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3 ARGOMENTI NON LINGUISTICI CONTRO IL PRINCIPIO D

5.3 COMPARAZIONE ESPLICITA VS IMPLICITA

5.3.1 Comparazione implicita

La semantica della forma positiva supporta già perciò l’espressione della comparazione (come già osservato da Sapir (1944)). Poiché lo standard di comparazione è sensibile al contesto, un modo di veicolare il fatto che un oggetto x ha un grado più alto della proprietà G rispetto ad un oggetto y è quello di modificare il contesto cosicché lo standard rende la forma positiva vera per x ma falsa per y. Questo succederà solo se il grado in cui x è G supera lo standard di paragone mentre il grado in cui y è G no; dato l’ordinamento inerente sui gradi, ne consegue che x > y relativamente a G.

Adattando la terminologia di Sapir (1944), Kennedy (2007b) argomenta che sia possibile che le lingue differiscano nella possibilità di esprimere la comparazione implicitamente o esplicitamente:

- comparazione implicita: stabilisce un ordinamento tra oggetti x e y rispetto alla proprietà graduabile G usando la forma positiva manipolando il contesto in modo tale che la forma positiva sia vera per x ma falsa per y;

- comparazione esplicita: stabilisce un ordinamento tra oggetti x e y rispetto alla proprietà graduabile G usando una forma morfosintattica il cui significato convenzionale ha la conseguenza che il grado in cui x è G supera il grado in cui y è G.

Tutte le lingue hanno forme positive degli aggettivi graduabili – è un componente fondamentale dell’inventario delle lingue naturali – dunque tutte le lingue hanno la possibilità

di esprimere la comparazione implicita. Ma, si chiede Kennedy, è possibile che alcune lingue abbiano solo la comparazione implicita?

La risposta, dal punto di vista tipologico, sembra positiva. La comparazione esplicita richiede una speciale morfologia di grado, come [[ più-D ]] o [[ più-I ]] (cf. § 5.2). Ma se la forma

positiva, per quanto paradossalmente, è derivata da quella comparativa (il che è assunto in buona parte degli approcci alla vaghezza, come si è già avuto modo di constatare), sarebbe possibile compiere comparazioni implicite, senza aggiungervi alcun morfema di grado comparativo. La forma di questo parametro si manifesterebbe nella presenza vs. assenza di morfologia funzionale di grado variamente affissa alla forma positiva del predicato.

Si è visto che molte lingue formano in effetti comparazioni senza una morfologia di grado specifica. L’esempio dal hykskaryana (73) al § 5 (tratto da van Stassen (1985)), sotto ripetuto come (86), compara due individui mettendoli in relazione avversativa; in samoano è possibile esprimere comparazioni attraverso la congiunzione di due predicati antonimi (cf. (87)). Secondo i dati di van Stassen, queste due modalità di comparazione sono molto produttive cross-linguisticamente:

(86) Kaw-ohra naha Waraka, kaw naha Kaywerye (= (73))

alto-non lui-è Waraka, alto lui-è Kaywerye ‘Kaywerye è più alto di Waraka’.

(87) Ua tele le Queen Mary, ua la’ itiiti le Aquitania è grande la Queen Mary, è piccola la Aquitania ‘La Queen Mary è più grande dell’Aquitania’.

Per Kennedy (2007b) questi esempi richiamano una forma di comparazione implicita; ma anche lingue meno esotiche e, come lo stesso inglese e l’italiano, accanto alla comparazione esplicita (individuale o di grado) permettono comparazioni implicite, come sembrano poter essere definite le frasi come (88):

(88) Gianni è alto rispetto a Piero.

Costrutti come rispetto a, in confronto a, ed espressioni simili, modificano i parametri contestuali rispetto ai quali è computato lo standard di comparazione usato per fissare l’estensione della

forma positiva. Kennedy assume perciò che rispetto a e costruzioni simili abbiano condizioni di verità di questo tipo: [[rispetto a y]] ([[A]]) è vero di x in un contesto c sse [[A]] è vero di x in qualsiasi contesto c’ uguale a c tranne per il fatto che il dominio include solo x e y.

In altre parole, la funzione semantica di rispetto a x è quella di manipolare il contesto relativo al quale la forma positiva è valutata in modo da includere solo l’argomento dell’aggettivo e l’argomento di rispetto a; il resto della frase costituisce una asserzione che x è G in questo contesto rivisitato. Se aggiungiamo a questo una restrizione generale per cui lo standard di comparazione impone sempre una partizione non triviale sul dominio dell’aggettivo tale che tanto la sua estensione positiva quanto quella negativa devono essere non-vuote (Klein (1980)), allora x è G rispetto a y implica anche che y non è G. Ma se c’è un contesto in cui x è G è vera e y è G è falsa, segue dalle condizioni di verità della forma positiva ed il relativo ordinamento sulla scala che x > y rispetto a G in qualsiasi contesto. Dunque una comparazione implicita come (89) implica che Gianni è più alto di Piero, anche se Gianni non è alto.

I tratti che distinguono le comparazioni implicite da quelle esplicite discendono dalla differenza cruciale tra i due modi di comparazione: l’una implica la semantica della forma positiva dell’aggettivo, l’altra esprime una relazione di ordine arbitraria.

Una proprietà semantica fondamentale della forma positiva è che è vaga: dà luogo a casi limite (oggetti per i quali non è chiaro se il predicato vale o meno) ed al paradosso del sorite.

Kennedy sottolinea che l’uso di una comparazione implicita afferma qualcosa di più forte della corrispondente comparazione esplicita: il grado in cui x è G deve superare il grado in cui y è G abbastanza da “spiccare”. Questo accade perché l’affermazione che x è G include un impegno sulla verità di x è G e sulla falsità di y è G, relativamente al contesto in cui contano solo x e y; se x e y sono troppo vicini sulla scala del predicato, non si può prendere questo impegno. La comparazione esplicita per contro richiede soltanto un ordinamento asimmetrico dei due gradi, e la differenza si riflette nei diversi giudizi in (89)-(90):

(89) (Contesto: un saggio di 600 parole e un saggio di 200 parole.) a. Questo saggio è più lungo di quello.

(90) (Contesto: un saggio di 600 parole e un saggio di 597 parole.) a. Questo saggio è più lungo di quello.

b. #Questo saggio è lungo rispetto a quello.

Sia la comparazione implicita che quella esplicita non implicano che la forma positiva sia vera degli oggetti comparati:

(91) a. Questo saggio non è lungo, ma è lungo rispetto a quello. b. Questo saggio non è lungo, ma è più lungo di quello.

Ma la comparazione implicita, a differenza di quella esplicita, genera una implicatura che la forma positiva è falsa del soggetto, come osservato da Sawada (2007):

(92) a. ?Questo saggio è lungo rispetto a quello, ed è già abbastanza lungo.

b. Questo saggio è più lungo di quello, ed è già abbastanza lungo.

Come si è visto, non tutti gli aggettivi graduabili hanno uno standard dipendente dal contesto; per alcuni lo standard è fissato lessicalmente al punto minimo o massimo della scala della proprietà che rappresentano (cf. § 2.2). Dal momento che in questi casi lo standard di riferimento non è dipendente dal contesto, si predice che una comparazione implicita sia infelice con questi aggettivi:

(93) a. Il primo bicchiere è più pieno del secondo. b. # Il primo bicchiere è pieno rispetto al secondo.

La composizione di un aggettivo graduabile con un sintagma di misura genera un predicato che, come gli aggettivi con standard prefissato, non è più dipendente dal contesto. Questo predice che la comparazione implicita non sia possibile:

(94) a. ??Gianni è alto 10 cm rispetto a Piero.

Se la distinzione tra comparazione implicita ed esplicita si rivelasse reale, la spiegazione più semplice sarebbe lessicale: nelle lingue che hanno la comparazione implicita i predicati sono del tipo <e,t> e denotano proprietà vaghe, dipendenti dal contesto; nelle lingue che hanno la comparazione esplicita i predicati graduabili sono del tipo <d, et> e denotano relazioni di grado. Questa ipotesi è però piuttosto insoddisfacente, anche perché porterebbe a postulare per le lingue che permettono entrambi i tipi di comparazione sincretismi sistematici tra predicati <e,t> e <d, et> (o un continuo type-shifting tra le due denotazioni senza alcun riflesso lessicale).

Kennedy (2007c) avanza invece en passant l’ipotesi che in tutte le lingue, universalmente, la forma positiva di un predicato graduabile sia quella non marcata, e che il significato di base dei predicati graduabili sia sempre del tipo <e,t> - come originariamente proposto da McConnel- Ginet (1973), Kamp (1975), e soprattutto Klein (1980). Contrariamente a quanto assunto da questi autori, però, Kennedy assume che tali denotazioni siano incompatibili con la comparazione esplicita.

Il ruolo del comparatore diventerebbe allora proprio quello di trasformare proprietà <e,t> in relazioni di grado <d, et>:

(95) [[ più ]] = λg<e,t>λdλx.mg(x) ≥ d

6. SEMANTICA DELLE COMPARATIVE NOMINALI

È interessante notare come la sia pur vasta letteratura sulla semantica e la sintassi delle comparative abbia quasi totalmente trascurato le comparative nominali, ovvero quelle strutture che mettono in relazione non i gradi in cui due o più individui possiedono una certa proprietà graduabile, in genere lessicalmente incarnata da un aggettivo, ma il numero di oggetti o la misura (secondo una determinata unità) cui si applica un certo predicato di individui.

La differenza non è triviale: si potrebbe pensare al predicato ed al suo complemento come un complesso sintattico indicante una proprietà graduabile, ma in questo modo – oltre a dover giustificare in chiave composizionale questo passo – si ignorerebbe una caratteristica sintattica e semantica importante, messa in luce da Nerbonne (1995) (pressoché unico contributo specificamente dedicato alla semantica delle comparative nominali, almeno a mia conoscenza): a differenza delle comparative aggettivali, le comparative vertenti su nominali coinvolgono necessariamente termini plurali o massa, sui quali una ampia letteratura (Boolos (1984, 1985a); Link (1983, 1987); Lønning (1987, 1989a,b)) ha costruito una specifica logica dei plurali.

Questo aspetto cruciale distingue l’analisi delle comparative nominali di Nerbonne dagli altri lavori sulla semantica delle comparative.

La scarsità di fonti e la distanza tra gli approcci rendono purtroppo difficilmente confrontabili i due domini (nominale vs. aggettivale) in uno spazio che non vi sia appositamente dedicato, e perciò si riporteranno semplicemente le considerazioni di Nerbonne sui determinanti di misura nelle comparative nominali (astraendo per lo più dalle considerazioni relative alla quantificazione plurale), rimandando ai capitoli sulla sintassi della comparazione eventuali considerazioni aggiuntive sul comportamento semantico delle comparative nominali.