2. Regimi di Welfare ed evoluzione delle politiche abitative
2.3 Il caso italiano
Nella classificazione di Esping-Andersen l’Italia viene collocata all’interno del regime di welfare Conservatore-Corporativo per la propensione del sistema degli interventi finalizzato a soggetti appartenenti a determinate categorie occupazionali. Ferrera ed altri studiosi hanno rivisto tale classificazione. Essi sostengono che, a fronte di alcune specificità dei regimi di welfare dei Paesi Sud Europei, è necessario aggiungere per essi un quarta tipologia definita in letteratura Welfare Familista81. Tale definizione nasce come conseguenza dell’implicita tendenza da parte degli Stati di delegare molti compiti di protezione sociale quasi unicamente alle famiglie, senza però riconoscerne ufficialmente l’importanza attraverso politiche a sostegno del loro operato.
In merito al contesto italiano, nello specifico è possibile osservare alcune incongruenze nel sistema dei servizi. Infatti, se da una parte, con l’introduzione della legge nazionale 419/1998, si è previsto un sistema sanitario di tipo universalistico, dall’altra vi è uno scarso sviluppo delle politiche assistenziali in generale, e sopratutto delle misure contro la povertà, le quali sono da sempre fortemente sbilanciate verso programmi pensionistici legati alla posizione occupazionale. Infatti la questione pensionistica, fin dal Dopoguerra, ha assorbito una larga fascia di risorse a discapito di altri rischi sociali da tutelare; tanto che il caso italiano appariva un modello estremamente generoso grazie ad un buon livello del tasso di sostituzione82, alle condizioni di accesso favorevoli per la pensione pubblica (ad esempio per definire l’importo mensile della pensione venivano presi in considerazione soltanto i tre anni di carriera con la retribuzione più alta) ed alla pratica diffusa di offrire pensioni di invalidità a condizioni molto favorevoli.
Le politiche abitative non hanno rivestito lo stesso interesse. L’Italia ha creduto di lasciarsi alle spalle la questione della casa a partire dagli anni Settanta, demandando di fatto alla famiglie di origine la facoltà o la possibilità di soddisfare il fabbisogno abitativo dei suoi componenti.
Basti pensare che in Italia la prima definizione di alloggio sociale83 è stata introdotta nell’articolo 1 del decreto legge del 22 aprile del 2008, nel quale, nel recepire la normativa europea, si afferma al secondo comma che l’alloggio sociale è “'un’unita' immobiliare adibita ad uso residenziale in locazione permanente che svolge la funzione di interesse generale, nella salvaguardia della coesione sociale, di ridurre il disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantaggiati, che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi nel libero mercato. L'alloggio sociale si configura come elemento essenziale del sistema di edilizia residenziale sociale costituito dall'insieme dei servizi abitativi finalizzati al soddisfacimento delle esigenze primarie84”. Al terzo comma si specifica
81 Da Roit, B., Sabatinelli, S. Il modello mediterraneo di welfare tra famiglia e mercato, in: «Stato e mercato», xxv
(2005) 2, pp. 267-290.
82 Il tasso di sostituzione è il rapporto percentuale, calcolato al netto o al lordo della tassazione, fra la prima annualità
completa della pensione e l'ultimo reddito annuo completo immediatamente precedente il pensionamento.
83 Cecodhas House Europe, Alloggiosocialeeuropeo. Gli ingranaggidelsettore... cit.
inoltre che “rientrano nella definizione di cui al secondo comma gli alloggi realizzati o recuperati da operatori pubblici e privati, con il ricorso a contributi o agevolazioni pubbliche - quali esenzioni fiscali, assegnazione di aree od immobili, fondi di garanzia, agevolazioni di tipo urbanistico - destinati alla locazione temporanea per almeno otto anni ed anche alla proprietà'”. Ed infine, nel quarto comma, viene fatto riferimento agli attori che costituiscono il servizio di edilizia residenziale sociale, sostenendo che esso “viene erogato da operatori pubblici e privati prioritariamente tramite l'offerta di alloggi in locazione alla quale va destinata la prevalenza delle risorse disponibili, nonché il sostegno all'accesso alla proprietà della casa, perseguendo l'integrazione di diverse fasce sociali e concorrendo al miglioramento delle condizioni di vita dei destinatari”.
Come si evince dalla prima definizione di alloggio sociale formulata in Italia, si tende ad identificare il settore social housing prevalentemente con gli alloggi dati in locazione a canone concordato a discapito di interventi volti alla privatizzazione degli immobili.
Precedentemente a tale definizione si faceva riferimento alla denominazione di Edilizia Residenziale Pubblica per indicare il patrimonio immobiliare realizzato con il concorso finanziario dello Stato, o di altri Enti pubblici, per la costruzioni di immobili da concedere in affitto a prezzo contenuto per i cittadini meno abbienti.
Se effettuiamo una superficiale analisi del quadro normativo di riferimento delle politiche abitative in Italia è possibile osservare che, dai primi anni del Novecento e per molti anni a seguire, il settore era caratterizzato dalla presenza dell’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP). Tale Istituto, creato nel 1903 con l’entrata in vigore della legge nazionale n. 251 per volontà del deputato Luigi Luzzati, aveva l’obiettivo di realizzare e gestire alloggi di edilizia pubblica, ispirandosi all’esperienza francese che si basava sul principio di riconoscere dignità al lavoratore prima che in fabbrica, nella propria residenza attraverso la possibilità di poter disporre di un’abitazione confortevole.
Inizialmente l’Istituto era presente solo a Roma e poi, nel corso degli anni, tale tipologia di ente si era diffuso su tutto il territorio nazionale. Dagli studiosi viene definito come il primo intervento strutturato da parte dello Stato nelle politiche per la casa.
A seguire, come intervento normativo, fu introdotto nel 1908 il Testo Unico sull’Edilizia Popolare, che andò a definire la natura giuridica degli IACP, quali enti morali pubblici privi di ogni scopo di lucro e con la possibilità di effettuare delle operazioni di credito attraverso il contributo diretto dei Comuni, delle Casse di Risparmio, delle banche ed anche di semplici privati cittadini, secondo un modello organizzativo a metà strada tra libera iniziativa privata e municipalizzazione.
Gli Istituti Autonomi Case Popolari furono costretti, per sviluppare il proprio programma edilizio, a degli aiuti di Stato, ai sensi degli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità europea”, Pubblicato sulla GU n. 24 del 24 giugno 2008.
ricorrere al credito. Tutto ciò non fu di poco conto e finì per pesare in maniera determinante nella vita degli Istituti, che quindi operarono in una condizione di stretta dipendenza dagli altri due poteri, gli Istituti di Credito e lo Stato, dalla discrezionalità dei quali dipese l'intero processo di intervento nell'edilizia popolare.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale verrà approvato un piano di costruzione di alloggi popolari gestito dall'INA-Casa (Istituto Nazionale delle Assicurazioni). L'obiettivo del piano era dare lavoro a un gran numero di disoccupati, impiegandoli nel settore della costruzione e ristrutturazione di immobili da dedicare agli alloggi sociali. Altrimenti tali lavoratori, privi di una qualsiasi specializzazione, non avrebbero avuto possibilità di sbocchi professionali nel settore produttivo distrutto dal conflitto mondiale. Inoltre, la produzione di alloggi popolari consentiva al Governo centrale di affrontare una situazione potenzialmente esplosiva causata dal disagio sociale degli strati più poveri della popolazione e da coloro che avevano perso la propria abitazione a causa dei bombardamenti. Le risorse vennero reperite obbligando i datori di lavoro e i lavoratori dipendenti del Paese a versare all'INA-Casa trattenute mensili sui salari.
La differenza tra i primi anni di gestione dell'INA-Casa e quelli successivi riguardò principalmente i soggetti partecipanti ai diversi piani e quindi la fonte delle risorse economiche utilizzate. Nei primi anni tali interventi furono finanziati prevalentemente attraverso il risparmio obbligatorio, mentre negli anni successivi venne prevista anche la partecipazione di risparmiatori privati, associati in cooperative, i quali anticipavano parte del costo di costruzione dell’alloggio al fine di acquisire il titolo di proprietari a fronte del pagamento di un canone mensile (quelle che in anni più recenti è stata definita Edilizia Sovvenzionata-Agevolata).
Nei quattordici anni del Piano Fanfani furono costruiti 355.000 alloggi, i quali rappresentavano circa il 10% degli alloggi costruiti in quel periodo. Nonostante ciò tale tipologia di intervento conobbe non poche critiche, tra le quali ci fu quella di aver riservato un ruolo marginale alle amministrazioni locali nei processi decisionali e, di aver relegato gli strati più deboli della popolazione in quartieri- ghetti.
Pertanto nel 1963 si chiuse l’era che aveva visto l'INA-Casa come soggetto protagonista nella produzione degli alloggi popolari e venne istituita al suo posto la GESCAL (acronimo di GEStione CAse per i Lavoratori) con l’entrata in vigore della legge nazionale n. 60/1963.
Il principio di funzionamento di GESCAL consisteva nel costruire case per i lavoratori con contributi provenienti dai lavoratori stessi, dalle imprese ed in parte da finanziamenti governativi. Attraverso i provvedimenti legislativi sull'edilizia pubblica, si cercò di dare soluzione ai problemi riscontrati ponendo l'edilizia economica e popolare all'interno di una programmazione urbanistica ed integrando l'edilizia privata con l'edilizia sovvenzionata di carattere popolare. In realtà l’esito di tale
impianto portò alla costruzione di grandi opere che, con l’obiettivo di una riduzione dei costi e dei tempi di produzione degli alloggi economici e popolari, ebbe come conseguenza l'adozione di sistemi di prefabbricazione.
L’intervento successivo all’introduzione della GESCAL riguardò la Legge n. 167/1962, "Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare", la quale, introducendo i Piani per l’Edilizia Economica Popolare (PEEP), rese possibile l’esproprio con lo scopo di congelare il valore dei terreni. Nel PEEP tutte le aree vennero preliminarmente espropriate ed urbanizzate dal Comune, il quale le cedette poi, in proprietà o in uso, a determinati soggetti abilitati a realizzare edilizia di tipo economico e popolare (enti pubblici, cooperative, singoli soggetti, imprese di costruzione). I Comuni potevano stipulare convenzioni nelle quali gli assegnatari delle aree assumevano determinati impegni circa l’individuazione del prezzo degli affitti e della vendita degli immobili.
Un ulteriore importante cambiamento nel settore si ebbe con l’introduzione della Legge nazionale n. 865/1971, “Legge di riforma sulla casa”, attraverso la quale vennero trasformati gli Istituti Autonomi Case Popolari da Enti Pubblici Economici ad Enti Pubblici non Economici, che avevano la caratteristica di occuparsi di attività di natura pubblico-assistenziale. Questa stessa legge previde inoltre le norme sull’espropriazione per pubblica utilità.
Negli anni Settanta il settore delle politiche abitative risentì dei processi di natura socio-politica, che che ebbero come esito una riorganizzazione dell’assetto di competenze dei vari livelli governativi. Infatti, se fino agli anni precedenti le competenze in materia erano prevalentemente accentrate nelle mani dello Stato centrale, con l’introduzione del DPR 616/1977 furono trasferite alle Regioni “le funzioni amministrative esercitate dall'amministrazione centrale e periferica dei lavori pubblici” e “la funzione relativa alla determinazione dei requisiti e dei prezzi massimi delle abitazioni”, ed ai Comuni invece “le funzioni amministrative concernenti l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica”. Tale intervento normativo fu il primo passo verso il processo di decentramento amministrativo.
La successiva Legge n. 457/78, nota come "Piano Decennale" per l'Edilizia Residenziale, andò invece a modificare il sistema dei finanziamenti, delegando al CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica istituito con la Legge n. 48 del27.2.1967) il compito di distribuire alle Regioni le risorse economiche da utilizzare nell’ambito dell’edilizia pubblica residenziale. Ciò permise un intensificarsi dell'attività di costruzione, alla quale si unì anche quella del recupero, novità assoluta per gli Istituti che in passato disponevano di fondi per le costruzioni in modo disorganico, senza pertanto essere in grado di effettuare una programmazione pluriennale.
canone, attraverso il quale veniva stabilito il tetto massimo al di sopra del quale il canone di locazione ad uso abitativo non poteva essere fissato. Tale legge85 venne approvata con l'intento di dare risposta ad una forte conflittualità sociale sul tema del diritto alla casa ed allo stesso tempo con la volontà di superare il sistema di regolazione previsto nel Dopoguerra, che da un lato bloccava gli affitti dei contratti esistenti e dall'altro lasciava libera la definizione dei canoni per le nuove locazioni. Nonostante ciò il nuovo regime delle locazioni non soddisfece le aspettative di rendita dei locatori, tanto che li indusse a ritirare gli immobili dal mercato in quanto non più conveniente. Inoltre, chi aveva intenzione di investire in abitazioni da destinare all'affitto valutò possibili alternative, tra cui abitazioni da destinare ad usi secondari.
I vincoli dell'equo canone sono stati aggirati in svariati modi e sull'applicazione della legge si è sviluppata una forte conflittualità tra le parti. Basti pensare che alcuni locatori sono ricorsi allo sfratto per finita locazione, anche senza giusta causa, con l'intento di liberarsi degli inquilini ai quali avrebbero dovuto applicare l'equo-canone. La conseguenza è stata un significativo incremento degli sfratti che ha determinato l'intervento del governo al fine di prevedere la sospensione degli stessi per ragioni di ordine pubblico.
L'incertezza sui tempi di rientro nella disponibilità degli immobili affittati ha invitato i locatori che ne prevedevano un uso personale nel medio-lungo periodo a tenere gli alloggi sfitti.
Gli esiti complessivi di questa esperienza di regolazione sono stati una forte riduzione del numero di alloggi disponibili per l'affitto e la creazione di un doppio mercato delle locazioni tra chi era in affitto presso enti pubblici e chi nel mercato libero, spesso senza regolamentazione contrattuale. Gli anni Ottanta segnarono un periodo di transizione, e solo nel decennio successivo, con la legge nazionale n. 179/1992 (tale tendenza venne confermata anche dalla legge nazionale n. 560/1993), venne prevista la vendita di una notevole quantità di patrimonio degli Enti Pubblici con l’intento di reinvestire i ricavi nell’incremento e nella riqualificazione di alloggi sociali. Tale situazione non fece altro, in realtà, che erodere lo stock abitativo già di per sé per niente cospicuo.
Un altro importante intervento normativo che segnò il settore si ebbe con l’introduzione della legge nazionale n. 359/1992, attraverso la quale venne parzialmente liberalizzato il mercato degli affitti con i cosiddetti “patti in deroga”. I patti in deroga davano la possibilità ai locatori di derogare dall’equo-canone purché vi fosse assistenza sindacale (mai ben specificata all’interno della norma) nel processo di definizione del contratto di affitto. Alcuni studiosi, tra cui Raffaele Minelli, attuale Presidente dell’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali, sostennero che tale intervento normativo era dettato dalla necessità del governo di aumentare i redditi da immobili a fronte della volontà di introdurre un’imposta straordinaria sugli immobili (ISI), precursore dell’attuale imposta comunale
(ICI). La parziale liberalizzazione dell’equo-canone veniva interpretata nel quadro di uno scambio tra governo centrale, proprietà edilizia ed organizzazione dell’inquilinato: a fronte dell’individuazione di una nuova fonte di prelievo fiscale, ai locatori veniva data la possibilità di scaricare questo onere sulle famiglie in affitto per mezzo della possibilità di aumentare il canone di affitto.
Sempre negli anni Novanta, al fine di agire sulla leva delle misure indirette di sostegno alle famiglie e per attenuare l'incidenza elevata delle spese abitative sul reddito familiare, venne introdotto, con la legge nazionale n. 431/1998 (modificata dalla legge di stabilità del 2016), il Fondo nazionale per il sostegno all’abitazione in locazione o meglio conosciuto in anni recenti come contributo all’affitto. Tale misura, che conobbe una significativa riduzione di risorse nel 2011, rappresenta il principale strumento a disposizione degli enti locali per venire incontro ad individui e famiglie in condizione di fragilità economica al fine di ridurre il peso dell’affitto sul reddito disponibile (l’obiettivo della legge era di portare l’affitto a non pesare più del 14% sul reddito).
Il Fondo nazione per il sostegno all’abitazione in locazione è cofinanziato dalle risorse regionali e può a sua volta essere integrato dai Comuni. Si accede a tale risorsa attraverso la partecipazione ai bandi annualmente emanati dai Comuni. La normativa prevede la suddivisione della platea dei beneficiari in due classi di reddito alle quali corrispondono contributi più (fascia A) o meno generosi (fascia B):
• Fascia A - Isee uguale o inferiore a due pensioni minime Inps ed incidenza del canone sul valore Ise non inferiore al 14%;
• Fascia B – Isee compreso tra l’importo corrispondente a due pensioni minime Inps e 26.000 ed incidenza del canone sul valore Ise non inferiore al 24%.
Attraverso tale misura si ebbero conseguenze anche su altri aspetti. Infatti previde il definitivo superamento dell’equo-canone e l’introduzione della facoltà di stipulare contratti di affitto con canone concordato86 al fine di garantire ai proprietari degli immobili dati in affitto di poter usufruire di benefici fiscali. L’esito del superamento dell’equo-canone ha comportato un’accresciuta insostenibilità economica e sociale degli affitti.
Negli stessi anni, con l’introduzione del decreto legislativo n. 112/1998, sono state ulteriormente consolidate le competenze delle Regioni in materia di politiche abitative, le quali erano chiamate a svolgere una funzione di programmazione, ripartizione delle risorse fra i Comuni e definizione dei criteri di accesso.
Con la modifica della Carta Costituzionale attuata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, il
86 Il canone concordato prevede un contratto di locazione a prezzi calmierati. Al fine di definire il canone i Comuni, di
concerto con le associazioni più rappresentative a livello locale di proprietari ed inquilini, definiscono le modalità di valutazione degli immobili.
processo di decentramento in corso trovò un’ennesima conferma, tanto da prevedere l’introduzione del principio di sussidiarietà nella programmazione delle politiche sociali. Nello specifico si riteneva che il soggetto pubblico più idoneo ad esercitare la generalità dei compiti amministrativi fosse l’autorità territorialmente più vicina ai cittadini interessati, quindi in primo luogo i Comuni, e poi le Province e le Comunità montane.
Nello specifico, con la riforma del Titolo V della Costituzione venne attribuita l’esclusiva potestà legislativa alle Regioni su tutte le materie non riservate alla competenza dello Stato. Tra le materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato rimase la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, a tutela dei principi di eguaglianza e di altri diritti fondamentali garantiti dalla Carta Costituzionale. Il vuoto legislativo, ancora in corso, concernente la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, sul piano dei diritti civili e sociali, da garantire su tutto il territorio nazionale, priva l’edilizia sociale di un saldo riferimento e di un parametro unico, e ciò comporta il rischio di non ottenere omogeneità nell’erogazione dei servizi per la casa sul territorio nazionale. In anni più recenti, e nello specifico dal 2008, si assiste al rilancio delle politiche abitative attraverso i piani casa con i quali si cercava di incrementare il patrimonio immobiliare ad uso abitativo; e ciò avvenne mediante l’offerta di alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica e di Edilizia Residenziale Sociale. Quest’ultima offerta abitativa è la novità introdotta con la legge nazionale n. 24487 (legge finanziaria per il 2008), che all’art. 1 comma 258 ha previsto la “cessione gratuita da parte dei proprietari, singoli o in forma consortile, di aree o immobili da destinare a edilizia residenziale sociale”. I Comuni, al fine di far fronte al fabbisogno locale abitativo, altrimenti difficilmente soddisfatto a fronte della riduzione delle disponibilità finanziarie da parte delle pubbliche amministrazioni, possono beneficiare di spazi concessi gratuitamente da privati in cambio dell'autorizzazione ad aumentare la volumetria premiale degli immobili nei limiti di incremento massimo della capacità edificatoria previsti dal comma 258.
In anni più recenti una misura ad hoc per fronteggiare il fenomeno degli sfratti, in costante aumento a fronte della crisi economica in essere dal 2008, fu il Fondo nazionale destinato agli inquilini morosi incolpevoli88. Istituito con il decreto legge n° 1021 del 31/08/13, diventò pienamente operativo nel 2014 con una dotazione annua di 20 milioni di euro e si poneva l’obiettivo di sostenere
87 http://www.ediliziaeterritorio.ilsole24ore.com/print/AbdVWuKH/0?refresh_ce=1 (consultato in data 17/02/2018)
88 Per morosità incolpevole si intende l'impossibilità al pagamento del canone di locazione a causa della perdita o della
consistente riduzione del reddito del nucleo familiare. Perdita del lavoro per licenziamento; accordi aziendali o sindacali con consistente riduzione dell'orario di lavoro; cassa integrazione ordinaria o straordinaria che limiti notevolmente la