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La cittadinanza italiana: teoria e prass

Seconda generazione di migranti e processi di cittadinanza

Province 31-12-2010 Residenti Aumento % 2002-

4.4 La cittadinanza italiana: teoria e prass

La rapida illustrazione delle due differenti evoluzioni della situazione e francese e di quella inglese ci mostra come l’integrazione sociale dei migranti è tutt’altro che automatica, l’apertura culturale necessaria all’accoglienza ed i meccanismi di mobilità sociale son processi non solo sociali, ma istituzionali. Le politiche sociali a favore degli immigrati e dei loro figli, insieme alla lotta alla marginalità, si sono configurate come interventi indispensabili che hanno seguito direttrici in parte comuni sia in Francia che in Gran Bretagna, ma che hanno determinato un quadro ancora influenzato da caratteristiche nazionali (Bosiso, Colombo, Leonini, Rebughini 2005: 38).

Per quanto riguarda l’Italia è necessario evidenziare la diversità sostanziale con le due Nazioni su citate. L’Italia fa parte di quei paesi tradizionalmente a forte emigrazione, trasformatosi solo successivamente in meta di flussi migratori consistenti. Tuttavia il caso italiano si contraddistingue sia per la notevole importanza quantitativa che il flusso emigratorio ha assunto a partire dalla fine del XIX secolo, sia per la rapidità con cui si è verificato l’inversione di tendenza a partire dall’ultimo ventennio del XX secolo.

La trasformazione repentina in paese di immigrazione ha posto una serie di sfide, che mettono alla prova la sua capacità di governare il cambiamento. Il diritto della cittadinanza è infatti caratterizzato da una intima correlazione con la disciplina giuridica dei flussi migratori (Cfr. Genco, Marchetto, Mazzei 2011). Come già affermato il fenomeno migratorio in Italia diventa statisticamente rilevante solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta ed i suoi riflessi sul diritto della cittadinanza sono, sino ad oggi, estremamente significativi. Per un verso il diritto e le prassi italiane configurano la cittadinanza come un vincolo tenace che si tramanda per diritto di discendenza, salvo rinunce esplicite e formali. Per altro verso, invece «la cittadinanza italiana si configura come un bene amministrato con parsimonia nei confronti dei migranti che da decenni contribuiscono alla crescita economica, sociale e culturale del Paese» (Ibidem: 14).

A testimonianza che l’Italia si trova dinnanzi ad un fenomeno piuttosto nuovo da affrontare lo dimostrano le leggi. Infatti la prima legge sull’immigrazione risale al 1901

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e e nel 1906 la prima normativa sulla naturalizzazione che teneva conto dei legami con l’Italia. Tuttavia, il primo provvedimento organico sulla cittadinanza è rappresentato dalla legge 555 del 13 giugno 1912 che risentendo delle concezione ottocentesca dei rapporti familiari, assegnava un ruolo assolutamente preminente dell’uomo rispetto alla donna.

Un principio fondante di tale assetto normativo, ad esempio, era l’unicità della cittadinanza dell’intero nucleo familiare che seguiva la cittadinanza del soggetto giuridico marito-padre, per cui se costui avesse mutato il proprio status civitatis anche la moglie ed i figli incorrevano nella perdita della cittadinanza italiana108. Il sistema del 1912, sia pure con significative modifiche è rimasto in vigore sino alla data di entrata in vigore dell’attuale legge 91 del 5 febbraio 1992109 (Cfr. Consoli 2012).

Tale normativa conferma e rafforza le scelte di fondo del legislatore della legge precedente rimanendo ancorata al principio dello jus sanguinis piuttosto che allo jus

soli, che continua a mantenere il carattere residuale di cui alla legge del 1912. Il

fenomeno delle migrazioni ha fortemente condizionato le scelte del legislatore del 1992; infatti l’intero impianto normativo è caratterizzato da un favore spiccato nei riguardi degli immigrati italiani emigrati all’estero e dei loro discendenti, a cui corrisponde un evidente disinteresse nei confronti delle ragioni e dei bisogni degli stranieri immigrati in Italia (Genco, Marchetto, Mazzei 2011: 17)110.

La normativa vigente appare più sensibile alle problematiche del fenomeno migratorio, infatti pur rimanendo ancorata alla piena e incondizionata trasmissibilità della cittadinanza secondo il principio dello jus sanguinis, prevede, anche solo marginalmente, l’acquisto dello status civitatis secondo il principio dello jus soli.

4.4.1 Le principali novità introdotte dalla legge 91/1992

108 La disciplina del 1912 si caratterizzava per la presenza di numerosi automatismi che nel

determinare l’acquisto, la perdita o il riacquisto della cittadinanza, non tenevano alcun conto della volontà del soggetto.

109 Infatti le successive leggi 151/1975 e 123/1983, nel recepire gli indirizzi forniti dalla Corte

Costituzionale in materia di parità di diritti fra l’uomo e la donna, hanno introdotto modifiche che non hanno comunque modificato significativamente l’impianto complessivo della legge del 1912.

110 La legge 1992 conferma e rafforza le scelte di fondo fatte dal legislatore del 1912,imperniate su

una concezione della cittadinanza come legame persistente che si tramanda: inoltre anche alcune circolari ministeriali tendono a ripristinare lo status di cittadino nei confronti di tutti coloro che lo avevano perso (ad esempio, la numero K. 33 del 1 giugno 2009 che riguarda i cittadini ebrei privati della cittadinanza italiana per effetto delle leggi razziali).

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I nuovi bisogni connessi al fenomeno migratorio “impongono” alla politica ed al diritto dell’immigrazione una revisione del sistema legislativo, così viene attuata

una rigorosa legislazione in materia di ingresso e soggiorno, [e contemporaneamente] sopravvive a lungo un atteggiamento “tollerante” nei confronti della presenza irregolare e clandestina, che si manifesta attraverso una disciplina lacunosa e poco efficace dell’espulsione e con ripetuti provvedimenti di regolarizzazione (Genco, Marchetto, Mazzei 2011: 18).

La legge 91/1992 è espressione di questa tendenza contraria ad una rapida assimilazione degli stranieri, diventa quindi opportuno riassumere il percorso di concessione della cittadinanza. Come si diventa cittadini italiani?

1) Per diritto:

 di sangue (chi nasce da padre o madre italiani);

 territoriale (chi nasce nel territorio della Repubblica da genitori ignoti o apolidi).

2) Per matrimonio:

 il coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano quando risiede legalmente in Italia da almeno sei mesi oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio, purché non ci sia stato nel frattempo divorzio o annullamento del matrimonio, e se non sussista separazione legale.

3) Per legge:

 il minore di 18 anni straniero adottato da cittadino italiano;

 il figlio minore di 18 anni quando uno dei genitori acquista la cittadinanza italiana;

 lo straniero o l’apolide con ascendenti italiani:

a) se presta servizio militare in Italia o assume un impiego alle dipendenze dello Stato italiano e dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana; b) se al raggiungimento della maggiore età risiede in Italia da almeno due

anni e dichiara entro un anno di voler acquistare la cittadinanza italiana;  lo straniero nato in Italia e che vi abbia risieduto legalmente fino alla maggiore

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4) Per naturalizzazione, la cittadinanza italiana può essere concessa con un provvedimento del presidente della Repubblica:

 allo straniero, con ascendenti italiani (padre, madre o un nonno) oppure nato in Italia, che risiede in Italia da almeno tre anni;

 al cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea che risiede in Italia da almeno quattro anni;

 allo straniero che ha prestato servizio per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato italiano, anche all’estero;

 allo straniero maggiorenne adottato da cittadini italiani da almeno cinque anni;  all’apolide che risiede in Italia da almeno cinque anni;

 allo straniero non comunitario che risiede in Italia da almeno dieci anni.

Due profili, in particolare, meritano di essere segnalate; viene riformata la disciplina dell’acquisto della cittadinanza per beneficio di legge da parte dei nati in Italia da cittadini stranieri: mentre l’art. 3 della legge 555/1912 considerava sufficiente a tal fine, che il nato in Italia risiedesse in territorio italiano al compimento della maggiore età (allora fissata a 21 anni) e dichiarasse di eleggere la cittadinanza italiana entro l’anno successivo, la legge del 1992 ha introdotto il requisito della residenza

legale ininterrotta dalla nascita fino al raggiungimento della maggiore età. Chiaramente

questo requisito esclude dal beneficio tutti coloro che, pur essendo nati in Italia e privi di legami con il paese d’origine dei genitori abbiano ottenuto un permesso di soggiorno o la residenza solo in epoca successiva alla nascita magari perché in precedenza i genitori vivevano una condizione di irregolarità (Cfr. Sciortino 2005; Consoli 2012: 51). La seconda novità introdotta dalla legge del 1992 riguarda la disciplina della naturalizzazione. In questo campo, il legislatore ha introdotto una sorta di gerarchia tra diverse categorie di stranieri ai quali si riconduce un diverso periodo di residenza legale per presentare l’istanza di naturalizzazione, fra le varie categorie gli stranieri non comunitari, che rappresentano la gran parte degli immigrati, sono forse i più penalizzati poiché il tempo di residenza risulta raddoppiato rispetto alla legislazione precedente. Il

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numero delle naturalizzazioni, rimane comunque esiguo rispetto agli altri paesi europei111 (Cfr. Bertocchi, Strozzi 2010).

La tabella del Viminale (Tab. 4) dimostra come le cittadinanza concesse siano soprattutto per matrimonio che per naturalizzazione, situazione che verrà confermata da alcune interviste che presenteremo nel prossimo capitolo.

Tabella 4. Cittadinanza concesse per matrimonio e per residenza dal 2005 al 2008

Anno 2005 2006 2007 2008

Matrimoni 11.854 30.151 31.609 24.950

Naturalizzazioni 7.412 5.615 6.857 14.534

Fonte: elaborazione su dati del Ministero dell’Interno

Sono varie le sfide che i giovani migranti ci pongono con forza e certamente l’idea di una minoranza di colore o con gli occhi a mandorla, dotata di diritti di cittadinanza e dunque “italiana per passaporto”, oltre che per residenza e formazione scolastica, rompe schemi consolidati (Ambrosini 2005: 180).

Gli italiani oggi non devono per forza avere un background etnico, culturale e religioso tendenzialmente omogeneo. Si pone il problema della costruzione di una coesione sociale non più riprodotta spontaneamente dalla società, sulla base di riconoscimenti di comune appartenenza ad una comunità nazionale: un riconoscimento non sempre pacifico. Come direbbe Zoll (2003), riprendendo le classiche categorie durkheimiane, si tratta di passare da una solidarietà meccanica, basata sulla somiglianza, ad una solidarietà organica, in grado di tenere insieme le diversità112. È una solidarietà ancora largamente inedita, che va scelta, progettata e costruita consapevolmente, per favorire la formazione di una società segmentata e conflittuale.

Come abbiamo desunto dal dibattito moderno internazionale, la ritenzione di tratti identitari minoritari non è per forza un ostacolo per l’integrazione sociale, e neppure alla riuscita in campo educativo e professionale. La società ricevente è chiamata

111 Nell’ultima comparazione, risalente al 2005, l’Italia aveva lo 0,7 contro l’1,6 della Germania, il 2,2

della Spagna, il 4, 4 dell’Austria e l’8,2 della Svezia. Il dato è riportato nell’articolo di Piccolillo V., Gli

immigrati e il sogno della cittadinanza, pubblicato a p. 15 del “Corriere della Sera” del 4 gennaio 2010; si

veda anche Polchi V., Da stranieri a nuovi italiani, “La Repubblica”, 15 giugno 2011, pp. 35-37.

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pertanto a sviluppare investimenti adeguati all’assimilazione dei nuovi residenti, dando pratica attuazione al «diritto alla somiglianza» (Ambrosini 2005: 183) che sta alla base di ogni progetto di integrazione concepita come uguaglianza di trattamento e di opportunità. Potrà allora legittimamente richiedere ad essi un grado corrispondente di acquisizione delle conoscenze ed attitudini necessarie per muoversi nel nuovo contesto di vita. Kymlicka in proposito nota:

Ovunque e ogni qualvolta gli immigrati sono stati accolti come potenziali cittadini futuri, le differenze culturali non hanno mai pregiudicato l’integrazione […]. Numerosi studi hanno stabilito che il fattore-chiave per determinare la riuscita dell’integrazione di gruppi di immigrati non sta nelle differenze di cultura che intercorrono fra il paese d’origine e quello di destinazione, bensì nelle politiche di accoglienza del paese di destinazione. L’integrazione o l’esclusione degli immigrati dipende anziché da differenze culturali o livelli di istruzione, dalle politiche pubbliche in fatto di insediamento e cittadinanza (Kymlicka 1997:204- 205).