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Il romanzo giudiziario dell’Italia postunitaria

Capitolo 1 Il romanzo giudiziario e la critica: ogg

1.4 Una questione non solo letteraria

A questo punto è necessario fare alcune precisazioni e introdurre alcuni elementi che contribuiscono a complicare ulteriormente la situazione. In primo luogo, ciò che per Petronio costituisce l’inizio di una direzione certa, non è l’unico orizzonte verso cui orientare la lettura dei vari strati della narrativa postunitaria. Esiste, come già detto, un orizzonte prettamente giudiziario, che riguarda le letterature di vari paesi; che precede l’avvento del poliziesco e continuerà ad esistere assieme a (o secondo alcuni indipendentemente da) esso. Ma soprattutto, esiste una linea giudiziaria specifica e peculiare della letteratura italiana. A disegnarla, ancora una volta, è Sergia Adamo in un suo recente intervento101, nel quale rintraccia un filo rosso che collega varie opere della produzione italiana, a cominciare (almeno) dalla Storia della Colonna infame, passando per i testi di Leonardo Sciascia e giungendo fino alle più recenti opere letterarie (o teatrali) di Carlo Lucarelli e Marco Paolini. Com’è facile sospettare, il tratto che accomuna queste narrazioni non sta più tanto nell’uso che essi fanno dei meccanismi processuali in senso stretto (dibattimentali o inquisitori che siano), quanto nel loro continuo interrogarsi sul rapporto tra giustizia, letteratura e memoria: precisamente, attorno alla possibilità di «dar voce al Dimenticato e alla sua domanda di giustizia»102. Certo, la letteratura più prettamente processuale così diffusa nel periodo postunitario – e di cui proprio la Adamo aveva sottolineato l’importanza – mantiene una funzione non secondaria anche in questa nuova prospettiva. Ma non è sul terreno della rappresentazione del dibattimento che sarà possibile cogliere una continuità o comunque un dialogo fruttuoso con le opere del secolo successivo.

Infatti, già nei primi anni del Novecento, pur in presenza di un interesse sempre alto per il clamore suscitato dai dibattimenti di processi celebri, il dato più significativo è che si configura una problematica tensione fatta di domande aperte verso la giustizia in sé, piuttosto che sulla concretizzazione spettacolare del processo, il quale si sposta verso altri mezzi di comunicazione: il giornale, la cronaca, certo, come in passato, ma poi sempre più il teatro, il cinema, infine la televisione103.

101 Sergia Adamo, La giustizia del dimenticato: sulla linea giudiziaria nella letteratura italiana del Novecento, cit.

102 Ivi, p. 262. 103 Ivi, p. 265.

L’essenza giudiziaria di questa linea letteraria – particolare e propria della cultura italiana – risiede invece nel fatto che essa affronta il tema della giustizia inquadrandolo sempre più come un «problema di trasmissione e di oblio»104. Questo per dire che esistono anche altre direzioni verso cui tendere il filo che attraversa romanzi come Il cappello del prete e Il

segreto del nevaio.

In secondo luogo, anche decidendo di percorrere quella linea che porta al «romanzo poliziesco positivista, convinto dell’oggettività del reale (quale che sia: fisico, psicologico, sociale)»; che «in modi immaginifici (artistici) divulga l’ideologia scientista del tempo»; che sostituisce «ai misteri degli inferni delle grandi città» un enigma risolvibile con l’esercizio della ragione; anche in questo caso è necessario precisare alcuni elementi. L’esistenza di un poliziesco positivista non è un dato che si sia verificato d’emblée: ciò che viene definito «principio» e che potrebbe sembrare un punto neutro e originario, non si è dato se non storicamente come risultato, esito di relazioni complesse tra diversi campi del sapere e dell’opinione pubblica in generale. Che anche in Italia, almeno da un certo momento in avanti, si sia cristallizzato un genere poliziesco ben definito, è un fatto non contestabile. Il punto è però come si debba leggere, quindi quali aggettivi sia meglio utilizzare per descrivere quella fase che lo ha preceduto e che ha in qualche modo aperto alla possibilità che si creasse un tipo di struttura narrativa con quelle caratteristiche. Si badi dunque agli aggettivi scelti per descrivere tale percorso.

Ma per chi ha presenti […] quei tanti elementi costitutivi della società del secondo Ottocento, la nascita, allora e in quei modi, della narrativa poliziesca è così naturale come quella del romanzo storico una cinquantina di anni prima

[…] La disumanizzazione dei personaggi, la mancanza di sottolineatura delle passioni, l’indifferenza al paesaggio, l’assenza, in libri fondati sull’omicidio, di tratti orrorosi. Ma è naturale: elementare, lettori, elementare!105

Ciò che invece guida questa nostra ricerca è la convinzione che lo svilupparsi della narrativa postunitaria (nei suoi vari «strati» o sottogeneri, quindi la «giudiziaria» così come la «poliziesca»), il suo formarsi allora e in quei modi, sia stato «naturale» nella stessa misura in

104 Ibidem.

cui è concesso di esserlo a ogni processo storico, e cioè in misura nulla. Perché se è vero che tra il romanzo poliziesco e «l’ideologia scientista» positivista esiste senza dubbio un rapporto, anche quando questo rapporto si è dato nei termini della concordia e del rilancio reciproco, ciò non è avvenuto per cause naturali, bensì all’interno di strategie politico-culturali volte a promuovere una certa idea di giustizia e di organizzazione sociale. Ma soprattutto, come vedremo nel prossimo capitolo, in alcuni casi gli ideologi scientisti osservarono i romanzi in questione – quelli più processuali così come quelli centrati sul detective – con uno sguardo molto critico ed ostile, arrivando a denunciare persino la pericolosità sociale di questa letteratura, in ordine al turbamento della morale comune. Cosa che da sola basterebbe a confutare la naturalezza del suddetto rapporto. Più precisamente, gli scienziati positivisti, cioè coloro che più di ogni altro lavorarono per diffondere l’ideologia scientista, seppero talvolta scagliarsi contro il romanzo poliziesco, o derubricarlo rapidamente come soggetto poco interessante, proprio a causa della «disumanizzazione dei personaggi», della «mancanza di sottolineatura delle passioni» del delinquente, e della sua psicologia.

Perché il genere poliziesco si è costituito e si è diffuso così largamente in quel determinato momento della nostra attività? Che cosa era successo o stava succedendo nella civiltà occidentale (negli Stati Uniti di Edgar Poe, nell’Inghilterra di Conan Doyle, nella Francia di Émil Gaboriau) perché il genere nascesse e attecchisse? Quali mutamenti nelle strutture sociali, nell’organizzazione della vita associata, nelle attese del pubblico ne avevano provocato, allo stesso tempo, un’offerta a così alto livello e un accoglimento tanto entusiastico?106

Al di là di alcuni aspetti delle risposte fornite da Petronio, queste sue domande ci sembrano ancora le più giuste e interessanti attraverso cui interrogare la letteratura giudiziaria postunitaria in tutta la sua varietà e novità, sia che si voglia intenderla come antecedente momentaneo del romanzo poliziesco, sia che si voglia, invece, concedergli una propria autonomia. Una risposta a questi interrogativi, come abbiamo visto, l’ha data Michel Foucault, in una serie di opere che di certo Petronio non ammirava, ma con le quali – conveniva – avrebbe dovuto fare i conti chiunque avesse voluto occuparsi del romanzo giudiziario107. Dunque, «nella Francia di Gaboriau» (ma all’interno di un processo ampio,

106 Giuseppe Petronio, La letteratura poliziesca, oggi, in «Problemi», 86 (settembre-dicembre 1989), p. 211. 107 Si veda Sergia Adamo, A proposito del romanzo giudiziario, in L’attività storiografica, critica, letteraria,

geograficamente e cronologicamente, che caratterizzò l’intero continente europeo) stavano cambiando l’idea del penale, e con essa quelle pratiche che nei fatti contribuivano a produrla. Si modificavano la qualità e le quantità della pena; i luoghi e i tempi designati per la sua esecuzione; le immagini e il racconto della punizione, dunque il senso e lo scopo della procedura penale. Assieme a tutto ciò si trasformava, ovviamente, anche l’idea della delinquenza – le sue immagini e racconti, quindi i rispettivi protagonisti.

1.4.1 «Le roman criminel»: una soluzione dal dibattito francese

Di questi aspetti, la storiografia francese ha pensato di doversi occupare anche in relazione a «le roman criminel du XIXe siècle»108 nelle sue varie stratificazioni, poliziesco compreso; e nel farlo ha creduto di rintracciare un percorso utile, tra l’altro, ad evitare di impantanarsi tra «les querelles génériques sur la ‘naissance’ du roman policier»109. In effetti la cultura francese, dopo aver trasmesso in Italia questo tipo di letteratura ed il nome con cui definirla –

roman judiciaire - sembra aver esportato anche l’attitudine critica a ricondurlo verso il

dominio del poliziesco; e così pure la tendenza ad indagare su quest’ultimo ricercandone un padre fondatore. Uno studioso come Jaques Dubois, pur convinto che il roman judiciaire altro non fosse che un precedente del poliziesco, lamentò l’abitudine a esaurire nella ricerca di un «père fondateur» il campo di indagine sulla nascita dei romanzi di détection110. E il collega Jean-Claude Vareille, negli stessi anni di Petronio, invitava a studiare la «préhistoire du genre» abbandonando l’idea di un’origine unica, privilegiandone piuttosto le ramificazioni e le tappe transitorie111. Ora qui non si intende fornire una rassegna bibliografica esaustiva della critica francese sul tema. Tuttavia, non sarà inutile osservare le direzioni che essa ha valutato di percorrere in alcuni interventi recenti, proprio perché intenti ad affrontare problemi non così dissimili dai nostri dal punto di vista metodologico.

Ci riferiamo in particolare alle ricerche condotte da Dominique Kalifa, nell’ambito della storia del crimine e della repressione nella Francia del XIX secolo. Lo studioso riserva grande

108 Dominique Kalifa, Crime et culture au XIXe siècle, Paris, Perrin, 2005, p.131. 109 Ibidem.

110 Jacques Dubois, Le roman policier ou la modernité, Paris, Nathan, 1992, pp. 91 e ss. 111 Jean-Claude Vareille, Préhistoire du roman policier, in «Romantisme», 53, 1986.

importanza alla produzione letteraria (soprattutto quella d’appendice o “di consumo”112), poiché a sua avviso essa costituisce, assieme alla cronaca e alla pubblicistica giudiziaria, un unico «immense intertexte» entro cui è possibile studiare il crimine come prodotto culturale.

Analysés en série, les motifs déployés par ces récits s’avèrent donc essentiels en ce que, loin de la refléter, ils structurent la perception du réel criminel, organisent et régulent le discours social qui le porte. A trois égards au moins, cette pensée de l’inessentiel et du faux témoigne de sa capacité à ordonner par le langage le monde social et à produire du «vrai». En désignant d’abord les figures du risque criminel, qu’elle objective et hiérarchise, et dont elle scande l’évolution. […] Elle indique ensuite avec grande précision les lieux et points névralgiques de la vulnérabilité sociale. […] Elle décrit enfin les agents acceptables du retour à l’ordre, et avec eux les conceptions et modes de fonctionnement légitimes de l’ordre public. Qu’ils constituent un horizon idéal de référence ou, à l’inverse, un instrument de disqualification, les systèmes de personnages mis en œuvre dans les faits divers ou les fictions criminelles signalent en effet avec une grande netteté les voies et les formes de «popularisation» des diverses catégories d’acteurs du processus criminel ou pénal113.

Se si tiene conto del legame tra crimine e cultura, come carattere fondamentale delle società europee del XIX secolo – cioè dell’emersione del crimine come fenomeno sociale, da un lato, e dei processi di costruzione dell’opinione pubblica nelle società di massa, dall’altro – si può osservare come le due questioni vadano in realtà a costituire un unico oggetto di ricerca, che si può definire «la construction culturelle du crime»:

Comme si «le crime» n’était au bout du compte que le produit d’une «négociation» entre des représentations souvent premières et les expériences individuelles ou collectives qui les confirment, les infirment ou les infléchissent114

Osservato all’interno di questa negoziazione, il romanzo poliziesco viene colto entro il contesto politico (e non «naturale») che gli è proprio, e il peso della componente scientista (o

112 Si veda in particolare Dominique Kalifa, Crime et culture au XIXe siècle, cit. p 124 e ss. 113 Ivi, p. 132.

almeno del razionalismo logico nel quale si è soliti ridurla) ne risulta, per di più, seriamente ridimensionato:

Esprit scientific?

Dans un essai publié en 1929 et demeuré célèbre, Régis Messac insistait sur les liens unissant l’émergence du roman policier et le développement des sciences exactes. Tant dans son principe que dans ses effets, le genre procédait selon lui des progrès.

[…] Un tel mouvement d’ensemble est bien sûr indéniable. «La base du roman est déplacée et transportée du cœur à la tête et de la passion à l’idée, notent les Goncourt dans leur Journal du 16 juillet 1856, et il est clair que le récit d’enquête s’adosse à un régime de savoir (observation, induction, reconstitution) empreint de rationalisme et de positivisme. […] Le risque existe cependant de surestimer ces quelques exemples et de ne considérer la littérature criminelle du XIXe siècle qu’à l’aune d’un modèle – le roman de détection – tardif et marginal. L’immense majorité des récits d’enquête lus par les contemporains ne laisse au raisonnement qu’une place infime ou inexistante115.

Questo vale nello specifico per la Francia dove è rimasta forte per tutto il secolo l’impronta del feuilleton, tesa spesso a sacrificare il ragionamento a beneficio dei colpi di scena e dell’avventura; e dove la figura del «ratiocinateur» veniva spesso attenuata, opponendogli «le justicier ou l’aventurier (voire le criminel)». Ma in ogni caso è interessante notare come Kalifa proponga di ridefinire complessivamente il genere letterario entro il quale si è soliti raggruppare questi romanzi; e come sia proprio tale ridefinizione a concedergli di osservarne i fenomeni attraverso pesi e misure diversi da quelli tradizionalmente adottati.

Utilisée par les contemporains, l’expression «roman criminel», qui regroupe à la fois les grands cycles feuillettonesques du milieu du siècle (Sue, Dumas, Féval, Ponson du Terrail…), le roman judiciaire (Gaboriau et ses suiveurs) et la prémices du roman de détection, permet d’éviter les querelles génériques sur la «naissance» du roman policier, et met l’accent sur la spécificité alors reconnue à ces textes: des récits d’aventures où la rupture criminelle donne lieu à une exploration plus ou moins méthodique du monde social116.

115 Dominique Kalifa, Enquête judiciaire, littérature et imaginaire social au XIXe siècle, in «Cuadernos de Historia Contemporànea», 33 (2011), pp. 42-43.

Al di là dello specifico avventuroso, proprio della Francia, quello che a noi interessa è l’ampliamento della visuale, per il quale i vari sottogeneri vengono colti all’interno dell’intero processo di intersezioni tra crimine e cultura che ha caratterizzato tutto il XIX secolo. Questo allargamento della prospettiva permette di ridefinire il «principio», o per meglio dire le origini della «littérature criminelle» e dei vari sottogeneri che la compongono. In particolare, per quanto riguarda il poliziesco Kalifa invita a interrogarsi non tanto sul padre fondatore della

détection, ma a chiedersi piuttosto come la figura del poliziotto sia potuta divenire un

personaggio romanzesco: ossia attraverso quali passaggi si sia costituita questa (ri)produzione e che tipo di immaginario l’abbia resa possibile. Sin dai suoi primi lavori lo studioso ha sottolineato come l’ingresso del poliziotto nei romanzi – ben anteriore al razionalismo positivista del secondo Ottocento – sia avvenuto a partire da una serie di pubblicazioni non proprio letterarie, come i memoriali dei delegati di pubblica sicurezza. Fino a quel momento il poliziotto aveva ben poco di romanzesco: la sua figura era banale, la sua funzione vergognosa e disprezzata dall’opinione pubblica. Ma la pubblicazione nel 1828 delle memorie di Vidocq inaugura, su quest’aspetto,

un transfert capital, tant au regard de la littérature qu’ils dotent d’un personnage appelé à devenir un puissant organisateur textuel, qu’à celui de la police, engagée des lors dans un lent procès de requalification. Bien qu’apocryphes, ces souvenirs gagnent largement leur pari: transposer au policier l’aura romanesque jusque là réservée au criminel117.

Questo ingresso dei poliziotti nella letteratura – continua Kalifa – si è accompagnato, sempre attorno al 1820, alla diffusione di un nuovo immaginario, quello della “frontiera” e della “prateria”, introdotto in Europa con l’immenso successo dei romanzi di Fenimore Cooper. L’universo dei selvaggi, delle tracce e delle piste da seguire, che tanto affascinava i contemporanei, è stato rapidamente trasposto nelle grandi città. Su entrambi questi aspetti lo studioso è tornato a interrogarsi nei suoi lavori successivi, dedicando interi capitoli tanto all’analisi della figura del selvaggio urbano (Archéologie de l’ “apachisme”- le sauvage et le

prolétaire118), quanto all’importanza delle memorie dei delegati di pubblica sicurezza (Les

117 Jean-Claude Farcy, Dominique Kalifa et Jean-Noel Luc (a cura di), L'enquête judiciaire en Europe au XIXe

siècle: acteurs imaginaires pratiques, Paris, Créaphis, 2007, pp. 243-244.

mémoires de policiers: l’émergence d’un genre? – Identification d’un “genre” – Prendre la plume119).

Da una parte, si avanza dunque l’ipotesi che la costituzione letteraria del poliziotto e gli sviluppi della sua successiva caratterizzazione debbano essere letti all’interno di un processo più ampio e in buona parte precedente lo scientismo “raziocinante”. Ma soprattutto si sottolinea la necessità di una ridefinizione del genere, che ci permetta di cogliere una caratteristica fondamentale dei testi narrativi che lo costituiscono, e cioè la loro azione all’interno del processo di riorganizzazione sociale in atto nei grandi centri urbani. Questione che peraltro non mancò di suscitare successivamente il febbrile interesse degli scienziati positivisti, che affrontarono costantemente il tema della delinquenza urbana, guidati molto più dalla necessità di rispondere alla sfida politica della difesa e del controllo sociale, che a quella logica dello scioglimento di un enigma.

Il ruolo della città e dei soggetti sociali che la compongono (definiti in relazione più o meno contraddittoria coi selvaggi delle praterie d’oltreoceano) si rivela dunque una chiave di lettura fondamentale, e recenti studi ne hanno mostrato tutta la produttività anche nell’ambito della storia del poliziesco italiano120. Ma più in generale, per il «roman criminel» così come è stato definito da Kalifa (giudiziario compreso), si mostra la necessità di considerare come interno al genere anche il filone sui “misteri” e sui “bassi fondi” delle metropoli, diffusosi a macchia d’olio in seguito alla pubblicazione dei Mystères di Eugène Sue: proprio sulla costruzione di questi ambienti urbani (reali e immaginari), infatti, lo storico francese ha concentrato le sue indagini più recenti121. Lungo la stessa direzione di ricerca, inoltre, si sono mossi anche i francesisti Jean Fornasiero e John West-Sooby che hanno adottato e rilanciato tanto la definizione di «roman criminel» fornita da Kalifa, quanto la centralità del filone dei misteri, nel loro studio intitolato significativamente Aux origines du roman criminel: Eugène Sue et

les mystères de la Seine122.

Anche in questo caso si tratta di un filone narrativo che ha varcato i confini di parecchie nazioni. Per essere più precisi, i misteri urbani del XIX secolo sono probabilmente la tipologia

119 Ivi, pp. 65-96.

120 Michele Righini, Il romanzo poliziesco e l’esplosione della città, in Id. «Contemplando affascinati la propria

assenza». La città nella narrativa italiana tra Ottocento e Novecento, Bologna, BUP, 2009, pp. 289-392.

121 Dominique Kalifa, Les bas-fonds, histoire d'un imaginaire, Paris, Seuil, 2013.

122 Jean Fornasiero e John West-Sooby, Aux origines du roman criminel: Eugène Sue et les mystères de la Seine, «Australian Journal of French Studies», 43 (2006), pp. 3-12.

romanzesca che più di ogni altra è stata in grado di diffondersi e riprodursi a livello internazionale, dando vita sia a numerose traduzioni dei testi più famosi, sia a una serie innumerevole di riscritture di nuovi misteri nelle più diverse ambientazioni, lungo una geografia che si espande ben oltre il continente europeo: ancora oggi continua il lavoro di ricostruzione di questo corpus sterminato; e su di esso la critica si interroga secondo prospettive transdisciplinari e transnazionali sino ad avanzare l’ipotesi che i misteri urbani costituiscano già una forma di letteratura-mondo123. L’Italia, dal canto suo, non è certo rimasta immune a questo tipo di produzioni124, poiché in molte città – comprese quelle che solo con una buona dose d’immaginazione potevano definirsi metropoli, si diffusero i romanzi dei bassi-fondi, che richiamavano nei titoli – e a volte solo nei titoli – i “misteri” o il “ventre” della capitale francese.

Non mancherebbero dunque gli elementi per tentare di intraprendere, anche in relazione al contesto italiano, una redifinizione della letteratura di ambito giudiziario, che si concentri sugli aspetti comuni ai vari filoni che la compongono – il giudiziario in senso stretto, il