3 ARGOMENTI NON LINGUISTICI CONTRO IL PRINCIPIO D
2.2 STANDARD ASSOLUTI VS RELATIVI
Unger (1975), Kennedy e McNally (1999, 2002) identificano altri casi in cui tipi differenti di standard sono implicati nell'interpretazione di un predicato graduabile.
Mentre è generalmente assunto che i predicati graduabili provochino le interpretazioni viste sopra, con un riferimento ad uno standard di qualche tipo determinato contestualmente, che sia basato su una norma o no, ci sono aggettivi che sono evidentemente graduabili ma le cui interpretazioni non sembrano veramente dipendenti dal contesto. Per esempio, gli aggettivi in (6) richiedono semplicemente che i loro argomenti possiedano un grado minimo della proprietà che descrivono, non che il grado in cui possiedono la proprietà superi una certa norma:
(6) a. Il bimbo è sveglio. b. La porta è aperta.
(6a) non significa che il grado in cui il bambino è sveglio supera lo standard di riferimento dell’essere svegli, ma semplicemente che il bimbo non dorme. Allo stesso modo, (6b) richiede anche solo uno spiraglio di apertura della porta.
Gli aggettivi in (7) sono simili, tranne per il fatto che i loro argomenti devono possedere un grado massimale della proprietà in questione:
(7) a. Il bicchiere è pieno. b. La porta è chiusa.
(7a) significa che il bicchiere è completamente pieno, e (7b) che la porta è completamente chiusa. Unger (1975) definisce questo tipo di aggettivi “aggettivi graduabili assoluti”, opposti agli “aggettivi graduabili relativi”, il cui termine di paragone dipende dal contesto. Usi imprecisi degli aggettivi sono peraltro possibili:
(8) a. Non sono ancora sveglio. b. Il teatro è vuoto stasera.
(8a) può essere pronunciata felicemente da una persona che non sta dormendo, e (8b) può essere usata per descrivere una situazione in cui ci sono solo poche persone in sala. Lo standard di un aggettivo assoluto quindi può essere spostato, anche se in modo molto più limitato rispetto a quanto accade per gli aggettivi graduabili relativi: lo standard può essere spostato solo in una direzione, e cioè al di sotto, ma comunque vicino al valore minimo o massimo della scala (per cui in (8a) il grado in cui sono sveglia si avvicina al punto terminale della scala al limite con l'essere addormentato, ed in (8b) il grado in cui la sala del teatro è occupata è al limite del valore minimo della vuotezza)2.
In linea di principio, ci sono due modi possibili di spiegare l'opposizione tra aggettivi assoluti e relativi. Date le differenze empiriche, si può assumere che le due classi abbiano analisi semantiche differenti (che siano perciò tipi semantici diversi tra loro), e che la vaghezza sia un tratto unicamente degli aggettivi graduabili relativi. Alternativamente, si può tentare una analisi semantica generale dei predicati graduabili in grado di assegnare il tipo corretto di standard agli aggettivi assoluti e relativi in termini di differenze lessicali tra le due classi. La seconda ipotesi è favorita in termini di adeguatezza esplicativa, visti i tratti comuni alle due categorie.
2 Kennedy e McNally portano però ragioni empiriche e teoriche per sostenere che gli aggettivi assoluti, a
differenza di quelli relativi, implichino in effetti standard non dipendenti dal contesto, ma fissati nella semantica degli aggettivi ed orientati al valore terminale della scala. Le evidenze empiriche vengono dalla distribuzione dei sintagmi per + [SP] (alto per un bambino di quella età vs ?pieno per un bicchiere di vino) e dell'avverbio di grado
“abbastanza”, dalla direzione in cui è possibile spostare lo standard di riferimento, e dalle implicazioni che si possono trarre dalle frasi in cui compaiono gli uni o gli altri. La motivazione teorica dell'uso impreciso degli aggettivi assoluti è giustificata in termini di “halos pragmatico” (Lasersohn (1999)): un insieme di alternative dipendenti dal contesto al significato effettivo (composizionale) di ciascun enunciato, che differiscono da questo in modi pragmaticamente ignorabili.
In primo luogo, i dati riportati al paragrafo 2.1 dimostrano che ci sono tipi diversi di standard anche se ci limitiamo agli aggettivi relativi: non tutti gli standard sono basati su una media (cf. le norme di aspettativa), e alcuni non sono basati sulle classi di comparazione (cf. standard di differenziazione). Allo stesso modo, è necessario permettere la variazione – per quanto limitata – anche nella classe degli aggettivi assoluti, tra aggettivi con uno standard minimo o massimo, e lo spostamento di questo valore orientato al punto terminale della scala. Dunque abbiamo bisogno per entrambe le classi di un algoritmo che determini il tipo corretto di standard di paragone.
Ci sono poi evidenze distribuzionali che gli aggettivi relativi ed assoluti siano dello stesso tipo semantico: entrambi infatti si possono combinare con la morfologia comparativa, a differenza degli aggettivi non graduabili come estinto:
(9) a. Gianni è più alto di Piero.
b. La vasca è più piena della bacinella. c. ?Il mammut è più estinto dei dinosauri.
Assumendo che l'accettabilità della forma comparativa indichi che l'espressione in questione è di un particolare tipo semantico (quello che denota una relazione tra oggetti e gradi su una scala, tipo <d, <e,t>>) Kennedy (2002) conclude dunque che aggettivi graduabili assoluti e relativi sono fondamentalmente membri della stessa classe semantica.
Assumendo che tutti gli aggettivi graduabili denotino relazioni di ordine parziale tra individui e gradi (Seuren (1973); Cresswell (1977); Hellan (1981); von Stechow (1984); Heim (1985); Bierwisch (1989); Klein (1991); Kennedy (1999), (10) rappresenta il loro significato – dove m è una funzione da oggetti a gradi, il cui preciso valore distingue un aggettivo graduabile dall'altro:
(10) [[ [A AggGr] ]] = λdλx.m(x) ≥ d
Questa ipotesi supporta una analisi diretta delle comparative e di altre espressioni di grado: le comparative restringono il valore dell'argomento di grado dell'aggettivo.
Per catturare la vaghezza delle forme positive (non comparative), l'assunzione standard è che la variabile di grado nei predicati aggettivali semplici non sia specificata, ma determinata dal contesto. Un modo di implementare questa idea è quello di assumere che l'argomento di grado
è legato da un quantificatore esistenziale implicito con una restrizione del dominio non specificata, come in (11):
(11) [[ [SA AggGr] ]] = λx. ∃d [C(d) ∧ m(x) ≥ d]
C è una proprietà di gradi, cioè la proprietà di essere maggiore di una media su una scala rilevante per una classe di comparazione.
Questa analisi però non specifica il valore effettivo che C deve assumere in ciascun contesto, ed in particolare non specifica come il valore di C deve essere vincolato a seconda dell'aggettivo (relativo o assoluto). È necessario un algoritmo per identificare il valore della variabile C del dominio contestuale, abbastanza flessibile da permettere la gamma di variazione dello standard osservata. In particolare, a seconda a seconda del contesto linguistico o discorsivo, C deve poter prendere (almeno) i seguenti valori:
(12) a. λd.d è molto più grande della norma (per oggetti x rispetto all'AggGr) b. λd.d è più grande di quanto atteso
c. λd.d è più grande del grado in cui qualche altro oggetto saliente nel contesto è AggGr
d. λd.d è più grande del valore minimo sulla scala di AggGr e. λd.d è uguale al valore massimo sulla scala di AggGr
Il punto è ottenere il valore giusto per il contesto giusto, ed ottenere la distinzione tra aggettivi assoluti e relativi forzando per C una interpretazione come (12d) e (12e) per gli aggettivi assoluti con standard minimo e massimo, rispettivamente.
In altre parole, la determinazione di C deve essere sensibile almeno alle proprietà del soggetto della predicazione, alla classe di comparazione identificata dal contesto, e alle proprietà lessicali dello stesso aggettivo.
3. GRADI
L’analisi semantica degli aggettivi graduabili cui si è già accennato (§ 1) afferma in sostanza che gli aggettivi graduabili mappano i loro argomenti a rappresentazioni astratte di misura, o gradi, e che un insieme di gradi totalmente ordinati rispetto ad una dimensione costituisce una
scala. Questo tipo di analisi assume una ontologia che include il tipo “grado” insieme agli individui, valori di verità, mondi possibili, e così via.
Ci sono varie implementazioni composizionali di questa ipotesi; Bartsch e Vennemann (1972, 1973), e più recentemente Kennedy (1999) analizzano gli aggettivi graduabili come funzioni di misura (del tipo <e,d>). L’aggettivo alto, ad esempio, è una funzione dal sottoinsieme del dominio degli individui che hanno una qualche altezza al grado (positivo) di altezza. Le funzioni di misura sono convertite in proprietà di individui attraverso la morfologia di grado, quale ad esempio i morfemi comparativi (più, meno), intensificatori (molto, davvero, piuttosto, affatto), modificatori vari (troppo, abbastanza, così), quantificatori wh- (quanto, come), e così via. Dal punto di vista semantico, i morfemi di grado hanno due funzioni: introdurre l’argomento individuale per la funzione di misura denotata dall’aggettivo, ed imporre un requisito specifico (determinato dalla semantica dell’elemento lessicale in questione) sul grado derivato applicando l’aggettivo all’argomento individuale, tipicamente relazionandolo con un altro grado. La corrispondenza tra le esigenze semantiche e la forma sintattica degli enunciati che contengono predicati graduabili è perfetta dal punto di vista composizionale se si assume che gli aggettivi graduabili proiettino una struttura funzionale estesa Deg(ree) P(hrase) (sintagma di grado) la cui testa è occupata dalla morfologia di grado appena nominata (Abney (1987), Corver (1990), Kennedy (1999)), e che la proiezione aggettivale è dunque un Deg’’, anziché un sintagma aggettivale.
Una analisi alternativa altrettanto ben rappresentata in letteratura afferma che gli aggettivi graduabili denotino invece relazioni tra gradi ed individui (e che siano perciò del tipo semantico <d, <e,t>>), e che la morfologia di grado saturi l’argomento di grado del predicato (Heim (2002, Bhatt e Pancheva (2004), Neeleman, Van de Koot e Doetjes (2004)). Anche in questo caso gli aggettivi graduabili contengono comunque una funzione di misura come parte del loro significato (per esempio, alto vale di un individuo x e di un grado d solo in caso che l’altezza di x abbia almeno lo stesso valore di d).
L’approccio che denota l’aggettivo graduabile come funzione di misura ha un riflesso trasparente nella sintassi della proiezione funzionale estesa dell’aggettivo (che è indipendentemente motivata), ed è quindi immediatamente composizionale in senso stretto, come si può leggere in (13):
(13) a. La Torre Eiffel è più alta della Torre Montparnasse.
b. …Deg’’
λx.alta(x) > alta(Torre Montparnasse) 3
Deg’ SP
λy.λx.alta(x) > alta(y) Torre Montparnasse 3 4
Deg A della Torre Montparnasse λgλyλx.g(x) >>>> g(y) alta
! ! più alta
Il grassetto in (13b) indica i costituenti semantici, cui corrispondono puntualmente costituenti sintattici; più è la morfologia di grado che occupa la testa del Deg’’ stabilendo una relazione di ordine tra due gradi: uno derivato applicando la denotazione della testa aggettivale (alta) al suo argomento esterno (la Torre Eiffel), l’altro applicandola al secondo termine di paragone (la Torre Montparnasse). La proprietà indicata dal Deg’’ (λx.alta(x) > alta(Torre Montparnasse)) rappresenta la denotazione dell’intero sintagma di grado: il predicato comparativo più alta della Torre Montparnasse è vero di un oggetto se il grado della sua altezza supera il grado di altezza della Torre Montparnasse. La composizionalità delle relazioni di grado ed la mappatura tra sintassi e semantica delle frasi comparative è argomento di ulteriore discussione nel Capitolo 4.