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Il romanzo giudiziario dell’Italia postunitaria

Capitolo 2. Il romanzo giudiziario visto dai criminologi: fin de siècle

2.4 Scipio Sighele e la letteratura dei process

Ancor prima di Niceforo, un altro esponente di rilievo della scuola positiva si concentrò sulla letteratura giudiziaria, mettendone in luce una serie di elementi rimasti invece in ombra nell’analisi condotta da Enrico Ferri. Si tratta di Scipio Sighele, studioso particolarmente caro al padre della scuola penalpositivista, che infatti lo definisce (sempre nelle pagine de I

delinquenti nell’arte): «il mio allievo, nel quale ho veduto realmente trasfondersi e

rigermogliare più verde il mio pensiero scientifico»183. Nel suo studio intitolato Letteratura

tragica – ma che nell’edizione francese presenta la dicitura ben più significativa Littérature et criminalité184 – Sighele tenta di proseguire la strada già aperta dal maestro: verificare se i

«tipi di degenerati» presenti nelle opere di alcuni grandi romanzieri del tempo «rispondono o non rispondono alla verità scientifica».185 L’operazione, anche in questo caso, individuando precedenti (o contemporanei) illustri che afferiscono ad altre discipline, mira evidentemente alla costruzione di consenso attorno alle teorie scientifiche della nuova scuola: l’obiettivo esplicitamente perseguito è quello di qualificare l’avvento di tali teorie come esito “naturale” e necessario di un cammino – quello del progresso della civiltà – che arte e scienza avrebbero percorso nella stessa direzione.

L’arte e la scienza sono due fiumi maestosi che se hanno un corso diverso, hanno tuttavia un’identica sorgente e tendono a un’unica – invisibile e forse irraggiungibile – foce. Questa comunanza d’origine fra l’arte e la scienza si palesa evidente appena si voglia gettare uno sguardo sulla letteratura moderna. Che cosa ci sorprende in essa? Ci sorprende

183 Enrico Ferri, I delinquenti nell’arte, cit. p. 133.

184 Scipio Sighele, Littérature et criminalité, Paris, Giard et Brière, 1908. 185 Scipio Sighele, Letteratura tragica, Milano, Treves, 1906, p. 4.

il fatto che ogni romanzo e ogni dramma è uno studio di vizii piuttosto che di virtù, un’analisi di sentimenti anormali piuttosto che di sentimenti normali […].

Prendete il romanzo naturalista di Zola o quello psicologico di Bourget, prendete il simbolismo nordico o quelle perizie psichiatriche che sono i volumi di Dostojewsky, prendete infine tutta l’opera del nostro D’Annunzio, e dite se queste forme letterarie – con diversi mezzi e con diversi scopi – non rispecchiano tutte la patologia anziché la fisiologia del corpo sociale.

Perché? […] perché il movimento del pensiero moderno doveva necessariamente produrre questa conseguenza nel campo dell’arte. Non invano la scienza sperimentale ha combattuto la credenza del libero arbitrio, in cui si acquetava fin troppo comodamente la ricerca delle cause dei fenomeni umani. Delitto, prostituzione, vagabondaggio, alcolismo, ogni forma di miseria e di degenerazione, si ritenevano sino a non molti anni fa gli effetti della libera volontà dell’uomo: oggi la scienza afferma ch’essi non sono se non la risultante fatale di condizioni antropologiche e d’ambiente, sintomi dolorosi di malattie fisiche, benché pur troppo più difficili a curarsi che queste. […] anziché limitarsi a punire il vizio e il delitto con un inutile livore postumo di vendetta, bisognava cercare di spegnere i germi prima che essi fossero sbocciati – fiori velenosi – nel fango; e in quest’opera santa di prevenzione e di epurazione, solo l’artista poteva validamente aiutar lo scienziato186.

L’allievo, al contrario del maestro, evita di cimentarsi coi grandi classici del passato, concentrando invece la sua attenzione su alcune opere letterarie del XIX secolo: inizia quindi il suo studio valutando L’opera di Gabriele D’Annunzio davanti alla psichiatria e prosegue, nel secondo capitolo, analizzando Eugenio Sue e la psicologia criminale. Sull’assoluto valore dell’autore dei Mystères nella descrizione dei tipi criminali si era già soffermato, come si è visto, Enrico Ferri. Sighele dal canto suo rincara la dose, puntando in primo luogo sulla pagina di apertura del romanzo e in secondo luogo su una figura particolare di delinquente, denominato «maître d’école», che conviene riportare, poiché su di essa si spesero anche altre e più famose critiche, che in seguito avremo modo di citare187.

In Eugenio Sue, per esempio, noi troviamo un precursore dell'antropologia criminale. E non un precursore inconscio, come colui che per caso abbia intravvisto, attraverso lampi d'intuizione, la luce che dovrà poi illuminare perennemente; ma un precursore cosciente e direi sistematico che ha lucido dinnanzi lo scopo a cui vuol tendere e numerosi i materiali che serviranno alla sua tesi.

186 Ivi, pp. 7-9.

Nelle primissime pagine del più celebre fra i suoi romanzi egli espone il suo programma così: “io voglio cercare di mettere sotto gli occhi del lettore alcuni episodii della vita di altri barbari, tanto al di fuori della civiltà nostra, come le popolazioni selvagge descritte da Cooper”; e questi altri barbari sono i delinquenti. “Ces hommes ont des mœurs à eux, des femmes à eux, un langage à eux: langage mystérieux, rempli d’images funestes , de métaphores dégouttantes de sang. Comme les sauvages, ces gens s'appellent entre eux par des surnoms empruntés à leur cruauté, à leur énergie, à certains avantages ou à certaines difformités physiques ...”

Egli intuì cioè la distinzione fondamentale fisiologica e psicologica tra gli uomini che fanno il mestiere del ladro e dell'assassino, e gli uomini che cercano di lottare nella vita con mezzi onesti e normali. Egli intuì – anche – la causa di questa differenza: un arresto di sviluppo, che mantiene il delinquente in uno stato di selvaggia brutalità, mentre intorno a lui il mondo procede verso metodi di lotta sempre più miti. E i tipi ch’egli ci presenta rispondono non solo alle caratteristiche esteriori del tipo criminale e degenerato (che fin da allora era abbastanza facile improvvisare sulle orme di Grall, di Lavater, dell’Attomyr e dei loro seguaci), ma rispondono anche alle caratteristiche del temperamento criminale che, solo molto più tardi, gli studiosi riscontrarono esaminando i condannati nei luoghi di pena. Così il Maître d’Ecole (ladro e assassino) è descritto con esattezza lombrosiana, quasi che il Sue l'abbia veramente veduto in una prigione: “....ses yeux gris, très clairs, très petits, très ronds, étincelaient de ferocité: son front, aplati comme celui d’un tigre, disparaissait à demi sous une casquette de fourrure; sa tête, démésurement grosse, était enfoncée entre ses deux épaules larges, élevées, puissantes, charnues […] Ma non sono soltanto – com’io dicevo – le anomalie fisiche che il Sue nota con esattezza in quel mondo di delinquenti ch'egli crea e che evidentemente deve aver creato dopo un coscienzioso lavoro di osservazione su

documenti umani: sono anche le anomalie o le caratteristiche psicologiche di quegli esseri

eccezionali, ch'egli sorprende con felice intuizione188.

L’analisi prosegue quindi, nel suo terzo capitolo, concentrandosi su I delinquenti nei romanzi

di Emilio Zola e, dopo una disamina sull’esistenza della Suggestione letteraria come

concausa materiale nella proliferazione del delitto, approda finalmente, nel suo quinto e ultimo capitolo, allo studio della Letteratura dei processi. L’autore – va detto sin da subito – non utilizza mai la dicitura «romanzo giudiziario»; tuttavia sottolinea l’esistenza e la popolarità della produzione letteraria direttamente legata alla cronaca giudiziaria e alla Corte d’Assise: si sofferma insomma su quel dato più “dibattimentale” (e assai poco “poliziesco”) che era quasi del tutto scomparso dalla descrizione del romanzo giudiziario condotta da Ferri:

188 Ivi, pp. 98-102.

Se c’è un genere di letteratura oggi alla moda, è senza dubbio la letteratura dei processi. Questi drammi veramente vissuti che hanno il loro epilogo in Corte d’Assise interessano assai più dei drammi immaginarii che si rappresentano sui palcoscenici dei teatri. E noi li seguiamo nella stampa, - sia nella cronaca affrettata del giornale quotidiano, sia nel volume che è o pretende di essere imparziale e scientifico, - con una intensità che segna il ritmo della nostra ansia febbrile.189

Sighele si interroga quindi sulla natura di questa passione, chiedendosi se essa debba o meno essere assimilata alla ferocia degli antichi, che traevano godimento dalla visione della sofferenza delle vittime.

Soltanto, poiché noi diciamo di essere più civili – e siamo certo più intellettuali – il nostro delizioso e perfido godimento non si esercita contemplando le sofferenze fisiche ma analizzando le sofferenze morali. Oggi […] noi possiamo e vogliamo vedere e assaporare i contorcimenti psicologici, le angosce e le torture, gli abbandoni o le doppiezze dell’anima dei colpevoli, - e dai resoconto dei giornali, dai libri che frugano gli abissi più gelosi della vita dei delinquenti con la lucida e fredda impassibilità di un bisturi, noi sappiamo trarre non solo l’appagamento della nostra curiosità, ma anche una strana emozione egoisticamente felina190.

Solo i superficiali – precisa lo scienziato – potranno stupirsi o scandalizzarsi per questo carattere dell’animo umano, che sembra essere attratto assai più dalle nefandezze piuttosto che dagli esempi virtuosi. Tale «inconscio prestigio del male» (definizione che l’autore trae dalla scrittrice Dora Melegari191) può non assumere un valore forzatamente negativo, nel momento in cui si riesca a guardare al delitto e alle anomalie per meglio conoscere e raddrizzare se stessi; esattamente come i medici studiano le psicopatologie per «meglio comprendere la psicologia normale degli uomini sani»192.

189 Ivi, p. 246.

190 Ivi, p. 247.

191 La dicitura utilizzata da Dora Melegari è in realtà Il fascino del male, in Id. Il sonno delle anime, Milano, Treves, 1903, pp. 28-63.

Sennonché, […] oggi l’interessamento del pubblico per tutto ciò che è criminoso o degenerato ha assunto un grado altissimo e inverosimile, ha toccato quell’apice di esagerazione per cui può dirsi che siamo in presenza d’un vero fenomeno patologico. La letteratura dei processi – prima, durante e dopo il dibattimento – è diventata un fiume di cui nessun argine arresta la piena: i più inutili particolari assurgono all’onore di notizie interessanti, e le fantasie sbrigliate si compiacciono ad esagerarlo e ad acuirne il già forte sapore con abili allusioni e con più abili reticenze: così che di ogni processo celebre non solo si sa tutto – il che potrebbe anche essere un bene – ma si sa e si presta fede – e questo è il male – anche a quel cumulo di inesattezze che pullulano intorno alla pianta del delitto come i funghi all’ombra umida delle querce193.

2.4.1 La macchina giudiziaria e la rappresentazione del delinquente

È dunque esistita una «letteratura dei processi», ampiamente diffusa anche nell’Italia di fine Ottocento, non riducibile alla sola rappresentazione letteraria dell’indagine poliziesca, ma stretta in un legame ben più ampio e complesso tra Mondo giudiziario e riscrittura narrativa. Su questo punto l’analisi di Sighele194 è particolarmente interessante, poiché afferma non solo la necessità di leggere questa produzione letteraria ponendola in relazione alle trasformazioni degli ordinamenti e delle procedure giudiziarie, ma avanza l’ipotesi che l’«ingranaggio della nostra macchina giudiziaria» sia niente meno che la causa della nascita di questo genere di letteratura: che cioè il processo penale, nel modo in cui esso si configura nell’Italia post- unitaria, crei direttamente le condizioni materiali per cui possano generarsi, a partire da esso, un certo tipo di discorsi e scritture narrative e non altre.

COME SORGE LA LETTERATURA DEI PROCESSI.

Ecco la prima, la vera origine del male che lamentiamo: ecco perché nasce e ove nasce quella suggestione del delitto che si sviluppa e sale poi sino alle forme intellettualmente pericolose della letteratura dei processi.

193 Ivi, pp. 258-259.

194 Si tenga presente che Sighele pubblica questo suo studio reduce dal processo Murri, cui aveva preso parte come avvocato l’anno precedente: cfr. Scipio Sighele, Il processo Murri. Arringa dell’avv. Scipio Sighele, Riva di Trento, Miori, 1905.

La stampa che divulga questa letteratura, il pubblico che la divora, non ne hanno che una responsabilità relativa e secondaria: la responsabilità vera è dell’ingranaggio della nostra machina giudiziaria, che sembra fatto apposta per attirare a sé tutte le più malsane curiosità, per provocare tutti i commenti più cervellotici, per suscitare anche – talvolta – l’onda del sospetto, l’ira dei partiti, la nausea degli imparziali.

In nessun paese civile infatti […] le istruttorie durano così a lungo come da noi, e in nessun paese civile i processi arrivati alla luce del pubblico dibattimento impiegano così tanto tempo prima di giungere all’epilogo del verdetto195.

A questa altezza, come vedremo, anche un grande letterato come Carlo Dossi aveva già denunciato il proliferare incontrollato della letteratura processuale, definendola il terzo stadio di un un’epidemia che, allo stadio precedente, aveva invaso le colonne dei quotidiani e che aveva avuto la sua origine nelle cancellerie dei tribunali. Ma se il Dossi definì tale diffusione come un male tutto francese («gallica peste»196), Sighele ne individua quello che potremmo chiamare un “focolaio” tutto italiano e, se possibile, ancor più pericoloso.

La stessa Francia, da cui abbiamo copiato gli istituti giudiziarii e di cui abbiamo, per identità di razza e per temperamento, gli stessi costumi giudiziarii, - non ha mai dato lo spettacolo scandaloso di istruttorie che durano anni e di dibattimenti che durano sei, otto, undici mesi come in Italia [197].

[…] Non solo: ma poiché noi abbiamo ancora l’istruttoria segreta (e non pare che i nostri legislatori nel nuovo progetto di Codice di Procedura penale non vogliano troppo innovare questo istituto), il mistero che circonda l’opera del giudice e che è un pallido riflesso dei sistemi dell’Inquisizione, acuisce, insieme alla nostra diffidenza, la nostra curiosità, ed è fo[n]te di esagerazioni e di invenzioni, poiché è vecchio canone di quotidiana psicologia, che quando noi non possiamo sapere ciò che ci interesserebbe molto sapere, cerchiamo dare sfogo alla curiosità insoddisfatta […].

Ed ecco allora spuntare quella prima forma embrionale della letteratura dei processi, che è l’informazione o l’indiscrezione giornalistica. Che importa se l’istruttoria è per legge segreta? Pensano i giornali a renderla pubblica! […] Si capisce che quando – finalmente! – il processo celebre arriva in Corte d’Assise, vi arriva nelle condizioni d’una tragedia di un autore illustre di cui sia da tempo illustrata la première. L’ambiente è stato già lavorato

195 Scipio Sighele, Letteratura tragica, cit. pp. 263-264.

196 Carlo Dossi, La colonia felice. Utopìa lìrica, in Id. Opere, Dante Isella (a cura di), Milano, Adelphi, 1995 p. 525.

197 A supporto di tale affermazione l’autore non manca di riportare, in appendice al volume, una statistica comparata de Le istruttorie in Francia e in Italia, in ivi, pp. 283-287.

dalla réclame preventiva che ha solleticato l’interesse del pubblico: tutte le anime sono tese, tutti gli occhi sono rivolti verso lo spettacolo che sta per incominciare, dopo una messa in scena così lunga e faticosa.

E la rappresentazione – naturalmente – è degna della preparazione198.

Sull’effettiva riuscita della messa in scena, il già citato Processo di Frine di Edoardo Scarfoglio ci consegna un’analisi della “macchina giudiziaria” che apparentemente, pur basandosi sugli stessi elementi, sembrerebbe giungere a una conclusione di segno opposto: secondo Scarfoglio, proprio a causa della lunghezza e della segretezza della fase istruttoria, la fase di dibattimento si rivela essere una noiosa e ripetitiva rappresentazione, priva di novità, poiché tutto sarebbe già stato deciso dal giudice istruttore, unico vero «drammaturgo»199. Lo spettacolo del dibattimento si rivelerebbe dunque una procedura meccanica di scarso interesse, a meno che – come in effetti avviene nel romanzo – grazie all’interrelazione tra accusati, avvocati, giudici e pubblico, al continuo susseguirsi delle ri-narrazioni, non prenda avvio una sorta di seconda messa in scena, la quale, senza mettere in dubbio la dinamica dei fatti già accertati, ricostruisce in maniera inaspettata i suoi personaggi rendendo tutt’altro che scontato il giudizio finale su di essi.

In entrambi i casi, di fatto, è comunque possibile registrare un’ulteriore conferma della “teatralità” del processo (celebre): elemento su cui molto ha insistito la storiografia giuridica recente200 sottolineandone il valore in termini di formazione dell’opinione pubblica; e su cui

198 Ivi, pp. 264-267.

199 Edoardo Scarfoglio, Il processo di Frine, cit. pp. 41 e ss.

200 Aldo Mazzacane, Letteratura, processo e opinione pubblica: le raccolte di cause celebri tra bel mondo,

avvocati e rivoluzione, in Marcella Marmo e Luigi Musella (a cura di), La costruzione della verità giudiziaria,

Napoli, Cliopress, 2003; Luigi Lacchè, Una letteratura alla moda. Opinione pubblica, “processi infiniti” e

pubblicità in Italia tra Otto e Novecento, in Marco Nicola Miletti (a cura di), Riti, tecniche e interessi. Il processo penale tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 2006; Id, «L’opinione pubblica saggiamente rappresentata». Giurie e corti d’Assise nei processi celebri tra Otto e Novecento, in Paolo Marchetti (a cura di), Inchiesta penale e pre-giudizio. Una riflessione interdisciplinare, Napoli, Esi, 2007; Id, Un luogo costituzionale dell’identità giudiziaria nazionale: la Corte d’Assise e l’opinione pubblica (1859-1913), in Floriana Colao,

Luigi Lacchè, Claudia Storti (a cura di), Processo penale e opinione pubblica in Italia tra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2008; Giorgia Alessi, Il processo penale. Profilo storico, Roma-Bari, Laterza, 2001; Floriana Colao, La scena processuale. Cause celebri tra giustizia e politica, in Mario Isnenghi, Simon Levis Sullam (a cura di), Gli Italiani in guerra. Le «Tre Italie». Dalla presa di Roma alla Settimana rossa (1870-

pure si è soffermato – anche a partire da questo stesso studio di Sighele – chi ha sostenuto l’esistenza di un romanzo giudiziario italiano201, come genere letterario che non dovrebbe essere del tutto confuso con quello poliziesco. Anche perché, laddove il secondo si concentrerebbe sul personaggio del poliziotto lasciando in secondo piano la figura del delinquente – cosa che per Ferri costituisce il maggior difetto del genere – la letteratura dei processi sembrerebbe ribaltare del tutto le proporzioni di tale rapporto; cosa che comunque, per Sighele, costituisce un problema.

Dove invece l’influenza di quella letteratura che sale su dai processi come la nebbia dalle pianure acquitrinose e mefitiche, assume un carattere pericoloso è […] nel turbare e spesso anche nel pervertire il senso morale del pubblico, rendendo simpatico e quasi idealizzando il delitto anche di fronte alla maggioranza dei galantuomini. Questa perversione del senso morale – che va compiendosi adagio adagio dalla letteratura dei processi, e che è forse la più triste caratteristica dell’epoca nostra – avviene, o per lo meno incomincia, inconsciamente.

E incomincia con l’importanza eccessiva che i giornali e i libri che si pubblicano intorno ai grandi delitti e ai grandi delinquenti, dànno appunto alle figure di questi grandi delinquenti. Non ci si limita – come si dovrebbe – a raccontare il fatto e a dare i cenni più salienti della vita di chi l’ha compiuto. Si tesse una vera biografia, ove, vicino al particolare scientificamente utile, è il particolare inutile e sciocco: biografia che va […] dal racconto delle sue predilezioni letterarie, alla descrizione dei suoi vestiti e al nome del suo sarto […]. Il delinquente celebre, cioè, ha gli stessi onori dell’uomo illustre: ogni particolare che lo riguarda è divulgato alle turbe come fosse l’attributo di un semidio202.

Lo studio di Sighele dimostra dunque che anche la «letteratura dei processi», al pari dei romanzi giudiziario-polizieschi203 e di quelli dei bassifondi, per quanto non esplicitamente ricondotta all’interno del genere «giudiziario», fosse percepita già all’inizio del XX secolo come letteratura votata, in primo luogo, alla caratterizzazione del delinquente.

201 Sergia Adamo, Mondo giudiziario e riscrittura narrativa in Italia dopo l’Unità, cit. pp. 84-86. 202 Ivi, pp. 272-274.

2.4.2 Ancora una questione di egemonia

Ciò detto, il fatto che un sociologo criminale come il nostro, lamentasse questa centralità del delinquente come eccessiva e problematica, pone certamente qualche interrogativo. Si tratta infatti di uno studioso formatosi in quella «scuola penale» che intese studiare il delinquente in ogni suo aspetto, che l’aveva proclamato «protagonista» assoluto della giustizia penale e che proprio di questo spostamento dell’attenzione faceva il suo maggior vanto; una scuola il cui fondatore – e si trattava, per l’appunto, del maestro di Sighele – aveva creduto opportuno studiare il delinquente fin nelle opere letterarie. Stanti tutti questi elementi, verrebbe da domandarsi come mai il sociologo definì «pericolosa» la centralità di questa figura all’interno della «letteratura dei processi». Più precisamente, potrebbe sembrare strano che a lamentarsi dell’esistenza di queste «biografie» criminali, ricche di ogni sorta di particolari, sia proprio uno dei «giovani amici» di Cesare Lombroso, colui che più di ogni altro scienziato (almeno