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Per una ridefinizione del romanzo giudiziario postunitario

3.2 Cause celebri (per celebrità delinquenti).

La centralità della figura del delinquente, così come l’interesse rivolto dai letterati e dall’editoria ai contributi dell’antropologia criminale, non si spiegano in tutta la loro portata se non si ripone la dovuta attenzione su di un altro amore corrisposto che ha riguardato le discipline letterarie e quelle giuridiche e si è consumato in particolare su quegli aspetti del mondo giudiziario rimasti fuori dal romanzo dossiano: il funzionamento della macchina giudiziaria, nelle sue fasi dell’indagine e del dibattimento processuale.

283 Per una panoramica del rapporto tra letteratura e giornalismo dall’Ottocento ai giorni nostri si rimanda a Clotilde Bertoni, Letteratura e giornalismo, Roma, Carocci, 2009.

Esemplari in questo senso sono le raccolte di Cause o Processi celebri, un «fortunatissimo genere letterario a cavallo tra la giurisprudenza e il romanzo»284, di gran lunga precedente la comparsa delle nuove teorie criminologiche, e in cui di nuovo Lombroso e colleghi tentarono di inserirsi, avendone colta l’importanza all’interno dell’opinione pubblica. Il genere ebbe origine nella Francia della prima metà del XVIII secolo con la pubblicazione delle Causes

célèbres et intéressantes avec les jugements qui les ont décidées raccolte dall’avvocato

François Gayot de Pitaval285. L’autore seppe unire e fare interagire tra loro tre sottogeneri allora in piuttosto in voga: la cosiddetta “letteratura del patibolo”; e due generi di tradizione più colta, come le collezioni di aneddoti e le produzioni tecniche forensi, destinate ai professionisti del settore, ma che già allora andavano espandendo il proprio pubblico. Nel corso dei decenni successivi le raccolte di cause celebri si diffusero ampiamente lungo tutto il continente europeo. Moltiplicandosi il numero degli autori e dei lettori, si modificarono, di conseguenza, la composizione sociale degli stessi, quindi le caratteristiche narrative di questo nuovo genere letterario e così pure il suo posizionamento all’interno della produzione culturale:

per il secolo XIX, quando il genere conobbe una diffusione internazionale vastissima, l’analisi dovrebbe muovere da un punto di vista diverso, poiché lo sfondo fu allora costituito da un’opinione pubblica che si era estesa al di fuori del campo letterario, si era infittita di altre disparate figure di “intellettuali” – giornalisti, agitatori, scienziati, giuristi e così via – che la incarnavano predicando “verità” e valori e che presumevano di dettar legge alla collettività orientando le classi dirigenti e orientando le scelte politiche e le pratiche per realizzarle. Essi concorrevano dai diversi ambiti rispettivi a istituire il sistema sociale della comunicazione, ma entravano in competizione fra loro per il controllo degli apparati simbolici che strutturavano la “nazione”286.

Soprattutto dei decenni successivi all’unità, tali resoconti processuali, come abbiamo visto, conobbero anche in Italia un successo che coinvolse tutta la penisola. Ma ciò che più importa

284 Aldo Mazzacane, Letteratura, processo e opinione pubblica: le raccolte di cause celebri tra bel mondo,

avvocati e rivoluzione, in Marcella Marmo e Luigi Musella (a cura di), La costruzione della verità giudiziaria,

cit. p. 53.

285 François Gayot de Pitaval, Causes célèbres et intéressantes avec les jugemens qui les ont décidées, Paris, au Palais chez Jean de Nully, 1734-1743.

sottolineare, a questo punto del nostro lavoro, è il protagonismo dei delinquenti che sembra caratterizzare complessivamente questa produzione:

In queste raccolte si ritrovava la stessa enfasi sulle figure dei criminali proposta dalla scuola lombrosiana. Si trattava, in sostanza, di ulteriori riscritture di casi giudiziari, dove ognuno di essi era identificato con l’autore del delitto, pur nella rappresentazione delle diverse voci che la riproduzione del dibattimento processuale imponeva287.

Proprio per la loro capacità di imprimere nell’opinione pubblica una ben precisa idea di delinquente, le raccolte di cause celebri divennero dunque oggetto di competizione tra varie «figure di “intellettuali”». Tanto è vero che, come abbiamo visto, i «giovani amici» di Lombroso – ossia i sociologi Sighele e Ferrero, e il giornalista Augusto Guido Bianchi – non rinunciarono a partecipare alla contesa, compilando alcune raccolte di processi (o meglio di delinquenti) celebri288, narrate e organizzate secondo i dettami del pensiero penalpositivistico, per aumentarne la diffusione entro l’opinione pubblica nazionale.

Per un altro verso – ma avendo sempre per obiettivo «il controllo degli apparati simbolici che strutturavano la nazione» – si è già visto come Lombroso e colleghi abbiano saputo rivolgere il loro sguardo verso una produzione romanzesca dal valore ben più consolidato, per ricercarvi una conferma della propria idea di delinquente. Il punto è che – nonostante le dichiarazioni di Carlo Dossi – non bisogna pensare a queste due produzioni come separate. Vale la pena di sottolinearlo perché si tratta di un punto fondamentale per comprendere a pieno sia il senso dell’operazione lombrosiana sia, in generale, alcuni aspetti della cultura postunitaria. Il processo e il racconto del processo costituirono per la società italiana (ed europea) un’ossessione strettamente legata a quella rappresentata dal delinquente incallito. Anche per questo motivo le narrazioni giudiziarie rappresentano uno di quei fenomeni che hanno caratterizzato tanto la “nobile” letteratura quanto quella “popolare”, e che si offrono quindi come terreno privilegiato per l’osservazione dei continui rapporti e rimandi tra i due diversi ambiti letterari.

287 Sergia Adamo, Mondo giudiziario e riscrittura narrativa in Italia dopo l’Unità, cit. p. 74.

288 Augusto Guido Bianchi, Guglielmo Ferrero, Scipio Sighele, Il mondo criminale italiano (1889-1892), Milano, Omodei Zorini, 1893; Ead, Il mondo criminale italiano (1893-1894), Milano, Omodei Zorini, 1894; Guglielmo Ferrero, Scipio Sighele, Cronache criminali italiane, Milano, Treves, 1896.

Ad esempio, è bene notare come uno dei casi narrati nella prima parte de Il mondo criminale

italiano abbia per titolo L’Innocente, ossia lo stesso del romanzo dannunziano pubblicato in

volume solo un anno prima della rassegna in oggetto (ma il romanzo era già apparso, anch’esso, a puntate, nelle appendici del «Corriere di Napoli»). Cronista del caso e responsabile della nobile citazione fu Scipio Sighele, tra gli allievi di Lombroso forse il più attento osservatore dei fenomeni letterari289. Ma tra i curatori della raccolta, anche chi praticava una professione meno scientifica mostrò di possedere una certa preparazione riguardo alle opere lombrosiane, così pure alle opere dei maggiori letterati del tempo. Si tratta di Augusto Guido Bianchi, giornalista giudiziario del «Corriere della sera» – poi curatore di un paio di pubblicazioni piuttosto indicative della sua passione giudiziaria, come Il romanzo

di un delinquente nato290 e L’incarto di un processo: romanzo autentico291. Il giornalista avrebbe presto guadagnato una certa dimestichezza col mondo dei grandi letterati, tanto da divenire amico e strettissimo corrispondente di Giovanni Pascoli292, il quale, a sua volta, non fece mistero della sua predilezione per la cronaca giudiziaria. Pascoli e Bianchi si conobbero infatti a seguito del processo Musolino: un dibattimento (e un “delinquente”) celebre, che non mancò di trovare spazio anche tra le cronache domenicali illustrate del «Corriere»293. Il direttore del quotidiano invitò subito il suo giornalista ad arruolare l’ormai celebre amico poeta, che per ben due volte fu sul punto di esordire sulle colonne del «Corriere», prima in occasione del processo Murri294 (di cui Bianchi fu uno dei maggiori cronisti295), poi durante il

289 Si veda Andrea Rondini, Il pazzo, il delinquente, la folla: Scipio Sighele critico letterario, Commentari dell’Ateneo di Brescia, Brescia, 1995.

290 Augusto Guido Bianchi, Il romanzo di un delinquente nato, autobiografia di Antonino M., con prefazione e note di A. G. Bianchi e con una perizia psichiatrica del prof. Silvio Venturi, Milano, Libreria Editrice Galli, 1893.

291 Augusto Guido Bianchi, L’Incarto di un processo: romanzo autentico, Milano, Lib. ed. Nazionale, 1903. 292 Si veda Augusto Guido Bianchi, Giovanni Pascoli nei ricordi di un amico, Milano, Modernissima, 1922 e Manuela Montibelli (a cura di), Carteggio: Giovanni Pascoli, Augusto Guido Bianchi, Scandicci, La Nuova Italia, 2001.

293 Il processo Musolino alla Corte d'Assise di Lucca, «Corriere illustrato della Domenica», 27 aprile 1902. 294 Sul caso Murri si rimanda al volume di Valeria Paola Babini, Il caso Murri: una storia italiana, cit.

295 Augusto Guido Bianchi, Autopsia di un delitto: processo Murri-Bonmartini, con prefazione di Guglielmo Ferrero, Milano, Libreria editrice nazionale, 1904.

processo Nasi296 (ministro della Pubblica istruzione nel governo Zanardelli); ma entrambi i tentativi non giunsero mai alla pubblicazione297.

Si vede dunque come i grandi processi – e le figure dei grandi delinquenti che ne erano protagonisti – attivassero non solo gli ingranaggi della «macchina giudiziaria», ma anche quelli dell’opinione pubblica, coinvolgendo vari saperi e figure intellettuali senza soluzione di continuità. A ulteriore testimonianza di questo intreccio interdisciplinare, c’è un caso giudiziario su cui ci sembra utile soffermarci, per due motivi in particolare: in primo luogo, perché coinvolge alcuni letterati di cui già si è parlato e ne evidenzia lo stretto rapporto con gli organi della stampa quotidiana; in secondo luogo, perché ci permette di apprezzare il valore eminentemente politico di questi grandi processi, così come delle loro riscritture cronachistiche e narrative.

3.2.1 La posta in palio nel racconto dei processi

Si è già detto di come La Colonia felice – pur se in opposizione alla «gallica peste» del romanzo «giudiziale» – sia apparsa anch’essa sulle appendici di un quotidiano. Ma le relazioni tra Dossi e quel «foglio rispettabilissimo» che fu la «Riforma» non si limitarono certo a quella singola occasione editoriale. Nel giornale romano, organo di stampa del partito crispino, tre furono le penne più prestigiose alle quali l’ambiente politico-giornalistico diede il soprannome de “I tre P”: si trattava di Luigi Perelli, Primo Levi e, appunto, Carlo Alberto Pisani Dossi. A dispetto di quanto dichiarato nella Diffida, anche quest’ultimo, assieme al collega Levi, mostrò un certo interesse verso la cronaca giudiziaria e pure verso l’idea che un processo, opportunamente drammatizzato, potesse dar luogo a un’interessante riscrittura romanzesca.

Si tratta del caso di Salvatore Misdea, un militare calabrese che, a seguito di un alterco a carattere regionale, imbracciò il fucile e uccise svariati commilitoni della caserma napoletana

296 Sul processo Nasi segnaliamo questo interessante e sconosciuto romanzo: Giuseppe Italo Alongi, Polizia

omicida! …ossia Il quarto d’ora del Nasismo: romanzo vero desunto da un processo inverosimile, Perugia,

Unione tipografica operativa, 1909.

297 Annamaria Andreoli, Pascoli censurato, in «Corriere della sera», 18 settembre 2006, online in

di Pizzofalcone. Il processo che ne conseguì fu proprio uno di quei dibattimenti celebri per i quali le folle riempivano a dismisura le aule dei tribunali, e i giornalisti le pagine dei quotidiani nazionali. A suscitare motivo di interesse contribuì senz’altro la presenza di Cesare Lombroso tra i periti di parte della difesa, che tentarono di dimostrare l’«imbecillità morale» dell’imputato, tipica dei «delinquenti nati», e quindi la sua irresponsabilità (non certo per quella “filantropia” che infatti anche l’autore della Colonia felice aveva ormai abbandonato). L’impresa riuscì vana, ma i periti non si arresero, e pubblicarono uno studio scientifico sul caso per rimarcare l’esattezza delle loro conclusioni298. In un articolo, apparso il 18 agosto sulle pagine del quotidiano crispino, Dossi commenta il caso e l’opuscolo in questione:

mentre i professori Lombroso e Bianchi studiano il Misdea sotto gli aspetti, nei quali esso merita principalmente, per non dire esclusivamente, ricordo, e cioè il medico e il legale […], il nostro Scarfoglio, in queste appendici, tenta, con scalpellate da maestro, di dare una forma artistica a quel masso di pietra non statuaria che è il Misdea.

Data l’enorme risonanza che il caso aveva suscitato nell’opinione pubblica, Primo Levi aveva infatti pensato di coinvolgere una giovane penna del giornalismo e della narrativa italiana, che proprio nell’ambito giudiziario aveva già avuto modo di mostrare il suo valore. In quello stesso anno, infatti, per iniziativa del solito Sommaruga, ne veniva pubblicata una raccolta di novelle, che aveva preso il titolo del racconto meglio riuscito: Il processo di Frine. Scarfoglio scrisse questa e le altre «novelle realiste all’ultimo sangue» tra il 1881 e il 1883 quando, poco più che ventenne,

era venuto a Roma da Chieti e stava mettendo alla prova tutte le sue doti letterarie per conquistare la capitale, da quelle poetiche, […] a quelle di critico e giornalista, con le prime cronache e i primi interventi di critica letteraria sui giornali romani: il «Capitan Fracassa», la «Domenica letteraria», la «Cronaca bizantina» di Sommaruga299.

Questo racconto giudiziario fu senz’altro il più apprezzato della raccolta, tanto da ricevere un giudizio positivo perfino da Benedetto Croce, che lo citerà nella sua Letteratura della Nuova

298 Cesare Lombroso e Leonardo Bianchi, Misdea e la nuova scuola penale, Torino, Fratelli Bocca, 1884. 299 Remo Ceserani, Introduzione, in Edoardo Scarfoglio, Il processo di Frine, Palermo, Sellerio, 1995.

Italia300, nella sezione intitolata Romanzi-documenti. Fu proprio a Scarfoglio, quindi, che Levi propose di ripetere l’esperienza della narrazione giudiziaria. È interessante notare come tra le preoccupazioni dell’autore, espresse in un Preambolo inviato al giornale poco prima dell’inizio del romanzo, vi sia quella di non «mettere insieme un pasticcio sanguinoso come quelli che la corrotta operosità francese cucina giornalmente nelle appendici de’ giornali europei»301

Di nuovo, quindi, la volontà di distinguersi dalla narrazione d’appendice (francese), da parte di un autore che, a sua volta, sta per pubblicare un romanzo a puntate su un quotidiano (italiano). E di nuovo, come per Dossi, tale distacco si accompagna ad un chiaro accoglimento delle teorie lombrosiane:

Ho tutti i documenti del processo, ho qualche esperienza della natura calabrese, dei sentimenti e delle consuetudini militari, della patria di Misdea. Racconterò quanto più vivamente mi sarà possibile, senza preoccupazione e senza pregiudizii.

Così, la mia narrazione sarà quasi un corollario o un com[m]ento dell’opuscolo scientifico che intorno a Misdea sta per pubblicare il Lombroso.

Ecco tutto302.

Tale fu il Il romanzo di Misdea che Scarfoglio pubblicò a puntate sulle pagine della «Riforma»: una sorta di perizia psichiatrica in forma di racconto; una narrazione del tutto incentrata attorno alla costruzione del personaggio criminale-folle, affetto dal morbo atavico e degenerativo della delinquenza che si tramanda di generazione in generazione. Si tratta per noi, oggi, di una vera e propria riscoperta, poiché la critica aveva del tutto ignorato questa pubblicazione, cristallizzando la figura di uno Scarfoglio giornalista, che aveva in gioventù intrapreso la strada di romanziere, poi abbandonata dopo i primi esperimenti delle «novelle all’ultimo sangue», laboratorio di sperimentazione in vista di un romanzo mai scritto. Un romanzo, invece, Scarfoglio lo scrisse. Certo non ebbe la fortuna del Processo di Frine, e tanto meno della Colonia felice, e infatti per più di un secolo è rimasto inedito in volume, fino

300 Benedetto Croce, Edoardo Scarfoglio, in La letteratura della Nuova Italia, vol. VI, Roma-Bari, Laterza, 1940, pp. 169-174.

301 Edoardo Scarfoglio, Il romanzo di Misdea. Preambolo, in «La Riforma», 1 luglio 1884. 302 Ibidem.

a che recentemente Manola Fausti non ne ha curata l’edizione303. Nondimeno quest’opera risulta assolutamente interessante per il discorso tracciato sin ad ora. A differenza del

Processo di Frine, ma come La Colonia felice, questo Romanzo di Misdea non è un romanzo

processuale: certo al processo Misdea risulta indissolubilmente legato, ma la fase del dibattimento così come quella dell’inchiesta sono del tutto assenti dalla narrazione. Questa scelta narrativa sottolinea alla nostra attenzione l’esistenza di alcune opere che elidono la fase più prettamente processuale, ma non per questo aspirano in misura minore ad essere riconosciute come «giudiziarie» e a lasciare il proprio segno all’interno di tale filone narrativo.

Tanto Dossi quanto Scarfoglio organizzano la propria scrittura attorno alla caratterizzazione del delinquente: malvagio emendabile nel primo caso (ma non per questo meno “selvaggio”); criminale-folle e delinquente-nato nel secondo (ormai “incorreggibile”, a questa altezza cronologica, anche per il primo). Proprio per queste figure i penalisti della madre patria già andavano proponendo – anche citando questi romanzi, come si vedrà nel corso di questo lavoro – le colonie penitenziarie nelle terre “selvagge” del corno d’Africa: terre che entrambi gli autori ebbero modo, di lì a pochi anni, di conoscere da vicino304. Da una parte, dunque, le questioni penali entravano – esplicitamente – nei testi letterari. Dall’altra, quei testi letterari e l’immaginario che erano in grado di produrre venivano utilizzati – in maniera altrettanto esplicita – nel dibattito apertosi attorno alle questioni penali, come veri e propri strumenti dell’azione politica. Il committente del romanzo di Misdea fu abbastanza chiaro su quali obiettivi questa narrazione avrebbe dovuto raggiungere: rispondendo al Preambolo di Scarfoglio, Primo Levi invita esplicitamente l’autore a scrivere

uno studio popolare e artistico insieme, che fosse assai più di un pamphlet politico e militare, uno studio umano e sociale, che, nella sua imparziale ingenuità, assai più sarebbe riuscito efficace presso quella opinione generale, che deve provocare con le sue commozioni l’azione dei legislatori305.

303 Edoardo Scarfoglio, Il romanzo di Misdea (1884), Manola Fausti (a cura di), Firenze, Polistampa, 2003. 304 Edoardo Scarfoglio, Abissinia (1888-1896): studi di “Tartin” durante la prima campagna d’Africa, Roma, Edizioni Roma, 1936; ora in parte in Edoardo Scarfoglio, Viaggio in Abissinia: nascita del colonialismo italiano, Gianni Eugenio Viola (a cura di), Palermo, Epos, 2003. Su Dossi, si veda il capitolo dedicato nella seconda parte di questo lavoro.

Azione la cui necessità ed urgenza erano direttamente proporzionali all’ossessione dell’«armata del crimine».

Per me, Misdea, non è il soldato soltanto – nell’anno di cristo 1884, nell’anno 25° dello Stato Italiano […] È la fiera, indomita e ingenua, quale Natura ha creato, e quale, per sapienza dei cessati governi, è stata – indarno – a noi da ammansire. Non è poi un pazzo soltanto, è la belva captiva.

[…] Già nel Processo di Frine tu hai però dimostrato quanto parli alla tua mente il fenomeno morale di quelle anime inscientemente guaste, che sono votate al delitto non solo dalla natura fisica, ma anche dall’ambiente306.

Come preservare l’ancora fragile integrità della nazione dalle «anime guaste» votate al delitto? Bisognava agire sull’opinione pubblica, per provocare l’azione dei legislatori e affermare Il diritto di punire come funzione sociale307 – per usare la terminologia della scuola positiva. Nella complessa situazione in cui versava la nuova Italia non mai abbastanza unificata308, la “questione penale” coincideva con la “questione sociale”: la centralità dell’una rafforzava quella dell’altra, riducendole di fatto (al netto delle divisioni tra le diverse “scuole” penali309) a un unico campo di intervento. Difendersi dalle «fiere indomite» e «captive» significava proteggere l’organismo del corpo sociale da quegli «elementi di infezione»310 che si annidavano nelle campagne del meridione o nei bassifondi dei centri urbani in espansione. In effetti, i legislatori non furono lasciati soli nello svolgimento di una mansione tanto difficile e importante. Bisognava che all’interno della società civile ognuno desse il suo contributo, e così che anche i non specialisti nel settore delle scienze giuridiche potevano sentirsi legittimati ad offrire il loro aiuto. Indicative in questo senso sono ancora le parole di Lombroso nel suo studio Sull’incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo311:

306 Ibidem.

307 Enrico Ferri, Il diritto di punire come funzione sociale, in «Archivio di psichiatria», III, 1882, pp. 51 ss. 308 Cesare Lombroso, Troppo presto. Appunti al nuovo progetto di codice penale, Torino, Bocca, 1888.

309 Sul punto si veda Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, in Luciano Violante (a cura di), Storia d’Italia. 14. Legge Diritto e Giustizia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 486-551. 310 Enrico Ferri, Il diritto di punire, cit. p. 54.

A chi mi chiedesse perché io, senz'essere uomo politico o giurista, abbia ardito porre mano ad un’opera di questa natura, risponderò solo: Che si guardi d'intorno. – Innanzi alla marea del delitto che monta e monta sempre, e minaccia sommergerci e insieme infamarci, senza che alcuno pensi ad opporvi le dighe, a me parve che un uomo onesto, il quale aveva per molti anni studiato il delitto come psichiatra, se non come statista, non doveva tacere312.

Anche i letterati, dal canto loro, non poterono trattenersi dal prendere parola di fronte alla «marea» montante della delinquenza. Da una parte, come si è visto, utilizzarono la loro penna