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Il romanzo giudiziario come genere autonomo (nella letteratura italiana)

Il romanzo giudiziario dell’Italia postunitaria

Capitolo 1 Il romanzo giudiziario e la critica: ogg

1.2 Il romanzo giudiziario come genere autonomo (nella letteratura italiana)

Lo sviluppo e la precisa definizione di una linea giudiziaria nella letteratura italiana, lo si deve senza dubbio all’attività critica di Sergia Adamo, che in più di una sede si è spesa per dimostrarne la legittimità e la produttività, e che ancora oggi continua a lavorare in questo senso60, senza rinunciare a quelle prospettive comparatistiche e transdisciplinari che ancora dimostrano tutta la loro utilità61. Sin dal suo primo contributo sul tema, ancora fondamentale per chi opera nel campo dell’italianistica, la studiosa ci invita a riscoprire alcune opere di autori oggi quasi dimenticati, come Gerolamo Rovetta (Il processo Montegù62) e Parmenio Bettoli (Il processo Duranti63); chiamandone in causa altre, uscite dalla penna di più rinomati colleghi, come Federico De Roberto (Spasimo64), Luigi Capuana (Il Marchese di

Roccaverdina65) e Italo Svevo (L’assassinio di via Belpoggio66). Ma soprattutto ci invita a leggerle interrogandoci sulle relazioni complesse che intercorsero tra Mondo giudiziario e

riscrittura narrativa in Italia dopo l’Unità67. Non è un caso, infatti, che la narrativa giudiziaria italiana si sia sviluppata proprio in concomitanza con i dibattiti sugli ordinamenti di giustizia del nuovo stato unitario, particolarmente accesi soprattutto nel decennio terminato

60 Sergia Adamo, La giustizia del dimenticato: sulla linea giudiziaria nella letteratura italiana del Novecento, in Pierpaolo Antonello e Florian Mussgnug (a cura di), Postmodern impegno, Oxford, Peter Lang, 2009.

61 Sergia Adamo, La letteratura che non c’era: davanti alla legge, in «Between», II.3 (2012), http://www.Between-journal.it/

62 Gerolamo Rovetta, Il processo Montegù, Milano, Galli, 1885.

63 Parmenio Bettoli, Il processo Duranti. Relazione del dott. T. Monti, notaio, dimorante in Torino, via Bertola,

32. Con note e documenti, Milano Treves, 1874.

64 Federico De Roberto, Spasimo, Milano, Galli, 1897; apparso precedentemente a puntate sul «Corriere della Sera» dal 26 novembre 1896 al 6 gennaio 1897.

65 Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina, Milano, Treves, 1901.

66 Italo Svevo, L’assassinio di via Belpoggio, apparso nelle appendici del quotidiano triestino «L’indipendente» dal 6 al 13 ottobre 1890 con la firma di Ettore Samigli.

con l’approvazione del Codice Zanardelli68. Non è un caso, ancora, che in quegli stessi anni si diffusero anche in Italia sia le cronache giudiziarie, sia le raccolte di cause celebri. Il processo, insomma, vero e proprio evento in grado di attirare un pubblico sempre più numeroso e di far proliferare attorno a sé una serie di riscritture, ebbe un ruolo non secondario nella formazione dell’opinione pubblica dell’ancor giovane nazione.

Va detto per inciso che su questo aspetto non mancano oggi ulteriori e significativi approfondimenti prodotti dagli storici del diritto69. Al contrario, non pare purtoppo di poter dire lo stesso per quanto riguarda i colleghi letterati. Eppure, come già si segnalava nello studio in questione, almeno una parte di queste riscritture sembrerebbe chiamare in causa in primo luogo proprio le discipline letterarie. Negli ultimi decenni dell’Ottocento italiano, una serie di pubblicazioni di ambito giuridico come le «Gazzette dei Tribunali», sino a qualche tempo prima esclusivamente riservate agli addetti ai lavori, seppero abbandonare il loro specialismo per assumere un carattere sempre più marcatamente letterario:

Tra le tante pubblicazioni di questo tipo che prolifereranno negli anni anche in Italia […], la più significativa usciva a Torino sotto la direzione di Ausonio Liberi con il titolo di «Cronaca dei tribunali». Si trattava di un foglio settimanale (venduto a 5 centesimi) fondato nel 1878, in cui venivano presentate prevalentemente le cause discusse nel tribunale della città, ma trovavano anche spazio dibattiti di interesse nazionale, come quello sul codice Zanardelli che venne pubblicato in appendice a partire dal 1889. […] Proprio per questa attenzione a quanto accadeva in altre zone d’Italia e per questa consuetudine di riportare casi e resoconti di interesse nazionale, le torinesi «Cronache dei tribunali» rappresentano il caso più significativo all’interno di una produzione estremamente vasta e di ampia

68 Su questo dibattito, sulle due cosiddette “scuole” penali che lo avrebbero animato torneremo più diffusamente nella seconda parte di questo lavoro, in particolare nel paragrafo La Colonia, la Diffida e le “scuole”penali. 69 Si vedano in particolare: Aldo Mazzacane, Letteratura, processo e opinione pubblica: le raccolte di cause

celebri tra bel mondo, avvocati e rivoluzione, in Marcella Marmo e Luigi Musella (a cura di), La costruzione della verità giudiziaria, Napoli, Cliopress, 2003; Luigi Lacchè, Una letteratura alla moda. Opinione pubblica, “processi infiniti” e pubblicità in Italia tra Otto e Novecento, in Marco Nicola Miletti (a cura di), Riti, tecniche e interessi. Il processo penale tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 2006; Luigi Lacchè, «L’opinione pubblica saggiamente rappresentata». Giurie e corti d’Assise nei processi celebri tra Otto e Novecento, in Paolo

Marchetti (a cura di), Inchiesta penale e pre-giudizio. Una riflessione interdisciplinare, Napoli, Esi, 2007; Floriana Colao, Luigi Lacchè, Claudia Storti (a cura di), Processo penale e opinione pubblica in Italia tra Otto e

Novecento, cit.; Giorgia Alessi, Il processo penale. Profilo storico, Roma-Bari, Laterza, 2001; Floriana Colao, La scena processuale. Cause celebri tra giustizia e politica, in Mario Isnenghi, Simon Levis Sullam (a cura di), Gli Italiani in guerra. Le «Tre Italie». Dalla presa di Roma alla Settimana rossa (1870-1914), Torino, 2009.

fruizione. Lo stesso direttore, Ausonio Liberi, sotto lo pseudonimo di A. Giustina si impegnava spesso a rielaborare i casi presentati sulla rivista in opere che lui stesso definiva «romanzi storico-giudiziari» per evidenziare il legame tra la cronaca come storia della contemporaneità e l’aspetto tradizionalmente letterario. Ma non solo: molte delle sue cronache apparse sul settimanale venivano riprese e raccolte nella serie a dispense dei

Drammi del martello, resoconti che mantenevano il legame con uno stile giornalistico

tendente al narrativo ed estremamente elaborato. […] Ma, come già esplicitamente espresso in un editoriale della «Cronaca dei tribunali» (apparso anonimo sul n. 5 del 1891) tali resoconti aspiravano a differenziarsi da una parte dai romanzi di argomento genericamente giudiziario (in cui la tensione e l’interesse sembravano estremamente ridotti e diluiti in un numero eccessivo di pagine), dall’altra dalle tipologie delle cause celebri, ancora una volta di origine francese, che aveva dominato negli ultimi decenni dell’Ottocento, e che veniva definita come una letteratura deteriore e decisamente «bassa»70.

Al cospetto di questa complessa rete di riscritture anche la Adamo giunge a interrogarsi sulle caratteristiche del romanzo giudiziario come genere autonomo: «definizione che crea non pochi problemi di ordine teorico e storiografico. Si trattava infatti di un genere codificato? O può essere considerato come una forma ancora primordiale di romanzo giallo?»71. Nel rispondere alla domanda, l’autrice riprende la distinzione operata da Ceserani, riaffermando la centralità della «dimensione interiore del personaggio» e il proliferare continuo delle ri- narrazioni come tratti distintivi del giudiziario. Eppure, questa volta, la linea di demarcazione tra i due generi sembra meno netta, se non altro perché proprio la narrativa italiana manifesta un caso interessante per la prossimità tra le due scritture narrative, nel quale il passaggio (o secondo altri l’evoluzione) da un genere all’altro sembrerebbe verificarsi nell’arco di un solo anno. Si tratta di Giulio Piccini, lo scrittore toscano meglio conosciuto – e più che non si creda72 – con lo pesudonimo “Jarro”. Nel 1883 uscirono per la collana «Biblioteca amena»

70 Sergia Adamo, Mondo giudiziario e riscrittura narrativa in Italia dopo l’Unità, cit. pp. 73-74. 71 Ivi, p. 79.

72 Così lo descrive Teodoro Rovito, Dizionario dei letterati e giornalisti italiani contemporanei, Napoli, tip. Melfi & Joele, 1907, p. 196: «Ingegno vivace, versatilissimo, è uno dei più popolari scrittori nostri. Luigi Capuana disse di lui: “Chi lo conosce da vicino può dire che tra lo scrittore e il brioso parlatore in conversazione non c’è nessuna differenza. Le macchiette ch’egli schizza, ragionando con amici, i motti arguti che gli sfuggono di bocca hanno lo stesso valore di quelli da lui profusi nei suoi libri. Questi infatti sembrano parlati; non si leggono, si stanno ad ascoltare, e il godimento che ne risulta è simile a quello che si proverebbe udendoli dalla stessa voce del narratore”. […] Prese quindi a scrivere sui giornali e sulle riviste migliori, con lo pseudonimo di

dell’editore milanese Emilio Treves due suoi romanzi73, L’assassinio nel vicolo della luna e Il

processo Bartelloni, cui se ne agginse un terzo, I ladri di cadaveri, uscito l’anno successivo

all’interno della medesima collana. Ebbene, se nei primi due romanzi

gli eventi vengono presentati preliminarmente al lettore nel loro sviluppo, e il processo diventa l’occasione in cui essi vengono discussi, riraccontati, nel terzo è un enigma a essere presentato, un mistero che solo le indagini riusciranno a rivelare; la dinamica istituita tra i primi due può essere ricondotta a una struttura «giudiziaria», mentre nell’ultimo di essi prende forma una variante di narrazione più vicina al giallo74.

Queste indicazioni non obbligano certo a sancire l’inesistenza del romanzo giudiziario, ma suggeriscono una maggiore prudenza nella sua distinzione dal poliziesco. Almeno per il caso italiano, conclude infatti la studiosa,

I romanzi cosiddetti giudiziari […] presentano delle affinità con opere che si scriveranno in seguito che possono anche essere interpretate come forme primordiali di giallo. Ma, nel contempo si legano a un filone di rappresentazione della giustizia nella letteratura che trova le sue motivazioni nelle esigenze della società massificata, nell’ampio spettro che va dalla più stretta materialità di vita alle condizioni di produzione e fruizione culturale, a esigenze di problematizzazione indotte dalla pervasività e multiformità di una cultura di massa75.

ottenne presto fama di romanziere, di critico e di umorista originale. […] I suoi romanzi furono pubblicati in Italia anche nelle appendici del Corriere di Napoli, del Capitan Fracassa, del Don Chisciotte, del Don Marzio, dello Adriatico, del Mattino, del Giornale di Sicilia, del Secolo XIX, del Pungolo di Milano, della Nazione di Firenze, del Resto del Carlino, della Provincia di Brescia, ecc. Molti fra i suoi volumi furono tradotti in varie lingue».

73 I due testi furono in realtà concepiti dall’autore come unico romanzo, che doveva intitolarsi «“Il romanzo di una cantante”. Ma prevalse l’editore Emilio Treves, che lo pubblicò in due volumi autonomi […], rispettivamante numeri 140 e 141 della “Biblioteca amena”», Loris Rambelli, Il presunto giallo italiano: dalla

preistoria alla storia, in «Problemi», 86, settembre-dicembre 1989, p. 234.

74 Sergia Adamo, Mondo giudiziario e riscrittura narrativa in Italia dopo l’Unità, cit. p. 81. 75 Ivi, p. 84.

1.2.1 Un romanzo esemplare: Il cappello del prete

Un altro scrittore di grande successo – ma che, al contrario del poligrafo toscano, non risulterà del tutto estraneo al canone letterario della critica novecentesca – ricevette negli anni successivi le attenzioni dell’editore Emilio Treves, in merito ad un’altra opera ascrivibile al filone giudiziario. Si tratta di Emilio De Marchi e del suo romanzo Il cappello del prete, pubblicato in volume nel 1888. Ma a destare notevole interesse, quanto alle dinamiche editoriali e alla formazione dell’opinione pubblica nazionale, è soprattutto la sua precedente pubblicazione in appendice a due quotidiani: apparizione preparata da Treves con grande cura, attraverso una campagna pubblicitaria a dir poco significativa:

all’inizio di maggio del 1887, con collocazioni assai variabili nelle diverse pagine e colonne, il quotidiano milanese “L’Italia” cominciò a presentare l’immagine di un cappello nero da prete, finché il giorno 20 ad essa si affiancò una prima parola (“Questo”) e poi, il giorno seguente, un’altra ancora (“cappello”), fino a giungere il 6 giugno, di parola in parola, alla frase completa: “Questo cappello da prete fu da diversi giorni inserito nelle nostre colonne come annuncio preventivo di un romanzo che appunto si intitolerà Il

cappello del prete”76;

e che sarebbe stato – a detta dello stesso quotidiano – «un vero racconto, non una fantasmagoria iperbolica ed impossibile, come quelle che pubblicano solitamente i giornali nelle loro appendici»77. Il 16 giugno sarebbe poi giunta la notizia dell’inizio della pubblicazione per il giorno successivo, ma come se non bastasse, agli angoli delle strade principali di Milano erano stati affissi «grandiosi fogli» su cui spiccava solitario «un gigantesco cappello da prete. Eccitata la curiosità, pochi giorni dopo altri grandiosi fogli annunciavano che tale era il nuovo romanzo che avrebbe pubblicato in appendice il giornale

76 Francesco De Nicola, Storia delittuosa ma edificante di un prete miserabile e di un nobile ancor più

miserabile, in Emilio De Marchi, Il cappello del prete, Francesco De Nicola (a cura di), Sestri Levante,

Gammarò, 2006, p. VI. 77 Ibidem.

L’Italia diretto da Dario Papa e contemporaneamente il Corriere di Napoli»78, allora diretto da un noto giornalista e narratore cui già si è fatto cenno: Edoardo Scarfoglio.

Questa notevole campagna pubblicitaria (e tuttavia definita «comune» dall’autore) ben si accompagnava con l’idea della scrittura romanzesca che Emilio De Marchi praticava e di cui era fermamente convinto. Come premessa alla prima edizione in volume comparve infatti un’Avvertenza dell’autore, così centrata sui temi della formazione di un pubblico nazionale e sulla rivendicazione della scrittura d’appendice, che conviene riportarla per intero:

QUESTO NON È UN ROMANZO SPERIMENTALE, tutt’altro, ma è un romanzo d’esperimento, e

come tale vuol essere preso.

Due ragioni mossero l’autore a scriverlo.

La prima, se sia proprio necessario andare in Francia a prendere il romanzo detto d’appendice, con quel beneficio del senso morale e del senso comune che ognuno sa; o se invece, con un po’ di buona volontà, non si possa provvedere da noi largamente e con più giudizio ai semplici desiderî del grande pubblico.

La seconda ragione fu per esperimentare quanto di vitale e di onesto e di logico esiste in questo gran pubblico così spesso calunniato e proclamato come una bestia vorace, che si pasce solo di incongruenze, di sozzure, di carni ignude e alla quale i giornali a centomila copie credono necessario di servire di truogolo.

L’esperimento ha dimostrato già a quest’ora le due cose, cioè che anche da noi si saprebbe fare come gli altri, e col tempo forse molto meglio per noi; e poi che il signor pubblico è molto meno volgo di quel che l’interesse e l’ignoranza nostra s’ingegnano di fare.

Pubblicato in due giornali d’indole diversa, in due città poste quasi agli estremi dell’Italia – nell’Italia di Milano e nel Corriere di Napoli – questo Cappello del prete, senza nessuna delle solite basse transazioni, ma col semplice ajuto dei comuni artifici d’invenzione e di richiamo, ha ottenuto più di quanto l’autore pensasse di ottenere. I signori centomila hanno letto di buona voglia e, da quel che si dice, si sono anche commossi e divertiti. Dal canto suo l’autore, entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si è sentito più di una volta attratto dalla forza potente che emana dalla moltitudine; e più di una volta si è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi più che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell’era nostra. Si è chiesto ancora se non sia cosa utile e patriottica giovarsi di questa forza viva che trascina i centomila al leggere, per suscitare in mezzo ai palpiti della curiosità qualche vivace idea di bellezza che ajuti a sollevare gli animi.

L’arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori79.

78 Nota degli editori alla settima edizione (1913), in Giansiro Ferrata (a cura di), Tutte le opere di Emilio De

Si sarà notato come in questa Avvertenza De Marchi non utilizzi l’aggettivo «giudiziario» per per descrivere il suo romanzo. Tuttavia, altri avrebbero successivamente riconosciuto nel

Cappello del prete qualcosa di più della semplice appartenenza al filone giudiziario. Ci

riferiamo a Salvatore Farina, che con Il segreto del nevaio (1906) decise a sua volta di tentare la via del romanzo giudiziario, «o quantomeno a dichiarare di averlo fatto»80. Nella prefazione al volume – «forse più ricca di spunti del romanzo stesso»81, quanto alle questioni che andiamo dibattendo – Farina tenta una sorta di canonizzazione di questo genere letterario, individuandone i capisaldi in una serie di opere tutt’altro che dimenticate dalla critica letteraria: ed è appunto nel mezzo di queste opere che compare anche Il cappello del prete:

Soliloquio di un solitario.

Diranno: «Questa volta hai voluto fare il romanzo giudiziario». Si, forse. In queste pagine sono entrati carabinieri e i giudici, i direttori di tre carceri e l’ospite loro vagante e poi assiduo e camuffato da Arlecchino. In principio è commesso un delitto, poi la matassa s’imbroglia; meglio, l’imbrogliano gli avvocati e i periti; alla catastrofe, prima del fine poco lieto, un tentativo di fuga riesce pessimamente. Dunque romanzo giudiziario modello

Gaboriau, il quale cucinava così bene i suoi intingoli da indurre il lettore a tornarci più

volte e a leccarsi le dita.

Nulla di male veramente se questo avessi fatto. Quando Zola (da poco sacrificato in Campidoglio con analogo spargimento di sangue), quando l’autore di tanti documenti umani volle cercarne uno nel delitto scrisse Teresa Raquin, che forse non gli riuscì secondo il suo legittimo desiderio. E il romanziere non si pentì nemmeno lui di aver scritto un romanzo giudiziario, perché solo aveva voluto mettere il dito in una piaga sanguinante, col preciso intento di fare inorridire la lettrice e il lettore. E fece anche di meglio e di peggio il gran romanziere: adoperò una vecchia novelletta di un suo non antico collega, l’americano Poe. Quella novelletta è una piccola meraviglia, s’intitola Il cuore rivelatore. Lo Zola allargò le poche orrende pagine fino a farne un romanzo nutrito coll’abbondanza; sbriciolando il delitto in ogni suo particolare macabro, si pensò di crescere l’orrore e il delitto malsano e de fare grande opera d’arte. Ma non riuscì bene; la forza vera di quel documento umano già era stata chiusa nel cuore che rivelava in ultimo il suo battimento

79 Avvertenza premessa dall’autore alla prima edizione (1888), in Giansiro Ferrata (a cura di), Tutte le opere di

Emilio De Marchi, cit. pp 283-284..

80 Sergia Adamo, Nota introduttiva, in Salvatore Farina, Il segreto del nevaio, ristampa anastatica della seconda edizione S.T.E.N. (Torino, 1909), Roma, Vecchiarelli, 1996, p. XII.

orrendo. Poe aveva detto brevemente ogni cosa; la novella in lui aveva toccato il sublime; il

romanzo che altri volesse scrivere su quella traccia meravigliosa, fosse anche ricco d’ogni splendore di forma, sempre passerebbe oltre il segno.

[…] La parola del Poe diceva: «Recipe delitto e rimorso; fanne una pillola sola e manda giù ad occhi chiusi».

Lo Zola prese pure quella ricetta e così la mutò: «Recipe delitto e rimorso; stemperali in trecento cartine, somministrale la notte… per non pigliar sonno».

La ricetta del Poe doveva servire ancora a un altro grande. Il Dostojewski se ne innamorò anche lui; seguì egli pure il metodo dello Zola stemperando un po’ più; e le trecento cartine dell’autore francese divennero oltre il doppio per i lettori russi. Le pagine di Delitto e

castigo, sebben non tutte date all’orrore, ma talora condite di poesia, di paesaggio, perfino

di buon umore, misero a nudo un cuore malato. La pinzetta ne afferra le grandi arterie e le piccole, il bisturi ne strappa i nervetti per dare all’arte un’amplificazione diversa, ma in sostanza simile. Più che simile, uguale: il rimorso del delinquente. il quale prima si compiace del delitto commesso, lo copre di frasche quasi con diletto e quando gli pare di averlo ben celato, non solo al giudice, ma a se stesso: «cercate, dice, fate pure il vostro comodo, perdete il vostro tempo».

[…] E ancora l’ammirabile novella del Poe, che recitata dal Zacconi parecchi anni or sono destò un immenso brivido nel pubblico del teatro Manzoni, servì a un altro intelletto mite e poderoso. Emilio De Marchi se ne impossessò anche lui e nel Cappello del prete ci dà forse il migliore dei tre romanzi attinti alla stessa piccola polla americana.

Dico il migliore dei tre, per quanta sia la mia ammirazione per moltissime delle troppe pagine di Delitto e castigo.

Dunque, dica pure un lettore che questa volta ho voluto scrivere un romanzo giudiziario82.

Come si vede, la concezione fariniana del romanzo giudiziario e la collocazione che egli riserva per se stesso e per De Marchi sono in parte ambigue e problematiche. Sta di fatto che