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la complessa geografia religiosa del Piemonte settecentesco

4. Difformità territoriali fra province e diocesi: i casi di Asti e Cuneo

4.2. Una provincia senza vescovo: il caso di Cuneo

141 Archivio Storico del Castello di Mondonio, Relazione sugli abusi nella vicaria, 8 novembre 1731. Ringrazio il dott. Giorgio Musso, proprietario del Castello di Mondonio, per avermi gentilmente messo a disposizione questa documentazione.

La situazione segnalata da Balduini di Santa Margherita e da Corte di Bonvicino per il territorio astigiano, e rimarcata ancora successivamente da Petitti di Roreto, non era peraltro eccezionale: ad esempio la provincia di Cuneo – che nel XVIII secolo non era ancora stata elevata a sede vescovile (lo sarà solamente, come già accennato, dal 1817) – vedeva insistere all’interno dei propri confini porzioni di territori spettanti a sei diverse giurisdizioni: le diocesi di Mondovì, Fossano, Saluzzo e Torino, oltre che le abbazie nullius di San Michele della Chiusa e di Villar San Costanzo (tab. 4). Diocesi numero comuni percentuale comuni numero parrocchie percentuale parrocchie Fossano 7,5142 12,30 % 17 19,10 % Mondovì 14,5 23,77 % 21 23,60 % Saluzzo 22 36,06 % 29 32,59 % Torino143 14 22,95 % 17 19,10 %

San Michele della Chiusa - abbazia nullius

1 1,64 % 1 1,12 %

Villar San Costanzo - abbazia nullius

2 3,28 % 4 4,49 %

TOTALE 61144 100 % 89 100 %

Tab. 4 - Comunità appartenenti alla provincia di Cuneo (XVIII sec.) suddivise per diocesi di appartenenza (rielaborazione dati da Nicolis di Brandizzo 2012).

Bonaventura Ignazio Nicolis di Brandizzo (1720-1776), intendente della provincia di Cuneo dal 1750 al 1763, descrive alla Segreteria degli Interni la provincia affidatagli nella Relazione di ogni città e terra posta nella provincia di

Cuneo. L’azione amministrativa del Nicolis, unita alla sua indubbia capacità di

analisi territoriale lo ha fatto definire “le champion de probité et perfection administratives” (Costamagna 1985, p. 430; Griseri, Rollero Ferreri 2012, p. 34), 142 Al territorio comunale di Cuneo, le cui otto parrocchie (tre cittadine e cinque dei sobborghi) erano suddivise fra le diocesi di Mondovì (Madonna del Bosco, Santa Maria della Pieve, Sant’Ambrogio, Spinetta e Castagnaretta) e Fossano (Passatore, Ronchi e San Benigno), è stato qui assegnato per approssimazione (e comodità di calcolo) il valore assoluto di 0,5 per ciascuna delle circoscrizioni diocesane.

143 In alcune località la giurisdizione arcivescovile era condivisa con l’arcidiacono del duomo di Torino (vd. infra).

144 Dal computo delle comunità viene esclusa Valmala che, pur comparendo nelle tabelle accompagnatorie della relazione dell’intendente Bonaventura Ignazio Nicolis di Brandizzo, non venne dal medesimo descritta.

perfezione che si può facilmente riscontrare confrontando la sua relazione con le coeve opere, recentemente edite, degli intendenti di Mondovì e Asti (Corvesy 2003; Balduini di Santa Margherita 2010). Egli stesso, ha affermato il Ricuperati, “doveva aver una qualche consapevolezza di sfiorare il genere letterario, o di fondare un modello” (Ricuperati 1994, p. 535)145.

Il conte di Brandizzo registra con grandissima attenzione i dati relativi alle appartenenze diocesane delle singole comunità rientranti nel territorio cuneese: “si è venuto a ragionare delle parrocchie ed ivi si accenna se ve ne sia una sola o più, sotto qual titolo siano, se di libera collazzione o diritto patronato” (Nicolis di Brandizzo 2012, p. 43). Di volta in volta l’intendente non manca di indicare le peculiarità della giurisdizione ecclesiastica da lui rilevate: ad esempio a Pradleves segnala come “propriamente non si può dire che vi sia parroco, perché non s’instituisce: i particolari nominano un sacerdote e fanno con lui una capitolazione

ad tempus: e questo è il parroco” (p. 94); a Vignolo, caso unico nella provincia, “non

evvi parrocchia e la cura delle anime spetta al parroco di Cervasca, il quale mantiene quivi un vice parroco che fa a nome del parroco tutte le fonzioni parrocchiali” (p. 233)146. In alcune comunità a fronte di un’unica parrocchia si utilizzavano per il culto due chiese. A Stroppo (valle Maira):

tutto che vi sia un sol parrocho, due però sono in questo luogo le chiese parrocchiali. Una è sotto il titolo di San Gioanni Battista, e questa la più raguardevole, e l’altra è sotto il titolo de’ Santi Pietro e Paulo. Nella prima e terza domeniche del mese il parroco canta la messa parrocchiale in San Giovanni, chiamata la chiesa e parrocchia sottana, e nella seconda e quarta domeniche va a cantarla in San Pietro. Il catechismo però e la spiegazione del Vangelo si fanno soli in San Gioanni. Si seppellisce però tanto in una chiesa quanto nell’altra. Vicino alla chiesa di San Pietro, detta la parrocchia sovrana, vi sono pochissime case. I pochi particolari però che ivi si trovano sostengono con tutto impegno la loro chiesa e nascono per ragione di dette due parrocchie molte dissenzioni nel luogo (p. 322).

145 Sulla relazione del Nicolis di Brandizzo cfr. anche i risultati del recente convegno su La Provincia di

Cuneo a metà Settecento nello specchio della Relazione Brandizzo. Stato attuale delle conoscenze e nuove prospettive di ricerca (Cuneo, 9 novembre 2012).

146 Il caso di comuni senza parrocchia autonoma erano, per quanto rari, presenti anche in altri territori: situazione analoga, già lo si è visto, la troviamo ad esempio a Dusino (diocesi di Asti) e a Pavarolo (arcidiocesi di Torino; fino al 1781 era unito alla parrocchia di Montaldo Torinese, il cui parroco vi destinava un vicecurato). Vignolo divenne parrocchia autonoma nel 1822 (Rosso, Rosso, Pinach 2007, p. 299).

Analoga, ma non identica, la situazione riscontrata a Roccasparvera dove la borgata di Castelletto era riuscita ad ottenere l’erezione in cappellania semi-autonoma:

quantunque vi sia in questo luogo un sol paroco ed una sola parrocchia, sono però due le chiese in cui si amministrano i sacramenti, e si rendono a morti gli ultimi uffizi. È da sapersi che in 2 parti principali è diviso il luogo di Roccasparvera, una tiene nome di Roccasparvera, l’altra si chiama Castelletto. Da tempo antichissimo evvi al Castelletto una chiesa sotto il titolo di S.ta Margherita. In questa chiesa mantengono gli abitatori un capellano, il quale battezza gl’infanti, spiega la parola di Dio, sepelisce i morti e fa ogni altra fonzione parrocchiale. Il tutto però compie de mandato del parroco, il quale in certe feste dell’anno è obligato di andare [a] officiare in quella chiesa. Fa dunque figura quel cappellano di vicecurato e gli rassomiglia tanto più quanto è obligato a dar conto al parroco di tutto ciò che esige di dritti parrocchiali. Solo in questo si distingue dagli altri vicecurati, che quivi i rurali del Castelletto sono quelli che lo nominano e lo mantengono (p. 104).

Siamo di fronte a quel processo di “apparrocchiamento e frammentazione” evidenziato in numerose ricerche da Angelo Torre (2011, p. 69) e che già abbiamo ritrovato a Marmorito ed in altre località astigiane. La tabella 3 mette in luce come nei 61 comuni che componevano l’allora provincia di Cuneo, vi erano 89 parrocchie. La differenza era dovuta al maggior numero di parrocchie cittadine (otto a Cuneo, sette a Fossano), ma anche alla frammentazione all’interno di comuni dal territorio vasto e suddiviso in più borgate, come erano soprattutto quelli montani: ecco quindi che in valle Maira troviamo cinque parrocchie a Dronero, tre a Busca, due ad Acceglio, San Damiano Macra e Villar San Costanzo. A Canosio il Brandizzo non mancò di annotare come da ciò ne derviasse “una gelosia tra i parrocchiani delle due parrocchie, che non si faccia una spesa in una parrocchia, che non si facci nell’altra” (Nicolis di Brandizzo 2012, p. 311 n.). Avevano due parrocchie anche Castelmagno (valle Grana), Pietraporzio, Vinadio e Demonte (valle Stura), oltre a Chiusa Pesio e Peveragno, due popolosi paesi posti a est di Cuneo.

Per ciascuna parrocchia l’intendente nella sua relazione era poi tenuto a specificare se le parrocchie fossero di libera collazione o di giuspatronato, indicandone in tal caso il titolare, a partire ad esempio da alcune parrocchie del capoluogo la cui nomina, scriveva con un lieve stupore, “si conferisce a dirittura dal

sommo Pontefice” (p. 45) o, come a Centallo, dove era “di patronato della Corona” (p. 173). Analogamente evidenzia i casi, diffusi in Piemonte, in cui le funzioni parrocchiali erano formalmente esercitate direttamente dal vescovo stesso, attraverso dei vicari parrocchiali: è quanto si riscontra a Caraglio (“il paroco di questo luogo è l’arcivescovo di Torino, il quale nomina per accompiere gli officii parrocchiali un vicario foraneo, amovibile a suo beneplacito”, p. 190)147 e Borgo San Dalmazzo (“eravi altre volte in questo luogo un’abazia famosa, la quale essendo stata unita al vescovado di Mondovì, ne deriva che il parroco del Borgo sia sempre il vescovo di Mondovì”, p. 78).

Veniva poi rimarcata, né poteva essere diversamente, la peculiare situazione della valle Stura di Demonte, che si trovava di fatto ad essere spiritualmente affidata non tanto alle cure pastorali dell’arcivescovo della capitale, quanto a quelle dell’arcidiacono della cattedrale torinese:

la giurisdizione ecclesiastica è divisa tra l’arcivescovo di Torino e l’arcidiacono di quella stessa cattedrale. La contenziosa spetta all’arcidiacono e la graziosa all’arcivescovo; quindi ne deriva che se un sacerdote delinquisse, procede criminalmente l’arcidiacono, così pure se si deve far citare un prete per debiti. L’arcidiacono ha altresì le ragioni di visitare la Valle tanto superiore, che inferiore, alla riserva delle due terre di Bersezio, ed Argentera. Dicasi che ne’ tempi antichi per questo fine sia stato accordato all’arcidiacono il diritto della decima che gli pagano le comunità (p. 257)148.

La duplice giurisdizione fra l’arcivescovo e l’arcidiacono era stata causa di conflitti e collisioni fin dal medioevo, a discapito talvolta della cura animarum. Durante la visita apostolica del 1584 il convisitatore Paolo Galateri ai Bagni di Vinadio riscontrò che i parrocchiani vivevano “cum sint oves errantes absque

pastore” (Grosso, Mellano 1957, p. 223). I conflitti giurisdizionali in valle Stura

ebbero il loro apice nella seconda metà del Seicento: “la contesa raggiunse momenti di particolare tensione intorno al 1659” quando la complessa controversia fu risolta 147 Nell’arcidiocesi di Torino si trovavano situazioni analoghe anche a Lanzo, Cavour, Racconigi e in alcune parrocchie del suburbio torinese (Mainardi 1980, pp. 29-30).

148 Tale doppia giurisdizione si estendeva in modo irregolare fra i vari paesi della valle. In particolare, stando a quanto espressamente riportato dal conte Nicolis, essa riguardava, all’epoca della Realzione, i territori della bassa e media valle Stura: Roccasparvera, Rittana, Gaiola, Moiola, Valloriate e Demonte; da un elenco del 1726 risultano soggette anche le località dell’alta valle (Chiuso 1887, vol. I, p. 16 n.). Cfr. per un inquadramento storico di lungo periodo Greco 2006, p. 166; Ristorto 1968, pp. 60-63; Riberi 2002, vol. II, pp. 800-801; Casiraghi 2007, 2008.

da un arbitrato fra l’arcivescovo Giulio Cesare Bergera (1642-1660) e l’arcidiacono Cristoforo Ducco (1658-1660). Mediatori della contesa furono i canonici torinesi Ignazio Carroccio, Petrino Aghemio e Carlo Francesco Castiglione (Casiraghi 2007, pp. 202-204). A quest’ultimo in particolare fu affidato il compito di studiare ed aggiornare la questione, alla luce delle consuetudini locali, ma soprattutto tenendo presenti le sopravvenute disposizioni tridentine, che rafforzavano la preminenza dei vescovi. Il canonico Castiglione diede alla luce un approfondito studio, pubblicato nel 1659, intitolato De iurisdictione reverendissimi domini archidiaconi

Metropolitanae Taurinensis, eiusque esercitio in tota Valle Sturana, absque praeiudicio iurium illustrissimi et reverendissimi patris ac domini archiepiscopi Taurinensis149. In base ad esso veniva riconosciuta al vescovo la giurisdizione ordinaria, mentre all’arcidiacono furono assegnate alcune prerogative specifiche: “gli fu vietato di rilasciare lettere monitorie e dimissorie, di approvare confessori e predicatori, di dispensare dai digiuni e dall’osservanza dei giorni festivi, di unire o dividere benefici, di erigere chiese e nuove parrocchie, di istituire benefici di giuspatronato senza il previo consenso dell’arcivescovo. Compito specifico dell’arcidiacono, visitando chiese e parrocchie, era quello di prendersi cura degli edifici ecclesiastici, del culto divino e dell’amministrazione dei luoghi pii. Aveva inoltre diritto alla collazione dei benefici nel mesi di marzo, giugno, settembre e dicembre” (Casiraghi 2007, p. 203). Sul finire del Settecento, ai tempi del cardinal Costa d’Arignano, la giurisdizione sembra comunque – di fatto se non anche di diritto – essere pienamente in mano all’arcivescovo di Torino150, che vi trovò una situazione di grande disordine, giustificabile (ma credo solo in parte) dalla

149 Se ne conosce al momento un’unica copia, già appartenuta allo storico mons. Alfonso Maria Riberi, ora conservata presso la Biblioteca del Seminario di Cuneo; cfr. Bosio 1863, coll. 1768 e 1784; Casiraghi 2007, p. 214.

150 Tommaso Canestri fa perdurare la giurisdizione dell’arcidiacono di Torino fino al decreto esecutoriale del 1805 (Canestri 1835, p. 8); segnala altresì, ma anche in questo caso senza ulteriori riscontri, la presunta giurisdizione parrocchiale esercitata su “alcune parrocchie” da parte dell’arciprete del capitolo cattedrale di Asti.

lontananza dalla sede vescovile e dallo “sguardo del vescovo”151. In occasione della visita pastorale da lui compiuta nell’estate 1786:

frequenti – scrive lo storico Oreste Favaro – furono i disordini a cui dovette porre rimedio con severi decreti nei paesi più alti delle valli. Molto spesso era negletto il più elementare decoro della casa di Dio: a Sambuco dovette interdire la stessa chiesa parrocchiale così trascurata che “il tetto minacciava rovina, il pavimento era tutto sconnesso e dalle finestre aperte, non soltanto entravano liberamente gli uccelli che nidificavano in chiesa, ma il vento gagliardo dei monti spegneva le candele dell’altare”. L’arcivescovo proibì al parroco ed a qualsiasi altro sacerdote di tenervi ancora le celebrazioni liturgiche finché le riparazioni non fossero state eseguite e le finestre chiuse almeno con “tela cerata”. Era allora parroco di Sambuco il celebre ma discusso storico Giuseppe Francesco Meyranesio che evidentemente non sapeva unire alla passione storica altrettanta diligenza nell’amministrazione ordinaria della cura d’anime152. Piuttosto trascurata in queste valli era la pietà per i trapassati: la grossolanità delle popolazioni si rifletteva anche nel modo indecoroso con cui erano tenuti i cimiteri e nello scarso senso di venerazione verso i resti mortali di coloro che vi erano sepolti. Nel cimitero di Vinadio si scorgevano un po’ ovunque ossa e crani dissepolti il che, annota il [cancelliere arcivescovile] Duvivier “è così indecente, irreligioso e ripugnante al senso di umanità che non è d’uopo dirlo”. A Sambuco il cimitero era attraversato nel bel mezzo da una mulattiera per cui le tombe non solo venivano calpestate dai piedi dei passanti ma erano pure insozzate dagli escrementi degli animali (Favaro 1997, pp. 198-199)153.

La situazione descritta da Favaro per Sambuco non va però generalizzata, se pensiamo che negli ultimi decenni del Settecento altre comunità della valle Stura erano invece interessate da un profondo rinnovamento artistico ed architettonico. È il caso ad esempio di Pietraporzio, dove fra il 1787 e il 1793 viene eretta in forme tardobarocche la nuova chiesa parrocchiale di Santo Stefano (Gazzola 1991, p. 98).

151 Prendo a prestito l’espressione “sguardo del vescovo” da Baratti (1989). Il vescovo tende ad avere una visione veloce e a tratti superficiale circa la realtà delle singole parrocchie, soprattutto di quelle più periferiche e lontane dal suo controllo. Lo afferma implicitamente il parroco di Chianale, quando nelle sue memorie ricorda la visita pastorale di mons. Giovanni Battista Roero nel 1751 alle parrocchie della Castellata della valle Varaita (Casteldelfino, Chianale, Pont e Bellino) effettuata “avec un peu trop de precipitation” (Garellis 2001, p. 221; Braida 1987, p. 12): dopo un’attesa da parte del parroco durata vari anni la visita episcopale è fugace, solo poche ore di permanenza.

152 Su G.F. Meyranesio (1729-1793), parroco di Sambuco, celebre storico e falsario, cfr. Giaccaria 1994, pp. 88-98; Tortarolo 1995, pp. 108-112; Roda 1996; Bono 2001; Riberi 2002, vol. II, pp. 544-545; Gazzola 2003, pp. 106-107.

153 La pessima manutenzione dei cimiteri è comunque un fenomeno ricorrente che si ritrova, negli stessi anni, anche in altre località, a partire dalle ricche parrocchie della zona collinare finitima a Torino, e che pertanto non può essere considerata peculiare delle aree montane e marginali (ad esempio si veda quanto avveniva a Moncucco, per cui cfr. Favaro 1997, p. 344 e Fassino 2012, p. 90).

Circa le parrocchie della valle Stura l’intendente cuneese dal canto suo sottolineava le grandi distanze che separano queste comunità dalle proprie sedi vescovili: ad Aisone “la giurisdizione spirituale di questa terra, spetta all’arcivescovo di Torino, tutto che disti la medesima da Torino più di 46 miglia” (Nicolis di Brandizzo 2012, p. 120)154, a Pietraporzio le due parrocchie “dipendono dall’arcivescovo di Torino, abbenché da quella Dominante disti più di miglia 51” (p. 134). Una delle maggiori distanze, anzi quasi sicuramente la maggiore in assoluto, che separava nei domini sabaudi una parrocchia dalla propria sede vescovile di riferimento era quella fra Argentera, nell’alta valle Stura, e Torino che distava “miglia cinquanta cinque” (p. 140). Espressioni analoghe le ritroviamo per altre località della valle quali Vinadio, Sambuco e Bersezio (pp. 124, 130, 137), ma anche per alcune parrocchie delle valli Grana e Gesso, dipendenti – all’epoca – dai relativamente più vicini vescovati di Saluzzo e Mondovì: “è sotto la diocesi di Saluzzo, quantunque disti da quella città 16 miglia” (Pradleves, p. 94), “la giurisdizione spirituale di questa terra spetta al vescovo di Saluzzo, quantunque disti da quella città miglia [--]155” (Castelmagno, p. 99); “dipende questa terra nell’ecclesiastico dal vescovo di Mondovì, da cui dista miglia 20” (Entracque, p. 148). Tali ricorrenti espressioni dell’intendente prefiguravano l’esigenza – peraltro già consapevolmente avvertita da tempo (Mellano 1955, pp. 20-21; Ristorto 1968, pp. 139-141) – di elevare Cuneo ad autonoma sede episcopale, a servizio non solo della città, ma anche delle valli alpine che naturalmente e storicamente vi facevano riferimento: ambizioso risultato che sarà possibile raggiungere solamente nel 1817 (Berra 1955).

Le situazioni delle province di Asti e Cuneo, che si sono volute qui richiamare, si possono complessivamente considerare rappresentative della situazione piemontese più in generale, anche se non va sottaciuto che in altri territori, quali biellese, vercellese e canavese, tutti posti nel nord Piemonte e caratterizzati da una maggiore uniformità sia geo-morfologica che storica, pur non essendovi anche lì una corrispondenza diretta e biunivoca fra provincia e diocesi,

154 A titolo esemplificativo segnalo che il miglio piemontese equivaleva a 2.466,07 metri, le 46 miglia che separavano Aisone da Torino corrispondevano quindi a oltre 113 Km.

non si rilevavano gli eccessi riscontrati nell’astigiano con le sue nove diocesi o nel cuneese costellato da sei differenti circoscrizioni ecclesiastiche.

Capitolo II

Idealità giacobine e circoscrizioni diocesane: