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4.2 Eschilo ed Euripide: tartarughe canore e altri animal

4.2.1 La morte di Eschilo tra aneddoto e favola

Nella Vita di Eschilo apposta ai manoscritti che recavano le opere dell’autore, si dice che egli trascorse l’ultima parte della sua vita a Gela, dove si era trasferito per sfuggire a un rapporto poco proficuo con il

pubblico ateniese326. Presso la corte di Ierone il suo talento viene

pienamente riconosciuto e lì vive per qualche anno, finché non sopraggiunge la morte. Come ci si può aspettare, il fatto ha dell’incredibile: il poeta, che si trova seduto all’aperto, viene colpito violentemente in testa da un oggetto dalla consistenza compatta che lo lascia privo di vita; si tratta del guscio di una tartaruga lasciata cadere, a una certa altezza, da un’aquila, con l’intenzione di romperne il carapace per nutrirsi delle carni. Di seguito si riporta la sezione della Vita in cui vengono esposti questi fatti, dal momento che, nel novero delle fonti, questo testo sembra offrire la descrizione più completa.

καὶ σφόδρα τῷ τε τυράννῳ Ἱέρωνι καὶ τοῖς Γελῴοις τιμηθεὶς ἐπιζήσας τρίτον ἔτος γηραιὸς ἐτελεύτα τοῦτον τὸν τρόπον. ἀετὸς γὰρ χελώνην ἁρπάσας, ὡς ἐγκρατὴς γενέσθαι τῆς ἄγρας οὐκ ἴσχυεν, ἀφίησι κατὰ πετρῶν αὐτὴν συνθλάσων τὸ δέρμα, ἡ δὲ ἐνεχθεῖσα κατὰ τοῦ ποιητοῦ φονεύει αὐτόν. χρηστηριασθεὶς δὲ ἦν ‘οὐράνιόν σε βέλος κατακτανεῖ’. ἀποθανόντα δὲ Γελῷοι πολυτελῶς ἐν τοῖς δημοσίοις μνήμασι θάψαντες ἐτίμησαν μεγαλοπρεπῶς ἐπιγράψαντες οὕτω ·

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«Αἰσχύλον Εὐφορίωνος Ἀθηναῖον τόδε κεύθει μνῆμα καταφθίμενον πυραφόροιο Γέλας· ἀλκὴν δ’ εὐδόκιμον Μαραθώνιον ἄλσος ἂν εἴποι, καὶ βαθυχαιτήεις Μῆδος ἐπιστάμενος»327.

Godendo di grande considerazione presso Ierone e gli abitanti di Gela, visse ancora per tre anni, quindi morì, ormai vecchio, nel modo seguente: un’aquila, che aveva ghermito una tartaruga, poiché non era abbastanza forte da vincere la preda, la gettò sulle pietre, così da rompere il carapace; ma quella cadde invece sul poeta e lo uccise. Inoltre, un oracolo , che aveva ricevuto, diceva: “Un proiettile dal cielo ti colpirà”. Dopo la sua morte, gli abitanti di Gela gli riservarono una ricca sepoltura presso il cimitero cittadino e lo onorarono molto distintamente con il seguente epigramma:

«Questo sepolcro accoglie Eschilo, ateniese, figlio di Euforione, morto presso Gela, fertile di grano: il famoso bosco sacro di Maratona potrebbe parlare

del suo coraggio e Mede dai lunghi capelli lo ben conosce»

Di nuovo ci si trova davanti a un evento inaspettato, questa volta letteralmente improvviso, ma anche qui, come nel caso di Omero ed Esiodo si riscontra la presenza di un oracolo ammonitore. Ancora una volta il messaggio, nella sua impenetrabilità, non sortisce l’effetto e non permette al destinatario di mettersi in salvo.

Il carattere non solo paradossale, ma addirittura comico della narrazione colpisce immediatamente, tanto che nell’antichità non sono mancati i tentativi di chiarire le dinamiche dell’incidente. Nella fattispecie l’episodio viene citato da Valerio Massimo nella sezione della sua opera in cui si sofferma sulle morti memorabili. L’eccezionalità della morte di Eschilo, come anche quella di Omero e di Euripide che si trovano nello stesso paragrafo, merita di rientrare in questa schiera:

133 Aeschyli uero poetae excessus quem ad modum non uoluntarius, sic propter nouitatem casus referendus. in Sicilia moenibus urbis, in qua morabatur, egressus aprico in loco resedit. super quem aquila testudinem ferens elusa splendore capitis erat enim capillis uacuum perinde atque lapidi eam inlisit, ut fractae carne uesceretur, eoque ictu origo et principium fortioris tragoediae extinctum est328.

La morte del poeta Eschilo, come non fu volontaria, così va riferita per la straordinarietà del caso. Trovandosi in Sicilia, egli uscì dalle mura della città ove dimorava e si sedette in un luogo soleggiato. Un’aquila che portava tra gli artigli una tartaruga, ingannata dal riflesso della sua testa calva, la scambiò per una pietra e piombando dall’alto ve la sbatté, per pestarvela e mangiarne le parti molli: fu con questo colpo che venne ucciso colui che diede origine ed incremento al genere tragico.

Il testo spiega il comportamento dell’aquila non solo secondo una necessità di sopravvivenza; esso sarebbe in qualche modo giustificato anche dalla calvizie del poeta, che rende il capo di Eschilo simile ad una pietra levigata. Il dato della calvizie, connesso alla vicenda dell’aquila e della tartaruga, ma non esplicitamente alla figura di Eschilo, sembra essere di molto precedente: in uno scritto di Democrito il riferimento a un uomo calvo colpito in testa da una tartaruga lasciata cadere da un’aquila, viene

citato come esempio in una riflessione sui rapporti di casualità329. Tuttavia,

come sostiene Kimmel, non è dato sapere se si tratta di un riferimento a una già affermata tradizione sulla morte di Eschilo o se esso richiama invece un aneddoto indipendente che poi sarebbe stato applicato alla figura del poeta: questa attribuzione potrebbe essere passata attraverso il tramite della calvizie che in alcune fonti caratterizza il personaggio di Eschilo330. Tuttavia è consigliabile non fare troppo affidamento su questo

328 Val. Max. 9.12.2, trad. a c. di Faranda 1971.

329 Vd. Democrit. T 68 D. – K., p. 101; cf. Kimmel 2008, p. 364; Lefkowitz 2009, pp. 390-91. 330 Si tratta di Valerio Massimo ed Eliano: vd. Val. Max. 9.12.2, Ael. N. A., 7.16.

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tratto somatico che potrebbe a sua volta derivare dall’aneddoto della morte e non situarsi a monte della tradizione.

C’è invece ancora molto da dire sulla vicenda dell’aquila e della tartaruga slegata dal contesto eschileo; i due animali infatti figurano come protagonisti di una celebre favola esopica: la successione dei fatti è la medesima, ma in questo caso la tartaruga non viene afferrata dall’aquila per essere divorata.

χελώνη ἀετοῦ ἐδεῖτο ἵπτασθαι ἀυτήν διδάξαι. τοῦ δὲ παραινοῦντος πόρρω τοῦτο τῆς φύσεως αὐτῆς εἶναι, ἐκείνη μᾶλλον τῇ δεήσει προσέκειτο. λαβὼν οὖν ἀυτήν τοῖς ὄνυξι καὶ εἰς ὕψος ἀνενεγκὼν, εἶτ’ ἀφῆκεν. Ἡ δὲ κατὰ πετρῶν πεσοῦσα συνετρίβη. ὁ μῦθος δηλοῖ, ὅτι πολλοὶ ἐν φιλονεικίαις τῶν φρονιμωτέρων παρακούσαντες ἑαυτοὺς ἔβλαψαν331.

Una tartaruga pregava un’aquila perché le insegnasse a volare, e quanto più questa le dimostrava che era cosa aliena dalla sua natura, tanto più l’altra insisteva nelle sue preghiere. Allora l’aquila la prese tra gli artigli, la sollevò in alto, e poi la lasciò cadere. La tartaruga cascò su una roccia e si fracassò. La favola dimostra come, a dispetto dei consigli dei saggi, molti si rovinino per voler scimmiottare il prossimo.

La favola si data a più di un secolo prima della morte di Eschilo, mentre la prima fonte che fa riferimento alle modalità della morte del tragediografo è un frammento di Sotade contenuto nell’opera di Stobeo e riferibile quindi al III secolo a.C. Il divario cronologico è evidente ma non si può negare, in ambito di ricostruzione biografica, una ripresa del motivo

presente nella narrazione esopica332; evidentemente il contenuto della

favola viene adattato e ridimensionato per assumere sfumature più ‘realistiche’. Sebbene la tradizione del racconto esopico si sviluppi su una linea indipendente dalla vicenda eschilea, la ripresa operata da Fedro, nella favola dal titolo L’aquila e la cornacchia, registra la presenza di un

331 Aes. Fab. 351, trad. a c. di Ceva Valla 1976.

332 Non solo Fedro, ma anche il favolista Babrio ne riprende il motivo nel II secolo d.C.,

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elemento che avvicina il testo, anche se non intenzionalmente, alla narrazione della morte del poeta:

Contra potentes nemo est munitus satis si vero accessit consiliator maleficus, vis et nequitia quicquid oppugnant, ruit. Aquila in sublime sustulit testudinem: quae cum abdidisset cornea corpus domo, ne cullo pacto laedi posset condita, venit per auras cornix, et propter volans «Opimam sane praedam rapuisti unguibus sed, nisi monstraro quid sit faciendum tibi gravi nequiquam te lassabit pondere» Promissa parte suadet ut scopulum super altis ab astris duram inlidat corticem, qua comminuta facile vescatur cibo. Inducta vafris aquila monitis paruit, simul et magistrae large divisit dapem. Sic tuta quae Naturae fuerat munere, impar duabus, occididt tristi nece333.

Nessuno è abbastanza armato contro i potenti, ma se interviene un maligno consigliere forza e iniquità vincono ogni contrasto. L’aquila trasse in cielo la testuggine ma poiché essa nascondeva il corpo in una casa cornea non si poteva in alcun modo cogliere. Giunse una cornacchia che volava nelle vicinanze e disse: «Hai preso nelle grinfie una squisita preda, ma se non ti farò vedere come fare, inutilmente ti stancherà con il suo grave peso». Essendole stata promessa una parte, la cornacchia convince l’aquila a far precipitare il duro guscio dall’alto su di una roccia, una volta che questo si sarebbe frantumato avrebbero potuto sfamarsi. L’aquila, convinta dalle parole persuasive, obbedì immediatamente e condivise generosamente con la maestra il banchetto. Così colei che per natura se ne stava protetta, muore di una triste morte in un contrasto impari contro due.

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Il racconto di Fedro può considerarsi uno sviluppo ulteriore della favola esopica: l’inserimento di un nuovo personaggio conduce a un nuovo protrarsi degli eventi, oltre che a una diversa morale. Come si diceva, tuttavia, l’elemento che va sottolineato, è il fatto che le condizioni iniziali sono differenti: come nella biografia eschilea, la tartaruga non ha qui alcun ruolo attivo, la fine che fa non è meritata ed essa figura unicamente come preda dell’aquila, che a sua volta è mossa dalla necessità di nutrirsi.