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Il caso di Tiresia e gli aneddoti della Vita Romana

Per quanto concerne la categoria degli indovini il personaggio di Tiresia, che accompagna i Greci nella guerra di Troia, si rivela particolarmente emblematico: il dono “di compensazione” che egli riceve dagli dei sono occhi proiettati non nel passato, come Demodoco, bensì nel

futuro163. Va ricordato, tuttavia che la “verità” dell’aedo e quella

dell’indovino, proprio per il valore attribuito alla “vista”, non sono fra loro equivalenti: nonostante il canto dell’aedo sia ispirato dalle Muse,

questi non può dire di conoscere gli eventi per mezzo dell’αὐτοψία, ovvero

per averli visti con i propri occhi; questa capacità è prerogativa unicamente del mántis che si identifica come «professionista tanto

dell’ascolto quanto della visione164». La tradizione è discordante riguardo

162 Non si può trascurare il fatto che anche in società appartenenti luoghi ed epoche

diverse la musica e il canto permettono anche in questo genere di condizione fisiche di offrire un servizio riconosciuto dalla società; cf. Buxton 1980, p. 29.

163 Entrambe queste categorie già nell’Odissea vengono poste allo stesso livello dei

δημιοεργοὶ ovvero artigiani pubblici, così come lo sono il maestro d’ascia e colui che si occupa di curare le malattie Hom. Od. 17.382-386, cfr. 19.135, cf. Infra, p. 177. Come osserva Miralles, in epoca omerica questi maestri della memoria, nella cui categoria si inserisce anche l’araldo, gestiscono «la parola autorevole e veritiera» fondata nella pratica del ricordo: è così che «l’aedo, il poeta, domina la costruzione e la diffusione del passato […] mentre l’indovino indirizza le sue parole, con una tecnica non diversa, verso la difficile edificazione del futuro». In epoca precedente invece queste facoltà erano riunite nell’unica persona: ecco perché Calcante, così come l’aedo della Teogonia possiede una conoscenza proiettata lungo le tre dimensioni del tempo (Hom. Il. 1.70; Hes. Th. 32), Miralles 1996, p. 856; per un’analisi della scissione di queste competenze, con particolare riferimento alle figure di Hermes e Apollo: vd. Nagy 1990a, pp. 56-64; cf. Detienne 1977, p. VI, 33; Graziosi 2002, p. 48; Pisano 2012, pp. 3s.; Sbardella 2012, p. 9.

164 Pisano 2012, p. 5, vd. anche Brillante 2009, p. 37; nella tradizione il sapere conosciuto

per diretta visione si pone a un livello di veridicità superiore rispetto alle informazioni apprese attraverso la δόξα ovvero la fama, ciò che è stato raccontato, anche se a

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al motivo per il quale Tiresia perde la facoltà della vista: secondo le fonti di epoca ellenistica si crede che si tratti delle ripercussioni dell’ira di Atena, colta proprio dagli occhi di Tiresia mentre si apprestava a fare il bagno (Callim. Hymn. 5.73-81); una variante riportata da fonti più tarde vorrebbe invece che la vista gli venga tolta da Era, per aver affermato che l’atto sessuale genera più piacere alla donna che all’uomo (Ov. Met. 3.316ss.; Hyg. Fab. 75); in ultima istanza si sostiene che gli dei lo hanno punito per aver rivelato segreti divini (Ps. Apollod. Bibl. 3.6.7; Hes. fr. 267 M.–W.)165. Un altro elemento che va sottolineato riguardo alla figura di

Tiresia e alla cecità che lo rende superiore agli altri uomini e che quindi lo avvicina al divino è la condizione particolare che lo caratterizza anche dopo la morte. Quando Odisseo si reca nell’Ade per interrogare il mántis, l’eroe parla con personaggi diversi, ma solo per l’incontro con Tiresia si presenta un riferimento esplicito al riconoscimento dell’eroe da parte dell’indovino (Hom. Od. 11. 90-96). La perdita della vista che generalmente è determinata dal passaggio tra la vita e la morte e che, come si è detto viene espressa attraverso l’impossibilità di vedere la luce del sole, non ha effetto su Tiresia, già sprovvisto di questa facoltà 166.

Anche per quanto riguarda la figura di Omero è possibile trovare nella tradizione notizie riguardanti le ragioni che avrebbero spinto gli dei a privarlo della vista: si tratta di due varianti diverse riportate dalla Vita

raccontarlo sono le stesse Muse, cf. Hom. Il. 2.485; Hes. Th. 27s.; per il valore della conoscenza autoptica in ambito storiografico vd. Nenci 1953.

165 Simile è la vicenda del pescatore eretriese Formio, la cui cecità è compensata dal fatto

di poter avere sogni premonitori (Paus. 7.5.7), per altri esempi e per un’analisi sulla relazione tra cecità e superamento del limite: vd. Buxton 1980, pp. 28-32; cf. Johnston 2008, p. 111-12.

166 Sulla figura di Tiresia cf. Beecroft 2011, p. 10; l’indovino è dotato, secondo le parole di

Circe, di una mente saggia (πεπνῦσθαι νόον) che mantiene anche una volta disceso nell’Ade, Hom. Od. 10.495-498, cf. Pisano 2012, p. 2; Graziosi 2002, pp. 142s.

62 Romana, aneddoti che di molto si avvicinano al caso di Tiresia. In ultima

analisi queste varianti sembrano rientrare nella categoria del mito eziologico volto a spiegare in questo caso la compresenza tra cecità e poesia senza però prescindere dal contesto dell’opera omerica; in questi stessi termini può essere valutata inoltre la vicenda di Demodoco che

tuttavia si impone come modello archetipico rispetto a Omero167. In primo

luogo si vorrebbe che Omero rimanga accecato dalla lucentezza delle armi di Achille quando, recatosi sulla tomba dell’eroe, lo prega di mostrarglisi rivestito dell’armatura fabbricata appositamente per lui da Efesto; Teti e le Muse dimostrano tuttavia pietà nei suoi confronti facendogli dono dell’arte poetica. Come asserisce Graziosi, attraverso questo aneddoto la cecità del poeta viene posta in stretta correlazione con la licenza, concessagli in via esclusiva, di descrivere (e quindi vedere) nel dettaglio lo scudo di Achille168. τυφλωθῆναι δ’ αὐτὸν οὕτω πως λέγουσιν· ἐλθόντα γὰρ ἐπὶ τὸν Ἀχιλλέως τάφον εὔξασθαι θεάσασθαι τὸν ἥρωα τοιοῦτον ὁποῖος προῆλθεν ἐπὶ τὴν μάχην τοῖς δευτέροις ὅπλοις κεκοσμημένος· ὀφθέντος δ’ αὐτῷ τοῦ Ἀχιλλέως τυφλωθῆναι τὸν Ὅμηρον ὑπὸ τῆς τῶν ὅπλων αὐγῆς, ἐλεηθέντα δ’ ὑπὸ Θέτιδος καὶ Μουσῶν τιμηθῆναι πρὸς αὐτῶν τῇ ποιητικῇ. ἄλλοι δέ φασι τοῦτο αὐτὸν πεπονθέναι διὰ μῆνιν τῆς Ἑλένης ὀργισθείσης αὐτῷ διότι εἶπεν αὐτὴν καταλελοιπέναι μὲν τὸν πρότερον ἄνδρα, ἠκολουθηκέναι δ’ Ἀλεξάνδρῳ·169

Dicono che divenne cieco in questo modo: recatosi sulla tomba di Achille pregò di contemplare l’eroe quale uscì in battaglia adornato della nuova armatura. Nel momento in cui Achille gli apparve, Omero rimase accecato dal fulgore delle armi, tuttavia, provando pietà per lui, Teti e le Muse lo onorarono con il dono del canto. Altri dicono che Omero soffrisse di questa menomazione a causa della collera di Elena adirata con lui in quanto aveva affermato che lei aveva abbandonato il suo primo marito e che aveva poi seguito Alessandro.

167 Vd. Tatti-Gartziou 2010, p. 182. 168 Cf. Graziosi 2002, p. 159.

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Il racconto acquista una valenza ancor più significativa se si tiene in considerazione il fatto che gli stessi Mirmidoni, secondo quanto narrato nell’Iliade non possono tollerarne la vista e si voltano presi dal terrore (Hom. Il. 19.12-15). Anche in questo caso Omero come Tiresia vede qualcosa che, in quanto uomo, non avrebbe potuto vedere e ne subisce

pertanto le conseguenze170. Secondo un’altra versione Omero verrebbe

accecato da Elena per punizione: la principessa di Sparta si sarebbe adirata per l’immagine che di lei era stata dipinta nell’Iliade.171 Come osserva

Beecroft riguardo al principio metodologico individuabile nella Vita

Romana, essa, a differenza delle altre Vitae non presenta un uso arbitrario

delle informazioni, generalmente teso al sostenimento di una data teoria sulla costituzione della poesia omerica. L’ambiente culturale e l’epoca in cui questo testo viene prodotto, fanno sì che, anche relativamente alla cecità del poeta, l’autore riporti tutte le varianti reperibili nella tradizione, non solo riguardo alle apparizioni di Achille e Elena, ma anche all’etimologia del nome172.