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Il romanzo giudiziario dell’Italia postunitaria

Capitolo 2. Il romanzo giudiziario visto dai criminologi: fin de siècle

2.3 Il romanzo giudiziario secondo Enrico Ferr

Un primo e fondamentale contributo attraverso cui iniziare a rispondere a queste domande è senz’altro quello fornitoci dal giurista Enrico Ferri. Allievo di Lombroso e fondatore della cosiddetta “scuola penalpositivista”, Ferri fu assai più attento del maestro nel sottolineare le cause sociali della delinquenza, spingendo Lombroso stesso a ridimensionare l’importanza attribuita ai fattori biologico-ereditari nella sua teoria criminologica. Anch’egli si dedicò allo studio delle opere letterarie, ma a differenza del maestro, i cui contributi sul tema risultano sì costanti ma sparsi tra le sue varie e numerosissime pubblicazioni, l’allievo organizzò il suo

pensiero in un unico lavoro complessivo, I delinquenti nell’arte161, che risulta quindi di grande interesse per questa ricerca. La prospettiva utilizzata dal giurista per osservare la produzione letteraria è in buona parte corrispondente a quella già tracciata da Lombroso: sia nell’esplicito intento di legittimazione della propria «scuola»; sia nel porre a fondamento dell’intera indagine una ben precisa idea del delinquente, nel costante confronto con la quale si sviluppano le analisi delle varie opere. Il primo capitolo de I delinquenti nell’arte si apre in effetti con la definizione dei delinquenti «nella vita», descritti attraverso un lessico “igienista”, già utilizzato dall’autore per mettere a punto quel diritto di punire come difesa

sociale che avrebbe poi costantemente sorretto l’intera sua Sociologia criminale:

Nella vita, infatti, il fondo della delinquenza è costituito dall’innumerevole brulichio di quelli, che potrebbero dirsi i microbi del mondo criminale e che come i microbi del mondo biologico passerebbero inosservati e anonimi – comparendo, scomparendo e ricomparendo frettolosamente sulla lente abbastanza opaca delle udienze di pretura o dentro le mura più o meno ammuffite delle carceri – se poi la scienza non ne rilevasse di quando in quando le sconsolanti cifre statistiche segnalando tutta l’importanza sintomatica di uno stato di patologia sociale, poco avvertito dalla coscienza collettiva, solo perché è già passato allo stato cronico162.

In questo fondale grigio e indistinto, su cui l’occhio spesso dimentica di posarsi, è tuttavia possibile si staglino all’improvviso alcune figure delinquenti, che con forza irresistibile attirano su di sé lo sguardo del pubblico. Ferri comincia allora a chiedersi quali siano i meccanismi psicologico-sociali attraverso cui queste figure passano dalla vita reale alle opere d’arte e individua alcune tappe fondamentali di un percorso di adattamento tra registri narrativi differenti:

Certo non è da questo fondo grigio della delinquenza minuta e quotidiana che salgono quelle figure mostruose e pazzesche od anche geniali, che strombazzate prima con grande lusso di particolari esteriori dal giornalismo nella cronaca quotidiana e più tardi nella

161 Enrico Ferri, I delinquenti nell’arte, Libreria editrice ligure, Genova, 1896. Sull’interesse dell’opera, in particolare per gli studi di Law and Literature, si veda Daniele Velo Dalbrenta, La finzione più vera. Archetipi

letterari della devianza alla luce del pensiero penalpositivistico italiano, cit.

cronaca giudiziaria, colpiscono poi la fantasia di qualche artista e tramandano il loro tipo

nel dramma, nel romanzo o nel melodramma163.

Le tappe e le caratteristiche di questo percorso non sono tuttavia sempre valide e uguali a se stesse in qualunque area geografica o periodo storico. La rappresentazione della criminalità, il modo attraverso cui tale fenomeno è socialmente percepito, debbono essere osservati in relazione alle caratteristiche delle comunità di riferimento: cioè ridiscussi attraverso gli strumenti di una certa “antropologia culturale” – per nulla affine a come la intenderà Clifford Geertz – che Ferri non esita ad utilizzare.

Prima però di raggiungere la ribalta luminosa e raffinata della grande arte, il delitto, nelle sue forme aristocraticamente feroci o pietose, costituisce il plasma dell’arte popolare in alcune sue forme più caratteristiche. Di queste taluna resiste sempre, abbastanza vitale anche nel diffondersi della civiltà – e sono i drammi popolari. Qualche altra invece – sconfitta e cacciata dal giornalismo quotidiano e da quello illustrato – scompare rapidamente dai centri urbani, per lasciare qualche raro ed anemico suo saggio, ricomparire e trascinarsi ancora dinanzi alla meravigliata cerchia di ingenui spettatori in qualche remoto villaggio – e sono i cartelloni con le relative canzonette, portati in giro dal cantastorie, ultimi esemplari di una fauna artistica ormai scomparsa: così come, secondo la osservazione di Stanley, nel centro dell’Africa arrivano ora o sono arrivati da poco i fucili a pietra, già scomparsi nei paesi cosiddetti civili di fronte a più perfezionati ordigni fratricidi. Chi non ricorda infatti di avere, in qualche fiera o mercato, visto appeso ad una pertica un cartellone diviso in sei od otto riquadri, riempiti di figure più o meno energicamente espressive e generosamente colorite dall’ignoto Apelle, rappresentanti gli episodi più salienti di qualche dramma criminoso, che il cantastorie prima racconta in prosa e poi ripete con qualche cantilena più o meno accompagnata da scordati o sfiatati strumenti, abortivamente o decrepitamente musicali?164

Anche su questo tema, come si vede, Ferri di fatto riprende e prosegue la linea già tracciata da Lombroso: intende la cronaca e la letteratura «criminale» tardo ottocentesche come esiti di un percorso che aveva preso avvio dai canzonieri popolari; e che in qualche misura continua ad essere riconducibile agli «istinti» e alla scarsa sensibilità morale degli strati meno civilizzati della popolazione dei «centri urbani».

163 Ivi, p. 12 (il grassetto è nostro). 164 Ivi, pp. 12-13.

Il giornalismo per una parte coi minuti, prolungati resoconti della cronaca nera e della cronaca giudiziaria e per altra parte coi romanzi popolari in appendice, che novantanove volte su cento non sono che un intreccio fantastico di delitti combinati sopra un canevaccio comune, e sono una specialità commerciale della letteratura francese coi nomi famosi di Ponson du Terrail, Gaboriau, Zaccone, Montepin, ecc., il giornalismo ha sostituito le canzoni e i racconti a un soldo – colla dimostrazione del relativo cartellone – ed ha fornito una nuova materia ai drammi dei teatri popolari, che spesso non sono appunto, che la riduzione per le scene dei romanzi d’appendice.

E se anche, nelle città, l’istruzione e l’abitudine hanno ormai quasi del tutto eliminate quelle forme di emozionante e plastica partecipazione del pubblico a favore delle vittime sul palcoscenico o contro i loro tiranni e persecutori, è sempre ad ogni modo una grande attrattiva quella che sulla fantasia e la sentimentalità popolare esercitano i drammi a tinte forti e criminose, cui ora soltanto si comincia a vedere un surrogato vittorioso nei drammi ispirati alla palpitante questione sociale d’oggi165.

Ecco dunque un primo accenno al legame che si potrebbe istituire tra la letteratura del delitto e quella ispirata alla «palpitante questione sociale» (urbana): quest’ultima sarebbe nata come derivazione della prima, ma starebbe ormai prendendo il sopravvento su di essa. Questo, per lo meno, è quanto il giurista sembra augurarsi con tutto il cuore, ricordando i pericoli che il racconto del delitto aveva già prodotto in passato e sul finire del secolo continuava a dispensare, anche con l’aiuto di nuovi media.

E sarà un bene: perché non è certo una buona educazione popolare, quella che da tanti anni e sui teatri e nei giornali (e nei cinematografi) si è data e si dà col racconto e la esaltazione indiretta dei più atroci delitti […] con un eccitamento progressivo della pubblica curiosità, rinfocolante per suggestione incosciente gli atavici ricordi degli istinti criminosi, appena coperti dalla fresca vernice di una civiltà, ancora e sempre troppo impregnata di violenze individuali e collettive166.

Fatte queste premesse, Ferri entra nel vivo della questione, enunciando a chiare lettere lo scopo che anima l’intero volume: «il vedere se e come – in alcuni suoi tipi più celebrati e geniali di delinquenti – l’arte abbia col suo fascino descrittivo o precorse o seguìte, con fedele

165 Ivi, pp. 13-14. 166 Ibid.

intuizione del vero, le conclusioni da poco soltanto faticosamente stillate dalla scienza nello studio antropologico dei delitti e dei delinquenti»167. Affinché lo studio comparato possa risultare il più produttivo possibile, l’autore non manca di riportare alla memoria del lettore un prospetto riassuntivo della classificazione dei delinquenti teorizzata dalla nuova antropologia criminale: sia riprendendo le tipologie già avanzate da Lombroso; sia aggiungendovi le modifiche apportate dal Ferri stesso, in quella sua «classificazione bio- sociologica, accettata e confermata di poi da quasi tutti gli antropologi criminalisti» che si componeva attorno alle cinque figure fondamentali «del delinquente nato – del delinquente

pazzo – del delinquente per abitudine acquisita – del delinquente per impeto di passione – e

del delinquente d’occasione: tutti anormali, sempre, ma digradanti dalla maggiore alla minore anormalità»168. In relazione alla prima tipologia, l’autore sottolinea come fu proprio egli stesso a fornire un’importante ridefinizione del delinquente-nato, individuandone i fattori costitutivi non solo nell’inferiorità biologica, ma pure nella «pressione» dell’ambiente sociale.

È naturale e prevedibile quindi, che questo tipo di delinquente nato – perché soltanto ora dalla scienza posto in piena luce – non si riscontri di frequente nelle creazioni artistiche: appena il genio di Shakespeare, come vedremo or ora, nella figurazione dei suoi personaggi o quello di Dostoïevsky nella osservazione, purtroppo personale, dei forzati in Siberia o il talento di Eugenio Sue nell’osservazione dei bassi fondi parigini, hanno potuto, prima di Cesare Lombroso, delineare il tipo psicologico del delinquente nato; che però, dopo la creazione dell’antropologia criminale, è già entrato nell’arte contemporanea, specialmente per l’iniziativa di Emilio Zola169.

Ora qui non sta parlando precisamente di romanzo giudiziario, ma è bene notare l’importanza conferita ai Misteri di Eugène Sue, il cui nome compare accanto a quelli di Shakespeare e Dostoevskij, poiché giudicato non inferiore a questi, se non nell’arte del romanzo in generale, almeno in quella, più particolare, della rappresentazione dei delinquenti. Su questo punto evidentemente Ferri modifica la prospettiva tracciata dal maestro, sottolineando come – non solo in qualche aspetto marginale, ma nel loro complesso – i personaggi dei «bassi fondi» cittadini descritti nei Misteri siano strettamente legati a quel tipo di configurazione del delinquente prodotta da Lombroso tre decenni più tardi. A queste dichiarazioni non segue, a

167 Ivi, p. 15. 168 Ivi, p. 17. 169 Ivi, p. 19.

dire il vero, un capitolo dedicato all’analisi dei Misteri di Parigi; e la lacuna sarà colmata, come si vedrà tra breve, dall’allievo prediletto del Ferri. I delinquenti nell’arte concentrano invece la loro attenzione su altri autori, come ad esempio Shakespeare, Shiller, Hugo, Zola, Ibsen, Tolstoj, Dostoevskij e il D’Annunzio dell’Innocente; e oltre a questi non manca, invece, un intero capitolo dedicato a Il delitto nei romanzi e nei drammi giudiziari – Gaboriau

e Sardou170, su cui è bene concentrarsi in questa sede.

2.3.1 Centralità del poliziotto e marginalità del delinquente

Sin dalle sue prime righe l’analisi condotta dal Ferri presenta elementi significativi, in grado di interagire col dibattito attorno alla codifica dei generi «giudiziario» e poliziesco posto in essere dalla critica letteraria nostra contemporanea.

Alcuni anni fa ebbe gran voga un genere di romanzi giudiziari, di cui Emilio Gaboriau fu l’iniziatore, imitato poi da tanti altri, che – per le appendici dei giornali o per le biblioteche romantiche a buon mercato – avevano trovato un filone di emozioni artistiche da sfruttare presso il pubblico più numeroso.

Nel romanzo giudiziario però il delinquente rimane in seconda linea ed è quasi sempre una figura impersonale, una specie di manichino, messo in gioco soltanto per rappresentare un delitto misterioso. Il protagonista vero in tali opere d’arte è la polizia giudiziaria, personificata in qualche tipo di segugio fine e geniale, dalla logica sottile, dall’odorato squisito nella caccia all’uomo delinquente, in mezzo ed attraverso gli indizi più vaghi e in apparenza meno insignificanti di un delitto sanguinoso allora scoperto171.

Questa testimonianza sembra dare ragione a quanti hanno sostenuto e sostengono che il romanzo giudiziario non sia altro che una fase transitoria del genere poliziesco. Anzi, ci si potrebbe spingere ancora oltre, perché dalle parole di Ferri sembrerebbe che il romanzo giudiziario sia in tutto e per tutto equiparabile a quello poliziesco. Eppure, opere come Il

processo di Frine o Il cappello del prete sono state scritte e lette con un certo entusiasmo; e in

170 Ivi, pp. 69-83.

esse non si può certo dire che il delinquente sia messo in gioco solo per rappresentare un delitto misterioso. In effetti, nelle prime pagine del suo studio lo stesso Ferri, presentando la figura del “delinquente per abitudine acquisita”, definiva tale personaggio come poco frequente nella produzione letteraria, ma subito dopo precisava: «fuorché nei romanzi o drammi che abbiano per materia principale e caratteristica l’osservazione e la riproduzione del mondo criminale»172. Non possiamo sapere se egli, nel dipingere questa eccezione, pensasse anche alle opere da noi appena ricordate. In ogni caso, se ne deduce che, secondo Ferri, l’osservazione e la riproduzione del mondo criminale non sono affatto il tratto caratteristico del romanzo giudiziario; e che tale genere letterario nemmeno si costruisca attorno alla centralità del personaggio (del colpevole, o comunque dell’accusato, a fronte della scarsa importanza della trama, come sostenuto da Remo Ceserani e Sergia Adamo): anzi, proprio la manifesta incapacità di questi romanzi di approfondire la psicologia del delinquente, costituirebbe, nello stesso tempo, il difetto peggiore e la caratteristica fondamentale di questo genere di scritture, troppo concentrate sulla «trama indiziaria di una laboriosa istruttoria» giudiziaria:

La trovata artistica è per solito la stessa: la polizia che scopre un grave delitto e un agente, più astuto degli altri, che non si accontenta delle prime e più verosimili apparenze, ma con un indovinato lavorìo di induzione e di critica, dagli indizi iniziali, indica e prosegue un filone di ricerche meno ossequenti alla facile, ma ingannatrice verosimiglianza, per proseguirle nei meati più tortuosi e non facili della verità, alla fine dei quali sta la scoperta del reo.

[…] E questo genere di romanzi giudiziari era ed è veramente interessante almeno per le prime volte; giacchè dopo si ripete nei suoi dati ingegnosi ma poco variati, e non sorreggendosi poi ad una analisi e figurazione artistica delle passioni nell’uomo delinquente, non può mantenere in continua tensione l’animo del pubblico.

Tuttavia servono questi romanzi, per farsi un’idea, se non fotografica, certo approssimativa, per quanto idealizzata, del dietroscena poliziesco e giudiziario, specialmente nei paesi dove gli stipendi meno miserabili reclutano dei giudici istruttori e degli agenti di polizia, che non seguono svogliatamente l’orario quotidiano di un lavoro empiricamente automatico, e perciò non lasciano che più del 60 per cento dei delitti conosciuti non si possano colpire, per la mancata scoperta dei loro autori – ma compiono il loro ufficio pericoloso e difficile

172 Ivi, p. 23.

con vera passione o per disposizione istintiva dell’animo avventuroso o per i lauti guadagno che ne possono ricavare173.

Dichiarato lo scarso interesse nelle ripetizioni, Ferri si limita a citare, a sostegno di questa sua analisi del romanzo giudiziario, solo l’ “originale”: L’Affaire Lerouge di Émile Gaboriau. Non si fa alcun cenno alla produzione italiana, ma verrebbe da pensare che, secondo il giurista, essa facesse parte di quelle ripetizioni che poco o nulla si discostavano nelle loro caratteristiche da quelle opere (francesi) che fecero nascere il genere. Al di là delle specificazioni geografiche e a monte di ogni successiva considerazione, dai brani appena riportati ci sembra possibile trarre un’ulteriore conferma del fatto che il romanzo giudiziario fosse un genere complessivamente assai praticato e conosciuto, al punto che un penalista e sociologo come Ferri ha potuto interessarsene, senza preoccuparsi di dover giustificare la nomenclatura adottata per individuarlo, decidendo inoltre di ritagliare per questo genere letterario un capitolo apposito del suo studio, a fianco degli altri capitoli dedicati ai grandi autori della storia letteraria. Tuttavia, se su quest’aspetto le parole del Ferri risultano in qualche misura confortanti per la prospettiva qui adottata, ve n’è evidentemente almeno un altro che muove decisamente nella direzione opposta: da quanto si legge nei Delinquenti

nell’arte sembrerebbe proprio di dover confermare l’esattezza di quelle teorie che hanno visto

nel romanzo giudiziario una «preistoria del giallo»: un genere tutto incentrato sulla détection e sullo sviluppo di una trama intricata, nella quale soprattutto «il delinquente rimane in seconda linea», alla stregua di un semplice espediente, per di più marginale, all’interno di una macchina narrativa che non si pone realmente il problema della sua «figurazione artistica». Su questo punto, a dire il vero, la posizione di Ferri non rimase sempre la stessa nel corso degli anni. Ma poiché in questo frangente egli sostiene niente meno che l’esatto contrario di quanto noi intendiamo qui dimostrare – si trattasse pure di un’affermazione in qualche misura temporanea – è forse il caso di non aggirarla e discuterla invece immediatamente nei punti che essa solleva. Anche perché quella sorta di smentita, che in effetti Ferri operò verso le sue stesse posizioni, fu a ben vedere meno rumorosa rispetto alla loro affermazione, e forse anche meno convinta. Un primo sospetto in questo senso può sorgere se si considera il fatto che l’affermazione della marginalità del delinquente nel romanzo giudiziario ha luogo, attraverso le chiare e lapidarie parole che si sono lette, all’interno di quello studio importante e complessivo che Ferri dedica appositamente ai rapporti tra penalpositivismo e letteratura. Per

contro, la revisione di queste sue affermazioni avviene in una sede non esattamente dedicata alle questioni letterarie, trattandosi del discorso che il nostro penalista pronunciò alla Inaugurazione del XIV anno della Scuola di applicazione giuridico-criminale in Roma, poi pubblicato nell’«Archivio di antropologia criminale» del maggio 1925 e confluito l’anno successivo nella seconda edizione, «riveduta e molto ampliata», dei suoi Studi sulla

criminalità174. Il titolo dell’intervento è in ogni caso molto significativo per le questioni che andiamo qui trattando: Il protagonista nella giustizia penale.

Anche quest’anno parlerò io. Mentre negli anni passati i discorsi inaugurali segnarono notevoli affermazioni scientifiche: nel 1920 Grispigni parò della «responsabilità scientifica dei così detti non imputabili», nel 1921 De Sanctis illustrò «problemi e programmi della criminologia moderna» sostenendo la necessità di studiare il delinquente non solo nel momento statico (così com’egli è) ma anche nel momento dinamico (così com’egli sente, pensa vuole, agisce) e nel 1922 Niceforo parlò dell’«istruttoria giudiziaria nell’arte e nella scienza», documentando come gli artisti, nel romanzo giudiziario abbiano sentita la necessità di guardare, oltre che agli atti ed alle tracce materiali, alla personalità del delinquente.

[…] Il delinquente è sempre il protagonista nella giustizia penale, e quindi deve esserlo anche nella scienza criminale, così pel diritto penale come per la procedura, come per l’esecuzione della sentenza. È questa l’innovazione metodica che la scuola positiva italiana ha portato nella teoria e nella pratica della giustizia penale175.

Dunque Ferri, come sempre è stato, resta convinto che il delinquente sia e debba continuare ad essere il protagonista della giustizia penale. Ma se vent’anni prima, ricercandolo all’interno del romanzo giudiziario, lo aveva definito al massimo un «manichino»; ora sembra disposto ad accoglierlo, attraverso le osservazioni di Niceforo, tra i protagonisti di questo genere letterario. Non ci sarebbe alcun motivo di dubitare o problematizzare questo suo nuovo accoglimento, se non fosse che, sempre nel 1926, Ferri ripubblica anche un altro dei suoi passati studi, cioè proprio I delinquenti nell’arte: si tratta anche in questo caso di una seconda edizione «completamente rifatta», ma nella quale il capitolo sul romanzo giudiziario, quindi sull’assenza del delinquente tra i suoi protagonisti, resta del tutto invariato rispetto alla prima edizione dello studio. Insomma, dal momento che queste sue affermazioni sulla marginalità

174 Enrico Ferri, Studi sulla criminalità. Seconda edizione riveduta e molto ampliata, Torino, Unione Tipografico Editrice Torinese, 1926.

del personaggio delinquente continuano di fatto ad essere riproposte, anche dopo la loro parziale smentita, vale una volta di più la pena di prendersi il tempo necessario a discuterle. Sarebbe fin troppo facile, e colpevolmente fuorviante, rispondere al nostro penalista che il genere giudiziario non è riducibile ai soli romanzi alla Gaboriau, esistendo molti altri testi che