• Non ci sono risultati.

Climate Commons/ Beni comuni climatic

Nel documento Green Deal Europeo (pagine 96-99)

ambito disciplinare sociologico autore Dario Padovan

Un commons può essere inteso come una o un insieme di risorse naturali o culturali accessibili a tutti i membri di una società. Tali ri- sorse includono anche aria, acqua o terra abitabile. Queste risorse sono gestite in comune, ossia non sono privatamente appropriate. Un bene comune può anche essere visto come risorse naturali che un gruppo di persone (comunità, cooperative, gruppi di utiliz- zatori) gestisce a beneficio individuale e collettivo. Questo implica una varietà di norme e valori informali che costituiscono il mec- canismo di governo del commons. Infine, un commons può essere anche una pratica sociale di governo di una risorsa, al di fuori delle sfere statali e di mercato, messa in opera da una comunità di utilizzatori che si auto-governa la risorsa attraverso istituzioni da essa stessa create. Nel caso del riscaldamento globale, il bene comune è una certa composizione dell’atmosfera. Questa composizio- ne mantiene il clima e, di conseguenza, la biosfera sulla Ter- ra all’interno dei parametri ai quali ci siamo adattati e ai quali abbiamo adattato il nostro modo di vita, la cultura, le at- tività economiche e così via. In linea di principio tutte le spe- cie viventi sulla Terra sono coinvolte, sebbene solo gli umani possano contribuire alla conservazione dell’atmosfera. La composizione dei gas atmosferici e il suo effetto sulla biosfe- ra e sull’umanità è un “common-pool resource”, ovvero un bacino comune di risorse. Nessuno può essere escluso dal goderne gli effetti positivi. Tuttavia, l’atmosfera viene utilizzata come serbato- io per lo scarico delle emissioni delle attività umane (produttive, di trasporto, di consumo, ecc.) e, rispetto a questo, c’è rivalità. La gestione sostenibile dei beni comuni globali come l’atmosfera è una nuova sfida per il futuro dei sistemi socio-economici. Anche se tutti potrebbero beneficiare di un uso sostenibile di tali beni comuni, ci sono comunque situazioni in cui si manifestano dele- teri comportamenti da “free-riding” (ovvero un uso indiscriminato per scopi individuali) che danneggiano le possibilità di realizzare le forme di cooperazione indispensabili per far fronte ai cambia-

menti climatici.

L’atmosfera è attualmente una “terra di nessuno”, che è disponibi- le per tutti gratuitamente. Gli oceani e le foreste sono strettamen- te collegati al serbatoio atmosferico attraverso il ciclo del carbo-

nio, in quanto assorbono parte del diossido di carbonio (CO2) di origine antropica. È interessante notare come gli oceani e le fore-

C

Bibliografia

- Edenhofer O. et al. (2013), “The Atmosphere as a Global Commons – Challenges for International Coop- eration and Governance”, MCC Working paper 1. - Ostrom E., “Polycentric systems for coping with collective action and global environmental change”, Global Environmental Change 20 (2010) 550–557. - George Caffentzis and Silvia Federici, “Commons against and beyond Capitalism,” Community Develop- ment Journal Vol 49 No S1 January 2014 pp. i92–i105.

ste siano anch’esse risorse globali comuni che fungono da importanti fonti di biodiversità, materie prime, risorse ittiche e ricettori di car- bonio. Tuttavia, l’atmosfera e gli oceani sono minacciati da eccessive emissioni di CO2 e le

foreste si stanno riducendo per rispondere alla crescente domanda di cibo e bioenergia. Risolvere i dilemmi posti dall’esistenza e dal funzionamento di commons globali è una sfida per la comunità internazionale. Questa sfida può essere delineata come segue: per assicu- rare che la temperatura dell’atmosfera globale non aumenti di altri 2 gradi (°C), l’atmosfera può ricevere solo altre 750 miliardi di tonnel- late di diossido di carbonio. Con 33 miliardi di tonnellate di emissioni globali di CO2 immesse in atmosfera nel corso del 2010, si può facil- mente calcolare che l’atmosfera sarà “piena” in pochi decenni. Pertanto, l’uso di fonti di ener- gia fossile deve essere limitato a livello globale. Tali limitazioni non possono che generare ra- dicali conflitti distributivi, come sta già avve- nendo. Se la politica climatica implica che una grande parte delle risorse fossili non venga più sfruttata, la conseguenza sarà la svaluta- zione delle attività dei proprietari di risorse di carbone, petrolio e gas. Inoltre, i pochi diritti di sfruttamento atmosferico dovranno esse- re equamente distribuiti tra Africa, Cina, Stati Uniti, Europa e altre regioni del mondo, anche sulla base delle emissioni storiche e pro capite. Il processo politico dovrebbe anche determi- nare a quanti diritti di sfruttamento atmosferi- co avranno diritto le prossime generazioni. Alla luce di tutte queste difficoltà, è legittimo chie- derci se un uso efficiente ed equo dei climate

commons sia possibile. Elinor Ostrom ha dimostrato che le comunità a livello locale hanno spesso applicato ai com- mons regole d’uso efficaci. Non è chiaro se questa capacità possa essere replicata a livello globale. Tuttavia, non c’è tempo per attendere l’istituzione di un governo globale in grado di regolare il clima: l’adozione di rigorose misure

di mitigazione dei cambiamenti climatici è necessaria ora. Probabilmente non ci sarà un governo mondiale nel prossimo futuro, ma la gestione dell’atmosfera come commons glo- bale non lo richiede. Essa richiede piuttosto politiche interconnesse a livello internazionale, nazionale, regionale e locale, ossia un governo del clima multilivello o policentrico.

Per combattere il cambiamento climatico un accordo intergovernativo rimane indispensabi- le. In caso contrario, le riduzioni delle emissioni in una regione possono sempre portare a un aumento delle emissioni in altre regioni. Avvie- ne già ora: di fronte all’aumento continuo di emissioni di gas serra, alcuni paesi si sono già in parte decarbonizzati.

Tali dilemmi, tipici della gestione di risorse ri- tenute appropriabili, possono essere risolti trattandole come risorse per l’umanità ed es- sere gestite come beni comuni. Beni comuni globali come le foreste, gli oceani e l’atmosfera dovrebbero essere affidati a commoners affida- bili e ad allargati processi di commoning. Tuttavia, la distribuzione di un “budget di car- bonio” (una quota pro capite o per paese da “spendere” in emissioni di gas serra) può essere un gioco a somma zero in cui il guadagno di un paese è la perdita di un altro. Questo è il mo- tivo per cui alcuni osservatori sono molto pes- simisti riguardo alle possibilità di una rigorosa politica intergovernativa sul clima. Il dilemma a somma zero può essere superato solo avvian- do un prudente processo di trasformazione che possa decarbonizzare l’economia mondia- le.

C

ambito disciplinare sociologico politologico autrice Sara Bonati

/Climate Diplomacy/

L’espressione “climate diplomacy” definisce il processo di ne- goziazione intrapreso dai governi allo scopo di raggiungere accordi internazionali sulle misure da attuare per contrasta- re i cambiamenti climatici. Le sue origini si ritrovano nella en- vironmental diplomacy, che negli anni ‘70 del secolo scorso ha promosso le prime iniziative intergovernative per l’ambiente. Un processo globale di climate diplomacy è stato avviato con la nascita della INC nel 1990 (Intergovernmental Negotiating Com- mittee for a framework convention on climate change), che ha por- tato, nel 1992, all’adozione della UNFCCC (UN Framework Con- vention on Climate Change), entro la quale è stato stabilito il primo forum intergovernativo per la discussione di accordi multilaterali sul clima. Il forum si ritrova a partire dal 1995 con cadenza an- nuale in occasione della cosiddetta conference of parties (COP). La nascita di una branca della diplomazia specificamente dedicata alle questioni climatiche è il risultato del dominio di un approc- cio “a compartimenti” nella environmental diplomacy, che predi- lige una discussione settoriale o monotematica delle questioni ambientali. Questo ha consentito da una parte di dare ampia e specifica attenzione alla questione climatica, dall’altra ha ridotto la possibilità di adottare politiche integrate, che tengano conto delle interrelazioni con le altre emergenze ambientali presenti nei diversi territori. La climate diplomacy ha vissuto a oggi due fasi principali: una prima fase in cui è stata prediletta la ricerca di un accordo glo- bale (global deal strategy), multilaterale e top-down, che ha porta- to all’adozione del Protocollo di Kyoto, con valore vincolante e sovra-nazionale. Questa fase non si è esaurita in modo definiti- vo con Kyoto ma è proseguita fino alla COP15 di Copenaghen. Durante i negoziati che hanno seguito la COP3, tuttavia, erano già evidenti i limiti del modello nel poter replicare i risultati di Kyoto e raggiungere un nuovo accordo capace di prolungare e implementare il precedente. Il fallimento dell’approccio adottato è emerso in modo evidente a Copenaghen, dove ha trovato voce la necessità di dare spazio a un nuovo modello di diplomazia del clima, allo scopo di raggiungere entro il 2015 un nuovo accordo (non più un protocollo) con valore non vincolante ma capace di

ricevere un’adesione più ampia.

A Copenaghen, dunque, è stata aperta la strada a un approccio bottom-up, entro il quale definire gli obiettivi in modo contestuale

C

e tenendo conto degli interessi di sviluppo dei singoli paesi. Questa nuova vi- sione di diplomazia del clima ha avuto il suo culmine nell’Accordo di Parigi. Il successo diplomatico di Parigi è riconducibile ad alcune manovre diplomatiche che possono essere riassunte in tre punti:

• abbandono del modello a “summit” come forma di negoziato, organizzando mo- menti preparatori che hanno consentito di raggiungere un pre-accordo, affidando la discussione ai ministri competenti, e lasciando ai capi di stato il ruolo di apertura dell’evento;

• avvio del processo di revisione dell’accordo prima della COP, riducendo lo spazio per eventuali discussioni durante la conferenza;

• partecipazione del maggior numero di stakeholder e trasparenza sul processo di negoziato, concordando i “paletti invalicabili” e prevenendo le critiche.

Se l’Accordo è stato letto come un successo dal punto di vista diplomatico non manca- no le critiche, soprattutto relativamente agli obiettivi da raggiungere (meno ambiziosi di quanto auspicato dalla comunità scientifica) e alla labilità delle misure da intraprendere, data la natura non vincolante del documento. È infine utile ricordare che nel “pre-Parigi” ha avuto avvio una diplomazia climatica bilaterale, che si è affiancata a quella multilaterale dominante, e che ha avuto un ruolo importante nel successo di quest’ultima. Gli Stati Uniti guidati da Obama e la Cina, infatti, nel 2014 hanno firmato un accordo per la riduzione delle proprie emissioni. Questa politica diplomatica tuttavia si è conclusa con l’avvento dell’amministrazione Trump.

Bibliografia

- Falkner R. (2016). “The Paris Agree- ment and the new logic of interna- tional climate politics”, in Interna- tional affairs, 92(5): 1107-1125. - Falkner R., Stephan R., Vogler J. (2010). “International climate policy after Copenhagen: towards a ‘building blocks’ approach”, in Global policy, 1(3): 252-262. - Hsu A., Moffat A.S., Wein- furter A.J. e Schwartz J.D. (2015). “Towards a new climate diplomacy”, in Nature climate change, 5(6): 501. - Minas S. e Ntousas V. (a cura di) (2018). “EU climate diplo- macy: politics, law and nego- tiations”, London, Routledge.

Nel documento Green Deal Europeo (pagine 96-99)