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Il disinteresse della critica letteraria (spiegato da Leonardo Sciascia)

Il romanzo giudiziario dell’Italia postunitaria

Capitolo 2. Il romanzo giudiziario visto dai criminologi: fin de siècle

2.1 Il disinteresse della critica letteraria (spiegato da Leonardo Sciascia)

Sciascia, dal canto suo, si mostra convinto sostenitore della proposta: non solo della prospettiva che guida la scelta di queste pagine, ma anche della necessità di una loro riproposizione. Il punto da cui muove la sua riflessione è infatti il rifiuto, da parte della critica di fine secolo, di concedere lo statuto letterario a quelle opere che affrontassero questo genere di questioni. Rifiuto che di fatto risuonava, più o meno direttamente, come un invito a non scriverne.

Si può anche dirlo con una battuta: la narrativa italiana, dall’Unità alla seconda guerra mondiale, è stata, anche nelle sue vene veriste e populiste, più attenta ai fatti che passavano per le stazioni dei Reali Carabinieri che a quelli che passavano per i commissariati di pubblica sicurezza. E potremmo allargare la constatazione fino ai giorni nostri […]. Insomma: il mondo contadino con le sue passioni per la roba e per l’onore, con le sue

134 Ivi, p. XIII.

superstizioni e i suoi sofismi, le sue atroci e vane jaqueries, la sua fama di pane e di sesso, ha avuto assoluta priorità e importanza, nelle pagine dei nostri narratori, rispetto al mondo cittadino. A questo mondo cittadino, ma con predilezione per le periferie e gli angiporti, i vicoli, i “bassi” e le portinerie (e borghesia piccola e infima vista dalle portinerie), soltanto si avvicinano gli scrittori della Scapigliatura: e, paradossalmente rispetto agli intendimenti da cui muovevano, con la coscienza e il gusto della evasione e della degradazione. E c’è da capirli, se la società italiana (e diciamo società tanto per intenderci), che veniva innestando i miti del Risorgimento sul tronco della Controriforma cattolica, e quei miti era disposta a contemplare soltanto in senso estetico come già i riti e i fasti del cattolicesimo, decisamente respingeva ogni rappresentazione della realtà che non fosse improntata al mito e alla bellezza appunto: en attendant D’Annunzio e non, come si era illuso De Sanctis, Verga. E ci riferiamo, si capisce, non precisamente a Verga: ma al tipo di scrittore vaticinato dal critico (e Verga era ancora, peraltro, il mondo contadino).

E basti questo giudizio, del 1923, di uno dei più ragguardevoli critici di scuola crociana, su uno scrittore come Cesare Tronconi: «fu il più sfrenato rappresentante dello zolismo, in Italia, attorno al 1880. Insieme con Cletto Arrighi può dirsi l’iniziatore di quella letteratura erotico-sessuale, che, con prurito di sedicenti problemi sociali, fin d’allora fondò la sua solida tradizione nella metropoli lombarda, e che anche oggi conta rappresentanti sempre attivi e servizievoli nel cogliere e interpretare gli umori più malsani del grosso pubblico dei clienti. Letteratura cotesta che più che nella storia letteraria ha un valore documentario nella storia dei costumi (e le cui testimonianze saranno ricercatissime, nell’avvenire, da qualche storico della prostituzione), e la quale in un certo senso apparirebbe assurda nella patria di Porta e Manzoni e di tutti quegli scrittori, dal Boito al De Marchi, dal Dossi al Lucini, che fanno capo in un modo o in un altro a cotesto aristocratico Olimpo, se la storia delle più nobili e disinteressate opere dello spirito avesse nulla a che vedere con la storia delle industrie grandi o piccole che siano. Giacchè cotesta equivoca letteratura, precisamente, trova il suo posto e il suo significato non nella Milano letteraria, ma nella Milano operosa delle industrie più diverse; industria anch’essa, a quanto pare, necessaria, e contro la quale è inutile e stoloido imprecare, se, in mancanza di produzione indigena, in alcuni periodi di sterilità nazionale, si è costretti a ricorrere d’urgenza alle forniture straniere». Questo giudizio su Tronconi, l’illustre critico lo ripubblicava tal quale venticinque anni dopo, in piena stagione neorealista. […] Secondo i testi sacri, lo spirito soffia dove vuole. Secondo i canoni della critica italiana largamente imperversante, lo spirito, sotto specie di poesia, subiva invece delle interdizioni. Le zone interdette erano quelle dell’interesse, mentre restavano aperte quelle del disinteresse: “la storia delle più nobili e disinteressate opere dello spirito” era la storia stessa della letteratura, delle arti. Il resto, s’apparteneva alla storia delle “industrie più diverse”: purtroppo, a quanto pareva, necessarie e contro le quale era

stolido imprecare, ma non meno stolido il tentare di assumerle nelle rappresentazioni della letteratura e dell’arte135.

Ma al di sotto della «ineffabile, e indefinibile poesia», è effettivamente esistita «un’altra Italia, una mala Italia» di cui pure alcuni letterati credettero opportuno occuparsi: Sciascia ci invita a ritrovarla «in certi racconti di Federico De Roberto non a caso, e anzi con assoluta giustezza, intitolati Processi verbali; in qualche novella del Verga “milanese”; in alcune cose dei più sfrenati rappresentanti dello zolismo in Italia: il Tronconi appunto, e l’Arrighi, e altri “scapigliati”». Ma anche e soprattutto nelle «cronache giudiziarie» e nelle «inchieste criminologiche: per fortuna abbondanti, stante il vasto influsso delle teorie lombrosiane». Da questo intreccio di scritture giuridico-letterarie traspare «un’immagine dell’Italia unita che è esattamente quella che c’era da aspettarsi si nascondesse sotto quella del Cuore di Edmondo De Amicis»: ed è esattamente questa immagine ciò che Sciascia e Ferrero ci invitano a ricomporre, senza accennare ad alcuna distinzione tra giudiziario e poliziesco.

È l’Italia dei commissariati di Pubblica Sicurezza, delle questure, dei processi a porte chiuse (una sola volta ritroviamo l’Italia delle stazioni dei Reali Carabinieri: nella cronaca che riguarda l’ultimo scampolo di brigantaggio post-unitario ma non politico, della cosiddetta banda Maurina, di San Mauro Castelverde nelle Madonie; e tra i feroci briganti e i non meno feroci manutengoli che ad un certo puto presentano allo Stato il cadeau dei briganti belli e ammazzati, comme toujour, ci sembra di respirare una boccata d’aria libera: tanto è greve e graveolente quel che circola nelle altre cronache). L’Italia dei fatiscenti rioni popolari sordidi e malsani, l’Italia che s’arrangia, che s’industria (da ciò il termine “industriale” usato dal sottoproletariato palermitano ad indicare un’attività che va dalla vendita, ovviamente senza licenza, di lacci da scarpe e preservativi al prossenetismo più miserabile e al furto con destrezza): sotto l’occhio indulgente spesso, nella flagranza di reato o nel fatto di sangue severo, del “delegato” di Pubblica Sicurezza (più popolare del commissario, il “delegato” oggi scomparso) cui si affiancava la dama di San Vincenzo o di altra benefica associazione. L’Italia, insomma, delle ex capitali: che erano tante, nel momento in cui Roma diventa la capitale. E prima tra tutte, popolosa e in maggior misura degradata, Napoli: e dove più la miseria e il vizio di sé si appagano, e si esaltano, e si stordiscono; come lasciando ogni speranza, e precorrendo un più vasto mondo senza speranza quale sarebbe stato, di una diversa e nuova miseria, quello del benessere136.

135 Leonardo Sciascia, Prefazione, in Ernesto Ferrero (a cura di), La mala Italia. Storie nere di fine secolo, cit. pp. V-VII.

Dunque, mentre una parte della critica accademica rimaneva convinta che lo «spirito» non avesse nulla a che fare con «l’industria»; altri accademici si mostrarono invece ben più attenti alle diverse produzioni narrative, ai «sedicenti problemi sociali» che le animavano e soprattutto al «prurito» che esse erano in grado di suscitare in larga parte dell’opinione pubblica. Si trattò di professori, almeno teoricamente, ben più avvezzi agli strumenti della fisiologia che a quelli della filologia, ma che ugualmente si dedicarono allo studio dei testi letterari: primo fra tutti, Cesare Lombroso.

Nell’introduzione a questo lavoro ci siamo già espressi in merito ai possibili rischi di una troppo agile dismissione del valore scientifico delle sue teorie. Ciò non significa che non si debba affrontare la questione del metodo, in buona parte eclettico e disordinato, col quale l’antropologo ha dato vita a una straordinaria mole di studi, rivolgendo spesso il suo sguardo alle opere letterarie. L’immagine di Lombroso come scienziato-romanziere, infatti, non è priva di fondamento e merita senz’altro di essere approfondita. Uno studioso come Renzo Villa, che non si può certo definire lettore disattento delle pagine lombrosiane, ha speso parole molto nette a riguardo, nel corso di un suo recente intervento su Il «metodo

sperimentale clinico»: Cesare Lombroso scienziato e romanziere, che così si conclude:

Lombroso scrisse, in definitiva, un grande palinsesto di romanzi da fare. C’è da chiedersi se questo romanzo, questo intreccio caotico che si tiene aggrappato a forza alla lineare fabula della criminogenesi, non narri la formazione, l’adolescenza della società di massa destinata a ben più torbida maturità137.

Altri studi meno recenti, ma ancora utilissimi, hanno sottolineato come l’apporto del genere romanzesco non si limiti solo alle figure di delinquenti, ma agisca complessivamente entro l’organizzazione retorico-narrativa della scrittura lombrosiana, costantemente sviluppata su di un’abile mescolanza dei registri espositivi138. Tale caratteristica è riscontrabile sia nelle

137 Renzo Villa, Il «metodo sperimentale clinico»: Cesare Lombroso scienziato, e romanziere, in Silvano Montaldo e Paolo Tappero (a cura di), Cesare Lombroso cento anni dopo, cit. p. 139.

138 Annamaria Cavalli Pasini, Tra eversione e consenso: pubblico, donne, critici nel positivismo letterario

italiano, Bologna, Clueb, 1989, p. 31. Sulla costruzione retorica del discorso lombrosiano si veda ora

l’Introduzione di Lucia Rodler in Cesare Lombroso, L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia,

pagine lombrosiane, sia in altre uscite dalla penna dei suoi seguaci. Se ci si sofferma ad esempio sulla già citata raccolta Il mondo criminale italiano è possibile osservare come i cronisti-curatori Augusto Guido Bianchi, Guglielmo Ferrero e Scipio Sighele,

oltre a ricorrere, per avvalorare le loro tesi, a paradigmi di stampo propagandistico, quali

dicotons, proverbi, aforismi famosi – secondo un procedimento tipicamente lombrosiano,

messo a frutto in questo periodo anche dalla letteratura – non esitano ad adottare nei momenti di massima tensione espositiva un linguaggio che non ha nulla da invidiare a quello appunto dei feuilletons, quanto a capziosità delle espressioni e a truculenza delle immagini (senza dire della sistematica iperinformatività lessicale, della presentazione di tipi più che di personaggi veri e propri, dell’estremizzazione di caratteri fisici e psichici…), attuandosi una perfetta osmosi tra codice culturale scientifico e codice culturale popolare139.

Ci aspetteremmo a questo punto di trovare in Lombroso un attento e appassionato lettore di romanzi giudiziari, polizieschi… insomma, di «roman criminel» in senso lato; che egli e i suoi colleghi divorassero avidamente le storie del Sue, di Gaboriau, e dei rispettivi filoni derivati. La cosa è in un certo senso vera: come vedremo, alcuni allievi dell’antropologo hanno riservato grande spazio ai Misteri di Parigi, considerandoli esemplari di come l’arte abbia saputo precorrere le conquiste della scienza. Anche Lombroso li cita, sin dalla prima edizione dell’Uomo delinquente, dimostrando di conoscere l’operato del maestro del

feuilleton, e di essere disposto a valutarlo anche positivamente, almeno in quelle singole

occasioni in cui la caratterizzazione dei personaggi del Sue corrisponde alle sue descrizioni antropologiche sui delinquenti140. Ma quella perfetta osmosi – che pure avvenne – tra codice culturale scientifico e codice culturale popolare, non si è data in maniera automatica, “naturale”, sin dalla nascita della nuova antropologia criminale.

139 Anna Maria Cavalli Pasini, Tra eversione e consenso, cit. p. 44.

140 Cesare Lombroso, L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle