• Non ci sono risultati.

Per una ridefinizione del romanzo giudiziario postunitario

3.3 Giudiziario e poliziesco: un’ideologia coerente

Ci riferiamo allo scrittore Giulio Piccini, in arte Jarro, e alla sua trilogia di romanzi ambientati a Firenze, usciti per la collana della «Biblioteca Amena» di Treves nel biennio 1883-1884:

L’assassinio nel Vicolo della Luna, Il processo Bartelloni e I ladri di cadaveri. I primi due,

come abbiamo visto, presentano una struttura narrativa diversa dal giallo, poiché gli eventi, noti al lettore sin dall’inizio, sono raccontati più volte nel corso del processo, mentre il terzo romanzo rappresenta una variante narrativa più vicina al poliziesco.

Ma a ben vedere, la prossimità tra giudiziario e poliziesco si verifica anche all’interno dei singoli romanzi e già dal primo della serie. Per Jarro, il racconto del processo e quello dell’indagine – dunque, i problemi della giustizia e quelli della polizia – non sono due cose separate, ma parte di un medesimo oggetto.

Sopra tutto, nel mio romanzo, è descritta la vita intima fiorentina nel 1830 e in quel torno, sono descritti gli ordinamenti di quel tempo: presidenza del buon governo, birri, tutto il riposto ordinamento della polizia toscana, che fu tolto a modello nel riordinare la polizia

312 Ivi, p. III.

inglese. E minutamente ho descritto lo svolgersi delle forme e gli aspetti di un processo alla Rota Criminale, il Tribunale di allora313;

Il protagonista della serie è il “birro” Lucertolo: un personaggio singolare, devoto alla sua professione ma non alieno dal crimine, anzi in stretta continuità col mondo criminale. Nel primo romanzo, il colpevole dell’assassinio è un membro del corpo dei pompieri fiorentini, tuttavia viene incolpato, in quanto in possesso dell’arma del delitto, un innocente: Nello Bartelloni, un «mezzo idiota» del Ghetto:

Incontanente al violino si accompagnò una voce, una voce strana, tremante, capricciosa, la voce di un uomo in demenza.

Chi cantava era Nello Bartelloni, mezzo idiota, e parente del famoso ladro Picchiero, ospite cosi assiduo delle carceri criminali fiorentine. Era Nello Bartelloni, che abitava una specie di covile in Piazza della Luna, a pochi passi dalla stanza dove si trovava Antonietta. Il giovinastro melenso viveva di doni, di elemosine; passava una parte della giornata seduto su una seggiolaccia dinanzi alla porta della sua tana, dondolandovisi di solito per ore intere: interrotto di tanto in tanto dalla tosse, o preso dal sonno.

Come altri mentecatti suoi pari, aveva una straordinaria smania pei metalli, raccoglieva, in strada i bottoni, i pezzi di vetro, di ferro, gli oggetti luccicanti. Ed aveva una qualità che si nota pure in molti poco sani della mente, una passione focosa per la musica314.

L’identikit che ne tracciano gli agenti di Pubblica Sicurezza è a sua volta piuttosto eloquente:

Tre agenti presero nello stesso istante la parola.

- Uno alla volta - disse lo scrivano; e indirizzandosi al Matto [315], gli ordinò che parlasse per il primo.

- Io - egli cominciò - conosco l'arrestato. - Il suo nome?

- Nello Bartelloni. - La professione? - Vagabondo.

313 Jarro [Giulio Piccini], L’assassinio nel Vicolo della Luna. Quarta edizione riveduta e corretta con prefazione

dell’autore, Treves, Milano, 1906, p. V, citato in Maurizio Pistelli, Un Secolo in Giallo, cit. p. 32.

314 Jarro [Giulio Piccini], L’Assassinio nel Vicolo della Luna (1883), Milano, Treves, 18912, p. 6. 315 «celebre birro, conosciuto con tal nome per le sue stranezze, per il suo ceffo stravolto», ivi, p. 44.

- I precedenti?

- Pessimi - rispose il birro. - Io l’ho già arrestato un’altra volta.... e una volta è stato arrestato da Lucertolo.

- Specificherete queste dichiarazioni, durante l’inquisizione, allorché sarete chiamato d’innanzi al cancelliere316.

Il secondo romanzo è interamente dedicato al processo contro Bartelloni. Il poliziotto Lucertolo, ora promosso a capo agente, riesce a dimostrarne l’innocenza, a danno del vero colpevole, che nel frattempo è entrato a far parte del corpo di polizia. L’impianto narrativo si modifica invece nel terzo romanzo, I ladri di cadaveri: Lucertolo ha fatto carriera, è ormai diventato commissario, e riuscirà egli solo, dando prova delle sue capacità di ragionamento induttivo, a fronte dell’ignoranza della verità da parte del lettore, a sciogliere gli intrighi che nascondono un nuovo delitto, commesso stavolta da una nobildonna fiorentina.

Esiste infine un quarto romanzo della serie, La figlia dell’aria, uscito sempre nel 1884. Il nostro commissario è ora affiancato da suo figlio, anch’egli poliziotto (guardando alla saga nel suo insieme verrebbe da parlare, a questo punto, di romanzo di formazione del poliziotto). Anche qui si assiste a un elevamento sociale dell’ambientazione, che riguarda però un’altra città italiana: il commissario e suo figlio dovranno svolgere le loro indagini su una misteriosa casa frequentata dalle signore della nobiltà e della borghesia milanesi. Come segnala Maurizio Pistelli, la redazione di questo romanzo non è preceduta da quel lavoro di ricerca sul campo che aveva caratterizzato i volumi precedenti: «la descrizione della città lombarda appare di conseguenza affrettata e superficiale ed è forse per tale motivo che il romanzo risulta meno convincente ed efficace rispetto agli altri tre»317.

Pare insomma che la figura del delinquente subisca un notevole cambiamento nel (rapidissimo) corso dei quattro romanzi, e che esso ben corrisponda a quella parabola di elevamento sociale così ben descritta da Foucault. Ma a ben vedere, l’evoluzione – se così la si vuol definire – verso una struttura narrativa più poliziesca, dunque verso una concezione del delitto come lotta tra puri ingegni (borghesi), non segnala affatto una diminuita ossessione verso «l’armata del crimine».

316 Ivi, p. 59.

3.3.1 I «selvaggi d’Europa»

Sempre nel 1884 e proprio sulla minacciosa presenza delle «classi pericolose» nei bassifondi della città toscana che fino a quel momento era stata l’ambientazione prescelta dei suoi romanzi, Jarro ripubblicò per la seconda volta il volume Firenze sotterranea. Appunti, ricordi,

descrizioni, bozzetti318: si tratta di un romanzo-inchiesta sulle degradate condizioni dei tre quartieri più poveri dell’ex capitale, ossia il Ghetto, San Frediano e Santo Spirito).

Si parla di oppressi, di gente da migliorare e difendere, noi abbiamo, tra noi, una classe di oppressi, sì negletta, sì bisognosa, che sarebbe urgente soccorrere; abbiamo, in certe grandi città, coloro che io chiamo i selvaggi d'Europa, gente che prova della legge le pene e non il beneficio: gente che non ha né vesti per cuoprirsi, né pane per nutrirsi, né ricetto ove trovi aria sufficiente a respirare: gente dannata dalla ingiustizia, o dalla imprevidenza di chi dovrebbe pensare a educarla, a raddrizzarla, alla precoce distruzione fisica e — ciò ch'é più irrimediabile per noi che crediamo con tutta la forza del nostro sentimento nella Immortalità— alla distruzione morale319.

Anche in questo caso, come già nei romanzi di Sue e Gaboriau, la funzione principale del racconto è presentare i delinquenti come estremamente lontani e allo stesso tempo vicini, dunque esotici e allo stesso tempo familiari.

Nella casa detta del sottoboia alloggiano di notte pregiudicati, reduci dal domicilio coatto: e vi stanno pur da anni uomini, che sono vecchi tipi di scaltrezza e di originali bizzarrie. […] Vi credereste a mille miglia da Firenze! Laggiù si raccoglie la tribù degli spazzaturai girovaghi, non pochi dei quali hanno già esercitato mestieri ancor meno puliti, e sono in pratica alla polizia320.

318 Jarro [Giulio Piccini], Firenze sotterranea. Appunti, ricordi, descrizioni, bozzetti, Firenze, Ricci, 1884. La prima edizione fu stampata sempre a Firenze dall’editore Le Monnier nel 1881.

319 Jarro [Giulio Piccini], Firenze sotterranea. Appunti, ricordi, descrizioni, bozzetti, Firenze, Bemporad, 19004, p. XXI. Le citazioni della Firenze sotterranea qui di seguito riportate si riferiscono tutte a questa quarta edizione nella quale, oltre a un nuovo Proemio, compare anche la Prefazione alla terza edizione.

Dal canto suo, l’autore non manca di evidenziare la buona fede dell’iniziativa, che dovrebbe servire ad attirare l’attenzione sul problema:

Questo è il nostro amore per il popolo! Ci è una classe miserrima, malata, senza beneficio d'istruzione e di educazione. Ci pensate voi? No, perché vi pare argomento troppo spicciolo.

Nel Ghetto di Firenze avete comportato si raccogliessero a poco a poco tre o quattrocento furfanti. Molti hanno tocco la galera, quasi tutti la prigione. Si son veduti uomini e donne uscir dagli ergastoli, rintanarsi là, far proseliti, metter su scuole di borsaiuoli: si son vedute famiglie buone, incontaminate, cedere al contagio e piangere al primo figliuolo sviato, poi a poco a poco abbandonarsi al delitto. E chi è andato in cerca di queste anime che si perdevano? Nessuno. Chi è entrato là de’ filantropi, che acciuffano croci, e propine, a emendare, correggere, confortare gli sciagurati? Nessuno. Si è mai udita alzarsi una voce, che energicamente disvelasse una sì grave iattura, rispetto all’igiene e alla morale?

Eppure in quel Ghetto sono accadute orribili cose: e non si spiega come proprio nell’umbilico della città, abbiate potuto lasciar formarsi un luogo di tante brutture e unirsi tanti malvagi. Tre o quattrocento bricconi, usciti da luoghi di pena, che han sostenuto tutti gran numero di condanne, stanno accasati a due passi dall’Arcivescovado, dal Duomo, dalle strade più signorili della città.

Il tanfo, il fetore, ogni maniera di sudiciume, stanze, che servono di camere e in un di latrina a dieci e quindici persone, tutto vi si riscontra che può da un momento all’altro mettere in pericolo la pubblica salute.

Uomini, donne, bambini, cani, stanno ammontonati gli uni sugli altri: cani irsuti, coperti di sanie e d’insetti ve n’ha a decine per que’ corridori fetenti, accoccolati per que’ pavimenti fracidi, per quelle buche mezzo diroccate.321

Ma quali siano le reali conseguenze di questo sterminato «amore per il popolo» è facile stabilirlo, poiché Jarro non ne fa certo mistero. A suo avviso, il Ghetto è abitato da due gruppi di individui, poveri e delinquenti: e dal momento che i secondi contagiano i primi, l’unica soluzione è evacuare il quartiere, radere al suolo e ricostruire. L’anno successivo, nella

Prefazione alla terza edizione dell’opera, l’autore può gioire del grande successo ottenuto:

Il Ghetto è sgombrato.

Quello che io domandava nel mio libro è dunque, in parte, ottenuto.

321 Ivi, pp. 97-98.

La verità di ciò che io diceva è apparsa lampante, inoppugnabile agli stessi ufficiali della Polizia municipale, che dettero mano, non senza bell’accorgimento, allo sfratto, e persuasero con le buone ad andarsene una popolazione, in parte riottosa, in parte facile ad esse sommossa da gente, che tra di essa viveva d’ogni specie di garbugli.

Lo credereste? Io ho assistito agli sfratti, e ho veduto molta di quella gente andarsene via con le lacrime agli occhi, rimpiangendo i loschi tugurii che abbandonavano.

- Si stava qui tanto bene! -322

Nella quarta ed ultima edizione, assieme alle illustrazioni del pittore «orientalista» Fabio Fabbi323, che interpretano il testo con «occhio fotografico e trasfigurato insieme»324, compare anche un nuovo Proemio, in cui l’autore ritorna sulla questione dello sgombero, rinnovando le sue lodi per le scelte compiute dall’amministrazione cittadina.

L'aver distrutto l'antico Centro di Firenze fu la più bella tra le opere compiute in servigio della cospicua città, nel secolo. E a molti ne spetta la lode, ma due vanno singolarmente ricordati: il marchese Filippo Torrigiani, assessore per la polizia municipale, quando fu ordinato lo sgombero del Ghetto, e che seppe spiegare tanto accorgimento, fra inenarrabili difficoltà; il marchese Pietro Torrigiani, che, come cittadino, come uomo di cuore, come sindaco, con energia mirabile, combatté e superò ostilità d’ogni maniera325.

322 Ivi, p. 3.

323 Rossana Bossaglia, Gli orientalisti italiani. Cento anni di esotismo (1830-1940), Venezia, Marsilio, 1998; Fabio Fabbi, oltre ad essere stato uno dei pittori ufficiali del Kedivè d’Egitto, fu anche illustratore di decine di volumi di letteratura italiana, dai più classici ai più popolari. Così Antonio Faeti, sulle sue illustrazioni ai romanzi salgariani: «pittore raffinato e colto che viaggiò e dipinse a lungo proprio nei luoghi salgariani e che seppe profondere nei libri dello scrittore una particolare ed aggraziata atmosfera di sogno orientale, nella quale i brandelli esatti e dettagliati di un mondo esotico, reso con occhio partecipe e ispirato, si fondono con una dolcezza che deve molto, per esempio, ad Armando Spadini o ai “chiaristi” italiani. Fabbi ha “visto” il mondo salgariano da un angolo particolare, che è già frutto di una proustiana memoria, simile a quella di cui dà conto Cesare Pavese, attento lettore delle avventure di Sandokan, quando dice: “Oh da quando ho giocato ai pirati malesi quanto tempo è trascorso”», Antonio Faeti, Guardare le figure, gli illustratori italiani dei libri per

l’infanzia, Roma, Donzelli, 2011, p. 164. La citazione de I mari del sud pavesiani con cui si apre Lavorare stanca è tratta da Cesare Pavese, Poesie, Torino, Einaudi, 1961, p. 6.

324 Paola Pallottino, Storia dell'illustrazione italiana : libri e periodici a figure dal XV al XX secolo , Bologna, Zanichelli, 1988, p. 190.

È da notare che la seconda edizione della Firenze sotterranea fu pubblicata nel 1884, lo stesso anno de I ladri di cadaveri, e che essa riserba un intero capitolo a quel Vicolo della Luna in cui sono ambientati i due precedenti volumi “giudiziari” dello stesso autore. Non è quindi un’operazione arbitraria leggere quei romanzi – e gli altri successivi, più “polizieschi” – in relazione a questa campagna politica. Anzi, ci sembra che il vero valore (letterario e politico) della seria giudiziaria sul «birro» Lucertolo possa essere colto fino in fondo solo mettendola in relazione a quest’altro romanzo, per nulla processuale né poliziesco, ma altrettanto vincolato all’ossessione dell’«armata del crimine».

D’altra parte, Jarro non è l’unico caso in cui si possa rilevare uno stretto legame tra immaginario poliziesco e quello dei bassifondi cittadini. Esemplare in questo senso è anche ‘L

cit d’vanchija: romanzo giudiziario, firmato dall’avvocato Alessandro Giuseppe Giustina326 sotto lo pseudonimo di Ausonio Liberi. Il protagonista del romanzo è Antonio Bruno, «il delinquente del borgo di Vanchiglia», ultimo e «più fortunato capo della Cocca», ossia dell’associazioni di malfattori «che negli anni addietro gettò terrore e spavento» 327 per la città di Torino. Oltre ai delinquenti, non manca la figura del poliziotto «segugio», anche questa volta tutt’altro che estraneo al mondo criminale:

[il signor Curletti] Era nato per essere il vero segugio di questura. Occhi piccoli e mobilissimi, fronte spaziosa, viso oblungo di colore alquanto abbronzato. […] Era nato e crebbe in mezzo ad un fascio di gente beata d’ogni vizio [,] senza fede, senza rimorsi, senza ritegno del male. […] Simulava e dissimulava maestrevolmente e nella concezione di delittuosi disegni potea menar vanto di avere il primato. […] dalla sala del blasonato signore, dal gabinetto particolare del questore passava alla taverna ove stringea la mano al Gervasio e Cibolla, a Tanino e con essi acuiva lo sguardo nel disegno di qualche aggressione, di qualche fatto di sangue. Prendeva parte negli utili e forniva a quei malandrini il mezzo di assicurarsi l’impunità. Ecco chi era costui che eccitava gli altri al

326 «Alessandro Giuseppe Giustina (Ausonio Liberi), avvocato, giornalista, romanziere veronese, nato nel 1860, risiedente a Torino, dove fondò e dirige l’importante Cronaca dei tribunali, periodico giudiziario assai diffuso e stimato. Oltre alle sue notevoli pubblicazioni giuridiche, ci ha dato: La sepolta viva; I Misteri di Torino; Il

Ghetto; Il ventre di Torino; Le recluse del convento; Storia di un infelice; ’L Cit d’Vanchija; Sogni dorati. –

Fondò e diresse il Romanziere popolare, il Gesù Cristo, grido anticlericale, e pubblicò vari numeri unici che levarono rumore: Torino-Cuneo, parodia della “Stampa subalpina”, Il calamaio di Sbarbaro, parodia della

Penna, ecc.», Teodoro Rovito, Dizionario dei letterati e giornalisti italiani contemporanei, cit. p. 125.

327 Ausonio Liberi [Alessandro Giuseppe Giustina], 'L cit d'Vanchija. Romanzo giudiziario, Torino, Candeletti, 1878, pp. 5-6.

reato per goderne i proventi e talvolta nel dividere il bottino lasciava ad ugne vuote chi avea lavorato328.

Ma soprattutto è importante notare come l’incipt di questo romanzo giudiziario sia proprio la descrizione dei bassifondi torinesi e dei delinquenti che vi abitano - descritti, tra l’altro, con evidenti richiami alle teorie lombrosiane.

Il Moschino sorgeva in quella parte della nostra città ove oggi sonvi i murazzi lungo Po e servono di retroscena al lungo viale di San Maurizio, il quale divide la città dal borgo di Vanchiglia.

Il Moschino formato da un mucchio di catapecchie e casaccie, le cui mura screpolate ed annerite dal tempo, minacciavano di crollare ad ogni istante; era la fortezza di uomini tristi, nemici dell’ordine, avidi dell’altrui, sitibondi di sangue e spinti da un feroce istinto al mal fare.

Là stavano a confine, il delitto, la miseria, la prostituzione. Alle più scandalose turpitudini in questa morta gora del vizio succedevano i crimini più nefandi, i reati di sangue più orribili. Là nacque, la si ramificò, là fu grande e temuta la Cocca. Anche nel male si verifica la grande potenza che risulta dall’associazione, perché nell’unione di anime perverse bolle quel malefico fermento che genera le atrocità le più inaudite, le più maledette.[…] Nemmeno le guardie di P.S. osavano slanciarsi innanzi e dar di cozzo nelle fitte schiere dei malfattori. […] Erano uomini delinquenti dalla culla e che vivevano a famiglia col catechismo della Cocca per evangèlio. Non mancavano le Frini da pochi soldi, nate per vendere se stesse e facilitare così con un sorriso contratto la vendita altrui.

Siamo qui nel teatro del gran dramma sociale; ne vedremo la genesi, lo svolgimento e seguiremo passo passo i personaggi fino alla catastrofe329.

È evidente come queste descrizioni provengano direttamente dalla prima pagina dei Mystères già più volte citata: e poco importa che si possa avanzare qualche dubbio circa l’effettiva somiglianza dei rispettivi bassifondi. Anzi, è ancor più interessante sapere Jarro, con la sua

Firenze sotterranea, riuscì nell’impresa che Carlo Lorenzini (Collodi) non aveva saputo a

compiere fino in fondo: cioè scorgere i quartieri dove «i regolamenti municipali sono lettera morta»330 e la polizia non entra «se non a squadre di dodici o quattordici uomini», poiché «vi

328 Ivi, pp. 36-37. 329 Ivi, pp. 8-11. 330 Ivi, p. 35.

pullulano i ladri, i manutengoli, vi brulica la marmaglia, la bordaglia, la schiuma, il marame della popolazione, insieme accozzato»331. Tutto questo in una città che almeno fino a trent’anni prima, secondo Lorenzini, semplicemente non aveva misteri332, dominata com’era dal pettegolezzo333, e che aveva costretto il futuro autore di Pinocchio ad interrompere al primo volume le scene sociali dei suoi Misteri di Firenze334. In ogni caso, se si guarda alle riscritture italiane dei “misteri” nel loro complesso pare che i fallimenti fossero ben più rari dei successi.