso, del mancato interesse sinora riservato verso alcune rilevanti vicende che hanno interessato il Piemonte nel quindicennio napoleonico vi è soprattutto la natura ‘ibrida’ dei territori italiani direttamente sottoposti all’Impero: un territorio che potremmo definire “sghembo”, per utilizzare un’espressione di Biagio Salvemini, un territorio caratterizzato da “spazialità non puntuali […] in cui i vari piani dell’azione non coincidono fra loro e con quelli delle identità e delle rappresentazioni” (2006, p. 9)6. La storiografia d’oltralpe ha prestato

una prevalente attenzione ai territori della Francia attuale, lasciando un po’ in secondo piano le vicende dei dipartimenti annessi. A lungo il Piemonte napoleonico e più in generale i territori dei département au-delà des Alpes sono stati storiograficamente una sorta di terra di nessuno, pizzicati fra la Francia “dell’esagono” e il Regno d’Italia. Proprio con riferimento al tema di questa tesi lo si nota ad esempio leggendo le pagine di Jean Leflon, autore fra l’altro proprio del

partire dalla località: deve localizzare i fenomeni che studia” (Torre 2007, p. 203).

6 Di “quadro sbilenco” e “territorio complesso”, con specifico riferimento ad una valle piemontese, ha

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volume sull’età napoleonica della Storia della Chiesa Fliche-Martin, che in una sua importante monografia sul vescovo di Orleans mons. Bernier, trattando specificatamente della riforma delle diocesi subalpine attuata da Caprara e Villaret, equivocava sul regime concordatario in vigore in Piemonte7 (Leflon 1938, vol. II, p.

172). Esempio recente di queste tendenze sono in questa prospettiva anche le opere di Jacques-Olivier Boudon, peraltro uno fra gli esponenti più aggiornati della nuova storiografia sulla Francia napoleonica, che infatti nel suo per molti versi valido ed interessante Dictionnaire des évêques et vicaires généraux du Primier Empire (2002a) trascura completamente le diocesi piemontesi (ricomprendovi invece quelle belghe e renane) così come nel volume Napoleon et les cultes. Les religions en

Europe a l’aube du XIXe siècle pur dedicando un apposito paragrafo all’annessione

del Piemonte alla Francia vi svolge una trattazione incompleta e a tratti imprecisa, laddove sostiene che le diocesi soppresse furono undici, e non nove, riducendole quindi a sei anziché a otto (2002b, pp. 205-208).

Non si può poi nascondere come la storiografia piemontese abbia da sempre coltivato un prevalente interesse per le vicende settecentesche dell’apogeo dello stato sabaudo e per i successivi sviluppi risorgimentali, che non piuttosto per il quindicennio francese: l’epoca rivoluzionario-napoleonica è cioè stata interpretata “o come un periodo di transizione fra Ancien Régime e Stato ottocentesco, o come una sorta di spazio vuoto” (Broers 1999, p. 399). Ciò detto non si possono di certo dimenticare – con specifico riferimento a questo periodo – i significativi contributi, per l’Italia e il Piemonte, di Rosalba Davico, Max Tacel, Ferdinand Boyer, Stuart Woolf, Stanislao da Campagnola e Josiane Bourguet-Rouveyre. Non stupisce dunque che attualmente il principale studioso del Piemonte napoleonico sia lo storico anglosassone Michael Broers, autore nell’ultimo quindicennio di numerosi ed innovativi studi sull’epoca francese in Italia, molti dei quali specificatamente rivolti al territorio subalpino (Broers 1997, 2002). È proprio su una riflessione di Broers che ci si può soffermare per cogliere l’importanza che il concordato francese del 1801 – esteso di fatto al Piemonte l’anno seguente, e di cui il rimaneggiamento delle diocesi fu l’esito primo – ebbe in Italia:

7 Max Tacel (1955, p. 22 n. 56) aveva già evidenziato il fraintendimento in cui era occorso Leflon. Sulla

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The introduction of the Concordat into the Italian departments was traumatic. It struck at the heart of the only truly unifying, all-pervading element in Italian life: baroque Catholicism. The cultural and social expressions of Catholicism which were standardized by the Council of Trent – and subsequently compromised to accommodate the survival of more archaic, popular elements of piety – were central to the lives of almost every inhabitant of the peninsula during the epoca francese. Catholic culture cut across regions, classes and political boundaries to such a profound degree as to make it a unique force in Italian life. The determined introduction of the Concordat by the Napoleonic regime struck at its very roots, and the Gendarmerie was at the cutting edge of this policy. It carried out the closure of monasteries and convents prescribed by the Concordat’s abolition of the regular branch of the Church; it arrested those secular clergy who refused to take the oath of loyalty imposed by the regime; it suppressed the banned feast days, processions and missions henceforth forbidden under the French ecclesiastical legislation. One of the major functions of the French police was the destruction of the core of Italian culture (Broers 1996, p. 345).

Si trattò dunque di un evento traumatico per una pluralità di aspetti e conseguenze, un momento di cesura forte rispetto a quella che lo storico britannico ha chiamato “standardizzazione tridentina”. Se le cose stanno così ecco che ha una importanza particolare comprendere come fu riorganizzata la vita religiosa nel Piemonte napoleonico, a partire dalle diocesi e dalle parrocchie, le strutture che connotano ed articolano la presenza della Chiesa cattolica sul territorio. Soppressi tutti gli ordini religiosi, venduti rapidamente all’asta i loro beni, fin da subito Napoleone individua nella riorganizzazione del reticolo diocesano una necessità imprescindibile per l’attuazione della sua nuova politica religiosa8.

Nel primo capitolo si ricostruisce il quadro complessivo che le diocesi avevano assunto nel Piemonte – o meglio negli stati sardi di terraferma “al di qua dei monti” – alla fine Settecento. Tale quadro e stato ricostruito quale ineludibile base di partenza per comprendere la portata e le peculiarità delle trasformazioni dell’articolazione diocesana che si avranno nel corso del quindicennio napoleonico. Si tratta di diciannove diocesi e cinque abbazie nullius, cui si devono aggiungere numerose enclaves di altre diocesi lombarde e liguri. A fianco di elementi di novità, quali potevano essere le recenti istituzioni di diocesi quali Pinerolo (1749), Susa e 8 Il caso piemontese è sotto questo aspetto uno dei più interessanti da studiare. A differenza degli altri

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Biella (1772) quel che spicca maggiormente è il perdurare ancora per tutto il Settecento di giurisdizioni vescovili frastagliate e territorialmente incoerenti, inframmezzate da numerose enclaves e dalla presenza a ‘macchia di leopardo’ di parrocchie soggette ad antiche e importanti abbazie nullius. Ci troviamo cioè di fronte a istituzioni di origine medievale che attraversarono indenni tutta l’età moderna e si affacciarono ancora pressoché intatte alle soglie dell’epoca napoleonica. La geografia ecclesiastica del Piemonte sembra dunque corrispondere bene a quel “medioevo lungo” più volte lumeggiato da Jacques Le Goff (2004; 2006): un medioevo che era stato solo parzialmente scalfito dal riformismo tridentino e da quello settecentesco e che crollerà poi solamente di fronte all’urto dell’onda rivoluzionaria e napoleonica9. In alcuni casi, come ad esempio quello della

parrocchia di Bernezzo, per almeno otto secoli, fino al 1805, la giurisdizione episcopale fu demandata ad un abate mitrato, nella fattispecie quello di San Michele della Chiusa. Ma un’organizzazione che data almeno al tardo medioevo la ritroviamo non solamente ricostruendo l’articolazione territoriale dei vescovati, ma anche analizzando più nel dettaglio l’organizzazione parrocchiale. È ad esempio il caso di Viarigi e Montechiaro d’Asti (dove più parroci si alternavano nella celebrazione della messa domenicale, nel primo caso ogni settimana e, nel secondo, ogni quattro mesi) rispettivamente fino al 1914 e al 1958, con un prolungarsi dunque fino al cuore della contemporaneità, alle soglie del Concilio Vaticano II, di complesse, anomale e contradditorie situazioni che ben attestano non solamente la stabilità plurisecolare delle istituzioni ecclesiastiche (Merlo 2009, p. 15), ma anche la lunga durata degli universi simbolici e identitari che le comunità locali riconoscevano all’organizzazione della giurisdizione parrocchiale (cap. I, §§ 4.1.1-2). Si tratta di situazioni che, per riprendere le parole che Cesare Morandini riferisce alle parrocchie di Carassone (uno dei borghi che compongono Mondovì), si presentano “smaccatamente antimoderne per quanto riguarda il loro assetto territoriale” (Morandini 1999, p. 238), un’“antimodernità istituzionale” che 9 La necessità di studiare le strutture storico-territoriali in una prospettiva di lungo e lunghissimo periodo

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perdurerà fino alle soglie dell’Ottocento per dissolversi definitivamente solo nel secolo seguente. I tentativi di riforma, sovente evocati ma mai concretizzati, vengono ricostruiti sia nelle piccole attuazioni pratiche (soprattutto una serie di permute o rettificazioni di confini a livello locale) sia nell’analisi che potremmo definire “teorica” fatta fra 1768 e 1769 da un giovane intellettuale, Angelo Paolo Carena, nelle sue Considerazioni sopra una nuova divisione delle province e diocesi. Il principio perseguito (ma, è bene ribadirlo, mai compiutamente realizzato) nel corso del Settecento era quello di creare in Piemonte una coincidenza fra province e diocesi, facendo ricalcare a queste ultime i confini delle prime. Per tentare di comprendere meglio, da un punto di vista concreto e fattuale, l’entità del problema è stata analizzata l’articolazione delle giurisdizioni vescovili presenti all’interno di due delle provincie settecentesche del “vecchio Piemonte”, quelle di Asti e Cuneo. La prima è stata scelta in quanto rappresentativa di un eccesso di diocesi – ben nove – che si affacciavano all’interno dei confini amministrativi civili della provincia. La seconda è stata invece individuata in quanto a Cuneo non vi era vescovo e il territorio era interamente ripartito fra le diocesi di altre città. Per il caso astigiano si è anche entrati nel dettaglio di quattro comunità locali per vedere da un lato come a fianco del problema dei confini diocesani ve ne era un altro, di non minore portata, che era quello dei confini parrocchiali, anche qui con una variegata e complessa casistica di situazioni.

Nel secondo capitolo vengono analizzati due differenti progetti di riorganizzazione delle diocesi piemontesi maturati all’interno del movimento giacobino. Si tratta di due progetti peraltro diversissimi fra loro, quasi non paragonabili, entrambi elaborati da figure di spicco del movimento rivoluzionario piemontese. Il primo è opera di Maurizio Pellisseri ed è parte di un più articolato

Progetto di governo rivoluzionario o sia provvisorio per il Piemonte già oggetto di

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attuazione, ma sono comunque una testimonianza interessante del fermento anche culturale che su questi temi pervadeva il variegato movimento giacobino piemontese negli anni della svolta fra Sette e Ottocento.

Il terzo capitolo è volto ad illustrare come l’idea “un dipartimento, una diocesi”, con tutto il problema dei “confini naturali” che l’idea di dipartimento si portava con sé, sia nata nella Francia rivoluzionaria e poi sia giunta, al seguito delle armate napoleoniche, anche in Piemonte. Napoleone infatti, come ha scritto recentemente lo storico britannico Christopher Duggan ne La forza del destino, “aveva una passione per l’uniformità, e pensava che ciò che aveva funzionato in Francia andasse bene anche altrove” (Duggan 2008, p. 39). I dipartimenti, e a ruota le diocesi, furono forse il tentativo più plastico ed evidente di questa forzosa volontà uniformatrice.

Nel quarto capitolo vengono poste in rassegna cinque opere che seppur con taglio e impostazioni differenti possono essere ricondotte al filone di quella che Mona Ozouf con efficace espressione ha definito “letteratura dipartimentalista”, testi che più o meno consapevolmente cercavano di spiegare – ai disorientati piemontesi, alle prese con nuove entità territoriali che mettevano in discussione antiche identità locali e quadri di riferimento articolati e frammentati, ma comunque consolidati – la nuova geografia rivoluzionaria, su cui furono anche impostate, ma senza ricalcarle del tutto, le nuove giurisdizioni diocesane nate dalla riforma del 1805.

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Tardì, Economo generale per i beni ecclesiastici e stretto collaboratore di mons. Villaret.

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generali, vogliono costituire soprattutto una indicazione di ricerca per ulteriori approfondimenti e confronti a partire da una documentazione che si trova dispersa fra diversi archivi locali (parrocchiali, vescovili, comunali, ecc.) e sovralocali (l’Archivio Segreto Vaticano e soprattutto gli Archives Nationales di Parigi).

La tesi è infine completata da alcune appendici documentarie in cui sono stati trascritti e raccolti una serie di documenti valutati, nel complesso della ricerca, particolarmente significativi ed importanti. Si tratta in particolare di una traduzione italiana della bolla di Pio VII Gravissimis causis adducimur del 1803 e dei due decreti esecutoriali del cardinal Giovanni Battista Caprara del 1803 e del 1805, quest’ultimo il perno centrale sulla cui base fu effettivamente attuata la riforma, la cui entrata in vigore data infatti alla primavera del 1805 e non, come continua a ripetere la storiografia meno aggiornata, al settembre 1803. Altri documenti, come nel caso del carteggio intercorso fra il canonico chierese Clemente Cristoforo Faussone di Montaldo e il teologo Francesco Cottino, fanno emerge il febbrile lavoro che coinvolse i diversi territori per cercare di comprendere e orientare le scelte che, a scalare, erano chiamati a compiere, fra Torino e Parigi, il can. Tardì, mons. Villaret e il card. Caprara.

Il ritardo e la frammentarietà con cui la storiografia ha trattato l’argomento ha fatto sì che sinora mancasse anche una cartografia d’insieme e di dettaglio delle circoscrizioni ecclesiastiche del Piemonte pre e post riforma Caprara. Per questo motivo il lavoro di tesi è accompagnato da una serie di elaborati cartografici appositamente realizzati. Si tratta di un lavoro che è stato particolarmente complesso ed impegnativo, soprattutto per quanto riguarda la costruzione delle due cartografie rappresentanti le diocesi ante e post 1805. La realizzazione di queste cartografie è stata quindi parte centrale del lavoro di ricerca e di rielaborazione dei dati raccolti. Esse sono state realizzate partendo dalla constatazione che ancora mancavano cartografie che restituissero a scala regionale l’estensione delle giurisdizioni vescovili sia nella loro configurazione tardo settecentesca sia nella forma assunta con l’entrata in vigore della riforma Caprara del 1805. L’unica rappresentazione cartografica che ci è nota dell’articolazione diocesana del Piemonte negli anni dell’annessione all’Impero francese è quella pubblicata nell’Atlas administratif de

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volte riprodotta con adattamenti che ne hanno però sempre mantenuta l’impostazione (Lentz 2008, p. 145; Chappey, Gainot 2008, p. 64). In essa, come si può osservare (carta 1), ci si limita, per i territori dei dipartimenti italiani, a indicare solo le sedi arcivescovili senza riportare i confini delle singole diocesi (che invece vengono indicati per la parte propriamente francese, il cosiddetto Hexagon, ma anche per i dipartimenti anseatici, belgi e renani), un’omissione – che si potrebbe

Carta 1 - Le diocesi della Francia napoleonica (da Chappey, Gainot 2008, p. 64).

considerare quasi un errore cartografico – che ha probabilmente la sua origine nell’incompletezza dell’Atlas administratif de l’Empire Français realizzato fra il 1811-1812 e sui cui dati è stata costruita l’opera di de Dainville e Tulard (1973, pp. 10, 28)10.

10 Le diocesi dei dipartimenti annessi sono trascurate anche dall’Atlas de la Révolution française (lo si

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Nel corso del nostro lavoro cartografico – lavoro “lungo e difficile” – si è personalmente sperimentato quanto l’operazione di realizzazione di una specifica cartografia sia stata indispensabile, verificando quindi come attraverso la carta geografica, o meglio geo-storica, sia veramente possibile osservare “fenomeni che una descrizione verbale, una tabella, un grafico non possono rappresentare in maniera altrettanto chiara” (Gardi 2011a, p. 20). Grazie alle cartografie qui realizzate è possibile ora effettuareuna lettura diacronica che consente “di sollevare questioni diverse da quelle che scaturiscono dalla mera analisi delle fonti” (Cengarle, Somaini 2011, p. 31). La realizzazione delle cinque carte che accompagnano e sostanziano il lavoro di ricerca si è quindi rivelata utile non solo per una più immediata comprensione visiva delle problematiche sottese alla riforma napoleonica, ma un indispensabile strumento di ricerca e di analisi in quanto la loro realizzazione ha fatto via via emergere alcune problematiche locali e micro-locali che diversamente sarebbero sfuggite ad una lettura, pure attenta, degli elenchi nominativi di parrocchie assegnate di volta in volta ad ogni singola diocesi. Altre carte riguardano la maglia dei dipartimenti (situazione al 1802) e le diocesi subalpine così come nuovamente modificate nel 1817. Dal confronto fra le singole cartografie realizzate, anche con l’ausilio degli strumenti informatici (esse sono consultabili – anche per effettuare ingrandimenti di dettaglio – nel cd allegato al volume), è possibile individuare rapidamente continuità e trasformazioni dei singoli confini. Per ciascuna delle cinque cartografie realizzate sono state approntate schede metodologiche in cui sono indicate di volta in volta le fonti utilizzate, le problematiche riscontrate nel corso della loro elaborazione e i margini di incertezza che ancora permangono.

L’elaborazione cartografica realizzata nel corso della tesi di dottorato ha in particolare fatto emergere aspetti inediti delle trasformazioni territoriali, geo-ecclesiastiche, della regione subalpina al passaggio fra ancien régime, epoca napoleonica e mondo contemporaneo. Aspetti che solo dall’esame delle fonti documentarie scritte non sarebbero emersi pienamente. Dalla carta delle diocesi rappresentante la conformazione al 1802 emerge chiaro il reticolo disomogeneo

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delle giurisdizioni ecclesiastiche che sopravvissero fino a tutto il Settecento, ancora cartatterizzato da strutture e confini medievali (determinati soprattutto dalle abbazie

nullius e dalle due diocesi dinastiche, quelle dei marchesati di Saluzzo e

Monferrato). Per l’età napoleonica attraverso la cartografia è emerso più chiaramente come le diocesi non abbiano seguito, se non incidentalmente, i confini dei dipartimenti, un postulato della storiografia che si è visto essere valido solo per alcuni tratti di confine, senza peraltro raggiungere la coincidenza fra diocesi e dipartimento che si era invece realizzata in Francia. Dalla carta delle diocesi ristabilite nel 1817 si vedono ri-nascere tutte le antiche diocesi soppresse dodici anni prima, ma con una nuova conformazione territoriale, più moderna ed adeguata alle esigenze di centralità territoriale e comodità di accesso11, come si nota soprattutto

nel caso di Alba, Mondovì, Ivrea e Casale. Si tratta di un assetto nuovo che senza la mediazione della riforma napoleonica, non sarebbe stato possibile attuare da parte del governo sabaudo12. L’elaborazione cartografica ha permesso altresì, esaminando

la carta del 1817 in rapporto a quella ante 1805, di veder riemergere anche, in piena Resataurazione, confini di chiara origine medievale. È il caso del cosiddetto “corridoio di Vezzolano”13, che fino al 1805 separava le diocesi di Vercelli e Casale

Monferrato e poi nuovamente dal 1817 quelle di Torino e Asti. Alla luce anche solo di queste esemplificazioni credo si possa confermare “che la carta non costituisce un mero ausilio del discorso storico” ma diventa essa stessa strumento interpretativo, fornendo dunque allo storico “una comprensione dei fenomeni diversa, e in carti casi più vasta, rispetto a quella che ne avevano i loro stessi protagonisti” (Gardi 2011a, pp. 20-21). I rudimentali (e talvolta inesistenti) strumenti cartografici che i vescovi, il governo sabaudo, la corte pontificia e lo stesso governo napoleonico avevano a disposizione non consentivano infatti di scendere agevolmente alla scala comunale e parrocchiale senza compiere errori e gravi imprecisioni che resero lento e mai 11 Centralità e accessibilità erano stati due dei principi ispiratori della maglia dipartimentale nella Francia

rivoluzionaria.

12 Ritengo che ben difficilmente il governo sabaudo di Vittorio Emanuele I avrebbe avuto il coraggio e la

capacità di abolire la giurisdizione delle abbazie nullius dal reticolo dei poteri ecclesiastici della regione. Più in generale credo si possa affermare che In realtà noi riteniamo che la riforma del 1817 sia stata pesantemente condizionata nei suoi esiti dai boulversements napoleonici dati alla struttura diocesana piemontese. Ecco quindi necessario anche per comprendere le ragioni (e talvolta le contraddizioni) della geografia ecclesiastica del Piemonte tenere presente le scelte del biennio 1802-1805.

13 Si tratta di una sottile striscia di territorio della diocesi di Asti che si incunea per alcuni chilometri in

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pienamente soddisfacente il cammino di riforma territoriale delle diocesi piemontesi, sia nel 1802-1805 che nel 1815-1817.

Un’ampia ed esaustiva bibliografia dà conto infine non solo dei testi via via utlizzati nel corso del lavoro di ricerca a supporto e integrazione delle fonti documentarie, ma anche dei contributi storiografici sul Piemonte napoleonico, sulla riorganizzazione concordataria della chiesa francese, sulle storie diocesane e locali che più da vicino sono state interessate dalla riplasmazione della carta geo-ecclesiastica del Piemonte fra il 1802 e il 1805.

La tesi nel complesso ricostruisce il difficile passaggio riorganizzativo che le diocesi piemontesi hanno vissuto fra tardo Settecento e Restaurazione e vuole costituire un contributo alla realizzazione di quel “mosaico dalla molte tessere mancanti” che è la storiografia sulle “frontiere piemontesi” (Raviola 2009, p. 201). Oltre ad un quadro territoriale meglio delineato emerge dalla ricerca come la riforma napoleonica delle diocesi piemontesi, per quanto annullata e stravolta dalla successiva riorganizzazione del 1817, non possa essere più considerata come una semplice “parentesi” improvvisamente aperta e altrettanto velocemente chiusa in un

continuum storico-religioso plurisecolare, bensì uno snodo centrale nella

comprensione non solo delle due grandi trasformazioni che la mappa geo-ecclesiastica della regione ha subito fra 1802 e 1817, ma più in generale della storia della Ecclesia semper reformanda.

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Ill. 1 – Il territorio della diocesi di Acqui in una carta corografica affrescata all’interno del palazzo vescovile (da Aa.Vv. 2006, p. 114). Raffigurazioni analoghe, tutte idealmente modellate sulla celebre

Galleria delle carte geografiche dei Palazzi Vaticani, si ritrovano anche nei palazzi vescovili di Ivrea

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Capitolo I

Fra antiche diocesi e abbazie nullius:

la complessa geografia religiosa del Piemonte settecentesco

1. Un quadro complesso

I francesi, fin dalla loro prima invasione del Piemonte nel 1796, trovarono un complesso ed articolato quadro della geografia religiosa, con numerose e diversificate situazioni, frutto di una plurisecolare sedimentazione di confini e di giurisdizioni. Quello sabaudo si presentava cioè, sul finire del Settecento, come uno “Stato composito” (Bianchi 2007, p. 30) anche per quanto concerneva l’articolazione territoriale e giurisdizionale delle istituzioni religiose. Le diocesi subalpine erano in quel momento ben diciannove (Acqui, Alba, Alessandria, Aosta, Asti, Biella, Bobbio, Casale Monferrato, Fossano, Ivrea, Mondovì, Novara, Pinerolo, Saluzzo, Susa, Torino, Tortona, Vigevano e Vercelli)14.

Vi erano poi cinque abbazie nullius dioecesis con una propria articolata e puntiforme giurisdizione territoriale: San Benigno di Fruttuaria, San Mauro Torinese, San Michele della Chiusa, Santi Vittore e Costanzo (Villar San Costanzo), Santa Maria di Caramagna.

A rendere complessa la maglia dell’amministrazione ecclesiastica si aggiungevano infine le enclaves di alcune diocesi lombarde (Milano, Piacenza e Pavia) e liguri (in particolare Genova ed Albenga). Molte diocesi sabaude erano 14 Complessivamente a fine Settecento nel Regno di Sardegna vi erano ventotto sedi vescovili e cinque

arcivescovili (Silvestrini 1997, p. 303), così ripartite: in Piemonte un’arcidiocesi (Torino) e diciotto diocesi (vd. elenco infra tab. 1); in Sardegna vi erano tre arcidiocesi (Cagliari, Sassari, Oristano) e sei diocesi (Iglesias, Ales, Nuoro-Galtelly, Alghero, Ampurias, Bosa); in Savoia un’arcidiocesi (Tarentaise) e tre diocesi (Saint Jean de Maurienne, Annecy e Chambery). Nel computo rientrava inoltre la diocesi di Nizza. Le abbazie commendatarie erano ben trentanove in Piemonte (di cui cinque con giurisdizione territoriale nullius) e tre in Sardegna. Vescovati e abbazie esistenti a fine Settecento si trovano elencati nell’almanacco Palmaverde per il 1798 (Il corso delle stelle osservato dal pronostico moderno

Palmaverde almanacco piemontese per l’anno 1798, Torino, Fontana, 1798, pp. 82-88). Le diocesi di

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inoltre ancora suffraganee di quelle di Milano e di Genova e come tali sottoposte a vescovi “stranieri”15. Le diocesi che erano appartenute al Marchesato di Monferrato

(Casale, Acqui e Alba) e le altre diocesi “di nuovo acquisto” (Novara, Vigevano, Tortona e Alessandria) erano suffraganee di Milano, così come lo erano anche due antiche diocesi sabaude quali Asti e Vercelli. Il piccolo vescovato di Bobbio era invece suffraganeo dell’arcidiocesi di Genova. Nel complesso erano quindi dieci – la maggioranza dunque – i vescovati piemontesi che a fine Settecento erano ancora suffraganei di arcivescovi “esteri” e come tali sudditi di sovrani di altri stati.

Tale intricato quadro di giurisdizioni traeva la propria origine e la propria fisionomia dall’età medievale16, cui si erano via via aggiunte nel corso dell’età

moderna modifiche e trasformazioni che – anziché semplificarla – avevano ulteriormente complicato ed articolato la geografia religiosa della regione (tab. 1). Alcune diocesi vedevano le proprie origini affondare nei primi secoli del Cristianesimo: Vercelli, Ivrea, Novara, Aosta, Torino, Asti e Tortona (Monaci Castagno 1997; Lizza Testa, Cracco Ruggini 1998; Perotti 2007). Altre sorsero nel corso del medioevo: è il caso ad esempio di Alessandria, istituita nel 1175 (Polonio 2002), e di Mondovì nel 1388 (Lerda 1989; Comba 2002, pp. 245-246).

Due diocesi nacquero in Piemonte fra tardo medioevo e prima età moderna: Casale Monferrato (1474)17 e Saluzzo (1511)18. Esse furono istituite per volontà

rispettivamente dei Marchesi di Monferrato e dei Marchesi di Saluzzo. L’erezione di queste due nuove sedi vescovili fu uno degli esiti di quel “policentrismo politico” (Tuninetti 2007, p. 7) che caratterizzò la storia piemontese fra tardo medioevo e 15 Cfr. Erba 1979, pp. 23-32; Torre 1996; Cozzo 2007a, pp. 198-199; Greco 1999, pp. 17-18. Il problema

delle giurisdizioni vescovili soggette a vescovi “esteri” alla fine del Settecento era ancora ben presente in Piemonte non solo fra i governanti sabaudi, ma anche fra gli intellettuali del regno. Carlo Denina nelle sue Lettere brandeburgesi (1786) ricordava di come “i Duchi di Monferrato seppero almen far erigere in vescovato la canonica o sia il Casale di S. Evasio, laddove i Duchi di Baviera hanno la loro città principale ancor soggetta al Vescovo di Frisinga” (Denina 1989, p. 22). Infatti Monaco venne eretta in arcidiocesi, unita a Frisinga, solamente nel 1818. Ulteriori riflessioni sui poteri temporali dei vescovi sono contenute nella lettera III (Denina 1989, pp. 26-27).

16 Cfr. ad esempio, per l’arcidiocesi di Torino, l’esaustiva ricostruzione offerta da Casiraghi 1979, 1988,

1989; per l’abbazia nullius di San Michele della Chiusa cfr. Casiraghi 1993.

17 Sull’erezione della diocesi di Casale cfr. Settia 1990; Ferraris 1997; Longo 2008, pp. 77-79.

18 Sull’erezione della diocesi di Saluzzo cfr. Dao 1965, pp. 251-274 e carta A; 1983, pp. 1-8; Cozzo 1998,

pp. 42-43; Lombardini 2008; Merlo 2009; si vedano anche gli atti del convegno Saluzzo, città e diocesi.

Cinquecento anni di storia: 1511-2011 (Saluzzo, 28-30 ottobre 2011), organizzato dalla Diocesi di

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piena età moderna. Con la nascita ed il rafforzarsi dello stato moderno emerse l’esigenza, strettamente politica, di far coincidere il territorio statale, nella fattispecie quello dei due marchesati, con quello delle nuove diocesi che li ricalcavano. L’erezione di nuovi vescovati in questo caso aveva la duplice funzione da un lato di conferire prestigio alle capitali dei due piccoli stati, dall’altro di rendersi autonomi “rispetto alla subordinazione di proprie regioni o persino di lembi dei propri territori a cattedre episcopali poste fuori dai propri domini: troppo ampi erano i poteri esercitati dai vescovi sulla società delle loro rispettive diocesi, in parte in conseguenza delle valenze politiche degli stessi sacramenti […], ma in parte ancora per la potenza economica dei loro patrimoni e per l’autorità giurisdizionale esercitata su uomini e istituti” (Greco 2006, p. 152; Rurale 2008, pp. 40, 42, 56; Prodi 2009, p. 175).

Diocesi Anno di erezione

Acqui, Alba, Aosta, Asti, Ivrea, Novara, Torino, Tortona, Vercelli IV-V secolo

Bobbio 1014 Alessandria 1175 Mondovì 1388 Casale Monferrato 1474 Saluzzo 1511 Vigevano 1530 Fossano 1592 Pinerolo 1748 Susa, Biella 1772

Tab. 1 - Nella tabella vengono indicate le 19 diocesi presenti negli stati sardi “al di qua delle Alpi” al momento dell’occupazione napoleonica, in ordine di erezione. Alcune di esse (Novara, Tortona, Bobbio e Vigevano) pur essendo di origine molto antica, erano però entrate a far parte dei domini sabaudi solo nel corso del Settecento, in seguito alle Guerre di successione polacca ed austriaca (Mezzadri, Tagliaferro, Guerriero 2007-2008). Anche altre diocesi erano state via via incorporate nello stato nel corso dell’età moderna con l’acquisizione dei marchesati di Saluzzo e del Monferrato (Saluzzo, Casale, Acqui e Alba). Novara e Vigevano durante il periodo napoleonico furono assegnate alla Repubblica Italiana (poi Regno d’Italia).

La diocesi di Fossano sorse nel 1592, scorporando quindici parrocchie dalla diocesi di Torino e quattro da quella di Asti (Erba 1979, pp. 15-16; 1981, pp. 141-142; Morra 1995, p. 25; 2008, p. 511; Barbero 2005, pp. 97-100)19. Fossano

ereditava in particolare da quest’ultima le lontane parrocchie di Vernante e Limone situate nell’alta Val Vermenagna, territorio che costituì fin dalle origini una enclave 19 Agli stessi anni dell’erezione di Fossano sembra risalire l’ipotesi, poi non attuata, di costituire una

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per la nuova diocesi, segno evidente che la continuità territoriale e la semplificazione e il riordino dei confini diocesani non erano ancora, sul finire del Cinquecento, una priorità (Greco 1999, p. 16).

Dalla costituzione delle diocesi di Casale, Saluzzo e Fossano la mappa dei vescovati piemontesi ne uscì frammentata e sconvolta. I marchesati del Monferrato e di Saluzzo non possedevano infatti confini omogenei, ma erano costituiti da feudi territorialmente disarticolati che da enclaves politiche divennero anche enclaves diocesane: “non c’era motivo – come ha ben spiegato Aldo Settia, indagando la genesi del vescovato monferrino – di includere nella nuova diocesi i luoghi ecclesiasticamente vercellesi a destra del Po non appartenenti al marchese di Monferrato, fra i quali spiccavano quelli soggetti ai signori di Cocconato, in precedenza vassalli del marchese, ma allora aderenti dello Sforza. Si venne così a costituire una lunga e sottile enclave vercellese distesa da nord a sud in mezzo al territorio casalese. Furono parimenti lasciate alla loro antica dipendenza alcune località appartenenti bensì al marchese, e anzi vicinissime a Casale stessa, ma ecclesiasticamente soggette a Milano e a Pavia, e quindi all’egemonia sforzesca” (Settia 1991, p. 372). L’erezione di Fossano, per quanto determinata da altre motivazioni20, spezzò invece definitivamente il continuum territoriale

dell’arcidiocesi di Torino, isolando l’arcidiaconato della valle Stura dagli altri territori torinesi (Gandolfo 1973, tavv. 6, 10-12). L’articolato e incoerente quadro delle giurisdizioni ecclesiastiche subalpine scaturito dopo la creazione dei vescovati di Casale, Saluzzo e Fossano fu poi ulteriormente modificato nel corso del Settecento con l’erezione di nuove diocesi a Pinerolo (1748)21, Susa e Biella (1772)

(tab.1)22.

A rendere complesso il quadro giurisdizionale vi era poi il caso di alcune parrocchie che ancorché assegnate ufficialmente ad una diocesi, rimasero di fatto aggregate a quella di antica appartenenza. È, ad esempio, quanto si verificò in alcune delle località che nel 1511 erano state assegnate alla nuova diocesi di Saluzzo, ma 20 Cfr. Barbero 2005, pp. 98-99.

21 Sull’erezione della diocesi di Pinerolo cfr. Cozzo 2001.

22 Nel 1673 si tentò di erigere Oneglia in vescovato al fine di “svincolare i sudditi ducali dalla

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che di fatto continuarono ad essere assoggettate ai vescovi che fino ad allora vi avevano esercitato la giurisdizione. Camerana, località in quell’anno staccata dalla diocesi di Alba, continuò ad essere assoggettata al vescovo albese sino al 1805, quando passò alla diocesi di Mondovì (Conterno 1986, p. 295 n. 8; Amedeo 1989, p. 170). Caso analogo sembra essere quello delle quattro parrocchie della Castellata (Bellino, Casteldelfino, Pont e Chianale), nell’alta valle Varaita, che rimasero soggette all’arcidiocesi di Torino fino al 1788 in quanto “le comunità locali rifiutarono il passaggio al vescovato di Saluzzo” cui erano state assoggettate con la bolla istitutiva del 1511 (Garellis 2001, p. 42; Dao 1965, p. 272; Erba 1979, p. 19 n. 70).

Nel Piemonte settecentesco troviamo infine cinque abbazie nullius che ancora esercitavano una propria giurisdizione “quasi episcopale” (Greco 2006, p. 167) la cui estensione ed articolazione giurisdizionale è qui stata cartografata per la prima volta nella sua effettiva estensione tardo settecentesca, dopo le permute del 1749 e 1781 e dopo il riconoscimento delle prerogative nullius dell’abbazia di Villar San Costanzo del 1782 (cfr. infra, par. 2). Per queste particolari giurisdizioni valgono pienamente, per quanto è stato possibile appurare nel corso di questa ricerca, le osservazioni di Gaetano Greco che ha evidenziato come “su questa specifica tipologia delle circoscrizioni ecclesiastiche non vi sono quelle conoscenze e quella consapevolezza sulla loro stessa esistenza, che pure meriterebbero” (2006, p. 167)23. La presenza di queste abbazie nel cuore del Piemonte rappresenta – come

ha efficacemente rimarcato Paolo Cozzo recentemente – “un vero e proprio buco nero nel quadro delle conoscenze sulla Chiesa subalpina d’età moderna” (Cozzo 2007b, p. 188). Prova di ciò sembra essere la stessa difficoltà ad individuarle e computarle correttamente, difficoltà che a tratti si riscontra tanto nella documentazione archivistica quanto nella successiva storiografia24. La bolla

23 Circa le abbazie nullius nei territori sabaudi nel corso dell’età moderna cfr. Erba 1979, pp. 90-94;

Silvestrini 1997, pp. 293-308; Anselmo 2001, pp. 123-124; Cozzo 2007a, pp. 203-204.

24 Il disinteresse verso le giurisdizioni “quasi episcopali” delle abbazie nullius dioecesis che perdura

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pontificia Gravissimis causis adducimur di Pio VII (1803) con cui si demandava al card. Caprara il riordino delle diocesi subalpine non faceva infatti cenno della presenza di queste abbazie (Chiuso 1888, vol. III, p. 42 n. 2; Vignono, Ravera 1970, p. 96 n. 3). L’arcivescovo di Torino Luigi Buronzo del Signore in un proprio memoriale indirizzato al governo parigino nell’ottobre 1802 citava “six (sic) abbayes nullius”, senza peraltro nominarle o elencarle, e a margine qualcun’altro – forse un addetto della legazione parigina – annotava i nomi di quattro di esse, dimenticando in particolare quella di Caramagna25. L’esistenza di queste

giurisdizioni fu comunicata da mons. Buronzo al card. Caprara durante il suo soggiorno a Parigi nell’inverno 1802-1803. Il legato pontificio ne diede immediata comunicazione a Consalvi, che seguiva le trattative a Roma, scrivendogli che “l’Arcivescovo di Torino parlando meco sugli affari del Piemonte ha detto, che varii Vescovati, che si aveva idea di sopprimere, in sostanza non erano prima che Abbazie nullius, e di non molta estensione, benché in dieci leghe di Piemonte si trovi più popolazione, che in altrettante in Francia”26. Buronzo ribadisce l’esistenza di sei

abbazie nullius in una sua relazione indirizzata a Napoleone il 27 dicembre 1802 e in un successivo piano del 29 marzo 1803. In quest’ultimo citava infatti ancora le sei “abbayes de iurisdiction indipendante” di cui nominava però espressamente solamente quelle di San Benigno di Fruttuaria e di San Michele della Chiusa27.

Dimostrazione ulteriore di quanto le abbazie nullius fossero una presenza sfuggente (ma anche di quanto poco circostanziate fossero state le informazioni fornite da Buronzo nel corso del suo soggiorno parigino, cosa che probabilmente contribuì ad attirargli successivamente le ire di Napoleone) è lo stesso decreto esecutoriale redatto nell’estate 1803 da Caprara che prevedeva, nella versione italiana “ufficiale”, la soppressione “delle abbazie di San Benigno, S. Michele della Chiusa, S. Vittorio,

Novecento (ad es. San Paolo fuori le mura), attualmente esistenti (Montecassino) o che furono ad un certo punto della propria storia elevate a sede vescovile (Guastalla).

25 Archives Nationales, Paris, F/19/1907, fasc. 3, c. 4 (qui trascritta in appendice documentaria n. 1). Il

numero di sei abbazie è evidentemente errato: nel documento mons. Buronzo fa però seguire immediatamente l’elencazione delle sei diocesi che avevano enclaves in Piemonte (Piacenza, Pavia, Milano, Genova, Noli e Savona). Potrebbe essere stato un lapsus calami per cercare di nascondere al governo francese l’effettiva natura e consistenza delle abbazie nullius piemontesi: al proposito Max Tacel ha parlato di un “malveillant Buronzo” (1955, p. 29).

26 Archives Nationales, Paris, F/19/1910, fasc.5, dispaccio del 5 dicembre 1802 n. 239.

27 Entrambe le relazioni stilate da mons. Buronzo durante il suo soggiorno a Parigi nell’inverno

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S. Costanzo, e S. Mauro” (Nuova 1807, p. 364) di fatto sdoppiando in due abbazie quella dei Santi Vittore e Costanzo, ma soprattutto omettendo di citare l’antica e decadente abbazia di Caramagna (Tacel 1955, p. 29)28, che esercitava la propria

giurisdizione, oltre che a Carmagna, su Cavallerleone. Tali imprecisioni si ritrovano amplificate – attraverso una sorta di catena bibliografica – dalla storiografia del tempo: ad esempio Carlo Denina nella sua Istoria della Italia occidentale parla della soppressione di “sei abazie” (anziché cinque) e scriveva: “le abbazie di san Michele della Chiusa, di san Benigno, di san Vittore, di san Costanzo e di san Mauro […] furono sommesse ai vescovi nel cui territorio trovavansi” (1809, vol. V, pp. 309-310). Di soppressione di “sei abadie” scrisse anche Antonio Coppi nei suoi celebri

Annali d’Italia (1849, vol. IV, p. 7). Lo storiografo andezenese basava a sua volta la

propria ricostruzione su La storia dell’anno MDCCCIII in cui il decreto esecutoriale del 1803 era tradotto integralmente ma, con una erronea interpunzione di virgole, le quattro abbazie citate da Caprara – mancava come detto Caramagna – divennero sei: “Abbazie di San Benigno, di S. Michele, della Chiusa, di San Vettore (sic), di San Costanzo, e di San Mauro” (s.a., 1804, p. 214)29. Da quest’opera, sorta di sillabo

storiografico, la moltiplicazione delle abbazie nullius piemontesi conobbe una duratura fortuna bibliografica se cinquant’anni dopo l’autorevole Dizionario di

erudizione storico-ecclesiastica di Gaetano Moroni le elencava, assurdamente, in

questo modo: “le abbazie di s. Benigno, s. Michele, s. Vittore, s. Costanzo, s. Mauro e della Chiusa” (Moroni 1851, vol. LII, p. 307). Anche qui dalle quattro abbazie inizialmente computate se ne fecero sei, senza però ricordare Caramagna. L’incertezza sull’effettiva consistenza delle abbazie nullius piemontesi riemerse ancora nel corso delle trattative per il ristabilimento delle antiche diocesi condotte da Barbaroux nel 1816 (Berra 1955)30.

Si trattava di istituzioni di origine monastica nate nel corso del medioevo e poi sopravvissute indenni, seppur a tratti ridimensionate nell’estensione della propria giurisdizione, fino all’età napoleonica. Si pensi all’abbazia di San Benigno di 28 Stranamente l’abbazia di Caramagna figura annessa alla diocesi di Cuneo nella versione del decreto

esecutoriale del 1803 pubblicato da Tomaso Chiuso (1887, vol. II, p. 388; cfr. Nuova 1807, p. 368).

29 Sull’opera storiografica di Antonio Coppi mi permetto di rinviare a Fassino 2011a.

30 Gli esiti di questa confusione sulle abbazie nullius permane tuttora, ad es. Giuseppe Tuninetti, storico

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2. Tentativi di riforma delle diocesi sabaude fra Sei e Settecento

Non è questa la sede per ricostruire compiutamente l’evoluzione e le motivazioni profonde che concorsero a determinare e consolidare nel corso dell’età moderna un quadro istituzionale della geografia ecclesiastica dei territori piemontesi complesso ed articolato, peraltro già ben definito da numerosi studi recenti (Erba 1979; Silvestrini 1997; Cozzo 2007a). Sia quindi sufficiente, in questo contesto, richiamare gli snodi essenziali e più problematici per delineare il quadro che i francesi si trovarono a dover affrontare al momento dell’unificazione del Piemonte alla Francia (11 settembre 1802). L’esigenza razionalizzatrice delle circoscrizioni ecclesiastiche manifestata da Napoleone in Piemonte aveva già trovato, lungo tutto il Settecento, numerose e diversificate occasioni di attenzione da parte sia dei governanti che degli intellettuali (Carena, Pellisseri, Morardo, ecc.).

Con l’estendersi del potere sabaudo, fra Sei e Settecento, su più vaste aree territoriali e con il parallelo rafforzarsi dell’istituzione provinciale si fece infatti via via sempre più sentita l’esigenza di razionalizzare i confini diocesani: “la crescita della provincia porta irresistibilmente lo stato che ha una vocazione giurisdizionalistica e una cultura in parte gallicana a voler far coincidere diocesi e province” (Ricuperati 2007, p. 42). L’esigenza di avere uno stato “bene amministrato” e l’estendersi via via dei confini del regno sardo-piemontese, con le acquisizioni a occidente degli Escartons di Oulx, Pragelato e Casteldelfino, a oriente del Monferrato, Novarese, Lomellina, Vigevanasco, Tortonese e Val Trebbia contribuirono a tenere viva, senza peraltro mai concretizzarla, l’idea di far coincidere giurisdizioni provinciali ed episcopali31. Se la riflessione più matura in tal

senso fu probabilmente l’opera dell’avvocato Angelo Paolo Carena (infra, par. 3), essa fu preceduta da altri tentativi32, anch’essi orientati a ottenere una coincidenza

fra giurisdizione civile ed ecclesiastica. Il primo a muoversi in questa direzione agli 31 Merita succintamente ricordare le principali tappe dell’estensione dei domini dei Savoia: Asti nel 1531,

Saluzzo nel 1601 (ma occupata dal 1588), il Monferrato in parte nel 1631 e parte nel 1713, Pinerolo a fine XVII sec., Alessandria, Valenza e Valsesia nel 1713, Tortona e Novara nel 1738, Bobbio,Voghera, Vigevano e Alto Novarese nel 1748.

32 Va precisato che si trattava appunto di tentativi e di proposte che non si concretizzarono: la coincidenza

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inizi del Seicento sembra essere stato il vescovo di Fossano, mons. Agostino Solaro di Moretta33, consigliere del duca Carlo Emanuele I. Nel 1622, dopo una generale

riorganizzazione delle province sabaude34 attuata l’anno precedente, il presule

fossanese consigliava al duca “di richiedere alla Sede apostolica l’erezione di sei nuovi vescovadi, in modo tale da far coincidere i confini politico-amministrativi delle province appena istituite con quelli ecclesiastico-religiosi delle diocesi piemontesi” (Cozzo 2003, p. 295)35. Le nuove diocesi da istituire, nel progetto di

monsignor Solaro erano quelle di Cuneo, Pinerolo, Susa, Ceva, Biella e Savigliano. Le motivazioni erano molteplici ed essenzialmente politiche. Lo scopo di una simile operazione era infatti soprattutto quello di dimostare

al mondo maggiormente la pietà sua et il zelo alla religione, et insieme apparirà non esser i Stati suoi inferiori ad un regno per numero di città, per moltitudine de’ popoli, né per grandeza il Stato, come si potrebbe provare con l’esempio del regno di Napoli, il qual riceve più splendore dal numero delle città e de’ vescovi che da altra cosa, et pure la più parte di quelle città non devono uguagliarsi in cosa alcuna con moltissimi luoghi di Piemonte […]. È utile ancora a V.A. perché haverà maggior numero de soggetti da valersene nell’occasioni, presupponendo io che se ne farà scelta et non si ridurrà alla scarsezza in che si trova, che di tanti prelati di pochi si può servire. […] È anche utile perché di tanti vescovi qualch’uno ne riuscirà, con i favori et aiuto suoi, cardinale et forsi papa, la qual cosa apporterebbe utile grande e riputatione al Stato et V.A. ancora, come s’è visto in altre provintie con loro infinito benefitio et honore. Et V.A. lasci dire chi vuole: faccia stima di Roma, nutrisca le sue adherenze, et se vuole anche si renderà il papa partiale (Cozzo 2006, pp. 300-301).

Con l’erezione di Ceva a vescovato si sarebbe liberata questa cittadina “con l’altre del suo mandamento dal dominio spirituale del vescovo d’Alba”. Questi, così 33 Mons. Agostino (in alcuni testi chiamato però anche Agassino o Agaffino) Solaro di Moretta, detto

anche il cavaliere di Moretta, entrò nella Compagnia di Gesù, fu quindi prevosto di Moretta e poi teologo auditore del cardinale Maurizio di Savoia. Fu vescovo di Fossano dal 1621 al 1625, anno in cui fu nominato vescovo di Saluzzo, sede di cui non prese però mai possesso perché morto anzitempo (Morra 1995, pp. 31-32). Scrisse un importante (ancorché poco noto) trattato sulla Sindone, comparso postumo, intitolato Sindone evangelica, historica e theologica, Torino, Cavalleris, 1627 (Zaccone 2003).

34 Cioè un’area all’epoca ancora abbastanza circoscritta, priva ancora del Monferrato e degli altri territori

annessi nel corso del secolo successivo.

35 Proposizioni fatte a S.A.R. dal Cavagliere di Moretta per l’erezione de vescovadi in Cuneo, Pinerolo,

Susa, Ceva, Biella e Savigliano (1622), in Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie Ecclesiastiche, Materie Ecclesiastiche per categorie, cat. 2, Materia beneficiaria, mazzo 2, fasc. 7, ora edito in Cozzo

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come il vescovo di Casale e quello di Acqui, era infatti un suddito monferrino: bisognava invece fare in modo che “niun vescovo di dominio forestiero avesse diocesi o giurisdizione alcuna” sui territori sabaudi. Secondo la proposta di monsignor Solaro nell’erigere i nuovi sei vescovati non si sarebbero dovute toccare le rendite delle abbazie e degli altri benefici ecclesiastici già esistenti “perché direbbe Roma che V.A. vol far molti vescovati a spese della Chiesa senza utile d’essa Chiesa”. Il vescovo di Fossano di contro proponeva al duca di attingere, per dotare le nuove mense vescovili, alle rendite delle confrarie dello Spirito Santo36:

questi beni sono come derelitti, non apportano utile considerabile né al padrone né al Stato, et Roma sentirà utile per gl’emolumenti delle bolle, collazioni, vacanze, et V.A. viene a far molti vescovati di suo juspatronato senza spesa et senza interesse et senza diminutione d’abbatie né d’altri beneficii.

Le terre poi nelle quali si farà tal applicatione non perdono totalmente li redditi, ma cambiano solo il modo di consumarli. Se si dirà che i poveri restano privi di tali aiuti, si risponderà che il maggior bene si deve sempre preporre al minore, che con tutto ciò i poveri non vengono a perdere, anzi guadagnano, perché ove per tali redditi non hanno che soccorso una volta l’anno, con l’occasione del vescovo havranno l’elemosina tutto l’anno, sapendosi massime l’abuso grande che si commette nell’amministratione, et maggiore nella distributione, nella quale ben poca parte ne tocca a’ poveri, come è pur noto (Cozzo 2006, p. 303).

L’aumento delle sedi vescovili, qui intese come vero e proprio instrumentum

regni, avrebbe dunque favorito, nella strategia prospettata al duca da mons. Solaro,

un “maggior controllo sui sudditi e maggior prestigio internazionale” (Merlo 2009, p. 23), motivazioni che in parte si ritroveranno ancora un secolo e mezzo dopo nelle

Considerazioni di Carena (1878, pp. 638-639, 661-662).

Il suggerimento prospettato da mons. Solaro di Moretta per la costituzione di nuove diocesi non fu l’unico. Un secolo dopo troviamo ad esempio una proposta originale, quale appare essere l’ipotesi di istituire una nuova sede vescovile a Nizza Monferrato, caso particolarmente interessante perché rivela l’esistenza di una “spinta dal basso, un interesse da parte delle élites locali per la promozione della

36 Sulle confrarie dello Spirito Santo, “forma complessa e sfuggente di organizzazione rituale, […]

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città”. La proposta venne avanzata nel 1739 dall’abate di Calamandrana37, un

esponente della piccola nobiltà locale, e consisteva nello smembramento di una trentina di località dalla diocesi di Acqui, poste a corona intorno alla città di Nizza. Il Calamandrana offriva in dote i benefici ecclesiastici di cui era in quel momento investito, chiedendo però in contropartita al sovrano la propria nomina a primo vescovo della cittadina: egli era infatti mosso dal “desiderio d’unire al mio decoro quello della stessa città patria” e suggeriva altresì al sovrano di erigere il territorio nicese in provincia autonoma: “formare perimenti una nuova prefettura e renderne capo questa medesima città di Nizza […] degna d’avere ancora un tale honnore” (Cozzo 2001, pp. 374-375). Il re in cambio avrebbe ottenuto, alla morte di Calamandrana, il diritto di nomina di un vescovo in più, ed un maggior prestigio per il regno. La proposta avanzata dall’abate nicese non trovò applicazione, ma essa è comunque un esempio significativo di come articolati contributi tesi a conseguire una nuova e diversa organizzazione ecclesiastica e territoriale venissero promossi anche a partire da iniziative locali, in un complesso e fecondo rapporto fra centro e periferia. Sempre fra le proproposte settecentesche tese ad aumentare i vescovati va annoverata quella di Angelo Paolo Carena che, come si vedrà meglio nelle pagine che seguono, ipotizzò nelle sue Considerazioni sopra una nuova divisione delle

province e diocesi degli Stati di S.M. il Re di Sardegna l’istituzione di ulteriori

diocesi nell’Alto Novarese (con sede a Omegna), a Biella, Susa e Cuneo (Carena 1878, pp. 663, 665; Comino 2003, p. XI), riprendendo e aggiornando al mutato quadro territoriale la proposta seicentesca di mons. Solaro i cui contenuti, a Settecento inoltrato, “mostravano ancora una sorprendente attualità” (Cozzo 2003, p. 320).

Nel corso del XVIII secolo, nonostante i Savoia fossero riusciti a mutare il quadro istituzionale con la creazione delle tre nuove diocesi di Pinerolo, Susa e Biella non fu però possibile attuare una riforma dei confini diocesani che portasse ad una riorganizzazione e razionalizzazione complessiva. Tenendo invece presente un principio che potremmo definire dei “saldi invariati” si avviò a metà del secolo una serie di permute finalizzate a riordinare in particolare le giurisdizioni piccole e 37 Non mi è stato possibile appurare l’effettiva identità dell’abate di Calamandrana, dietro cui potrebbe

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disperse delle abbazie nullius. Tale riordino, come si vedrà molto parziale, andò poi a toccare giocoforza anche alcune diocesi (essenzialmente Torino e, in misura minore, Alba). La prima e più consistente serie di permute la si ebbe nel 1749, contestualmente all’erezione del vescovato di Pinerolo. Nell’ambito della creazione di quella nuova diocesi fu infatti necessario provvedere anche ad un parziale riordino delle giurisdizioni che altre abbazie e priorati avevano nella vicina valle di Susa (prevostura di Oulx, priorato di San Giusto di Susa, Santa Maria Maggiore di Susa, Sacra di San Michele) (Sacchetti 1788, pp. 119-126; Cozzo 2001, pp. 355-357). Cinque parrocchie dipendenti dall’abbazia di San Giusto di Susa (contestualmente trasformata in chiesa collegiata) – di cui era abate il cardinal Carlo Vittorio Amedeo delle Lanze (1712-1784)38, in quell’anno investito della commenda

abbaziale di San Benigno di Fruttuaria – furono cedute all’arcivescovo di Torino39:

Vigone (ove sorgevano due parrocchie: Santa Maria del Borgo e Santa Caterina), Cantalupa (all’epoca meglio nota come Monastero), Ferrusasco (l’attuale Frossasco)

40 e la parrocchia di Priola. Quest’ultima era situata nell’alta Valle Tanaro, in un

territorio circoscritto da parrocchie all’epoca sottoposte alla giurisdizione del vescovo di Alba, motivo per cui venne immediatamente permutata da Torino con Verduno: questa località, posta sulle colline delle Langhe che si affacciano sulla valle del Tanaro era infatti la parrocchia albese più vicina ai confini diocesani di Torino. Il vescovo di Alba41 aveva proposto al collega torinese una terna di

parrocchie fra cui sceglierne una che compensasse appunto la cessione di Priola: si tratta di Roddi, La Morra e, appunto, Verduno42. A sua volta l’arcivescovo di Torino

38 Maria Teresa Silvestrini ha di recente sottolineato la centralità di questa figura, definendo il cardinal

delle Lanze “‘ministro-ombra degli affari ecclesiastici’ per il re Carlo Emanuele III [di cui era cugino naturale], e probabilmente anche quello di arcivescovo virtuale della diocesi torinese, in velato antagonismo con monsignor Roero di Pralormo” (Silvestrini 2002, pp. 409-410; 1997, p. 360); sul card. delle Lanze cfr. i profili biografici di Stella 1990 (con ulteriore bibliografia) e Anselmo 2000, 2002, pp. 47-50. Il card. delle Lanze, dopo la morte avvenuta nel 1784, fu sepolto nella chiesa abbaziale di San Benigno di Fruttuaria dove divenne oggetto di pellegrinaggi taumaturgici, segno dell’indubbio prestigio che la sua personalità seppe mantenere lungamente anche fra il minuto popolo delle sue terre abbaziali (Di Giovanni, pp. 76, 79; Bertotto 1985, p. 21).

39 Mons. Giovanni Battista Roero (1744-1766).

40 Per l’identificazione del toponomimo cfr. Rossebastiano 1990, pp. 288-289.

41 Era all’epoca vescovo di Alba il carmelitano scalzo mons. Francesco Vasco (1727-1749).

42 Verduno confinava con la parrocchia di Pollenzo (che appartenne all’arcidiocesi di Torino fino al 1805)

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