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3 ARGOMENTI NON LINGUISTICI CONTRO IL PRINCIPIO D

3.3 STANDARD DI COMPARAZIONE, SCALARITÀ ED ECONOMIA INTERPRETATIVA

tali funzioni come parte del loro significato, sottintende che gli aggettivi graduabili possano differire nei tratti dell’insieme di gradi che contiene tutti i valori, cioè le loro scale. Le scale sono tipicamente rappresentate come triplette (D, >, δ) – dove D è un insieme di punti (o intervalli) sulla scala, > è un ordine imposto su D, e δ è la dimensione che indica il tipo di misura che la scala rappresenta.

Kennedy e McNally (2005), sulla base della distribuzione dei modificatori aggettivali che selezionano sulle scale gradi minimi (leggermente, parzialmente) o massimi (totalmente, completamente), e delle coppie di aggettivi antonime, argomentano che gli aggettivi graduabili variano anche rispetto alla struttura dell’insieme D, e, in particolare, se questo contiene o meno elementi minimali o massimali – cioè, se la scala che rappresentano è aperta o chiusa. Ci sono dunque quattro possibili variazioni: una scala può non avere né elementi minimali né massimali (scala aperta – es.: costoso); può avere un minimo ma non un massimo (scala chiusa verso il basso – es.: dritto); può avere un massimo ma non un minimo (scala chiusa verso l’alto – es.: puro); o può avere sia un minimo che un massimo (scala chiusa – es.: pieno).

La tipologia scalare di un aggettivo ha conseguenze dirette sull’interpretazione della forma positiva. Gli aggettivi graduabili che mappano i loro argomenti a scale totalmente aperte hanno nella forma positiva interpretazioni relative, vaghe; gli aggettivi che mappano a scale parzialmente o totalmente chiuse hanno interpretazioni assolute.

Le scale aperte mancano, per definizione, di valori minimi o massimi, e dunque gli standard di riferimento orientati al punto terminale della scala, associati agli aggettivi assoluti, non sono

disponibili. Nel significato di un aggettivo a scala aperta non ci sono indizi per determinare se un oggetto “spicca” relativamente alla proprietà denotata dall’aggettivo; per compiere un giudizio del genere è necessaria una classe di comparazione, che può essere tratta implicitamente dal contesto, o esplicitamente attraverso la restrizione del dominio dell’aggettivo – fermo restando che la determinazione di una classe di comparazione può non essere sufficiente a disambiguare la vaghezza dell’aggettivo nei casi limite.

Invece è facile determinare per un aggettivo assoluto (a scala parzialmente o totalmente chiusa) un valore soglia che indichi quando un oggetto “spicca” per quella proprietà: si tratta della transizione naturale da un grado non massimo al grado massimo (per gli aggettivi a scala chiusa verso l’alto) o da un grado superiore allo zero al grado zero (per gli aggettivi a scala chiusa verso il basso).

Kennedy (2007) nota però che in teoria non c’è una incompatibilità semantica intrinseca tra scale parzialmente o totalmente chiuse e una interpretazione relativa della forma positiva (tanto che, come si è visto in § 2.2, è talvolta possibile un uso “impreciso” degli aggettivi assoluti, che ne sposta leggermente lo standard di riferimento). Eppure condizioni di verità vaghe non sono una opzione sempre disponibile all’interpretazione degli aggettivi assoluti. Kennedy propone perciò una corrispondenza di default tra aggettivi a scala chiusa e interpretazioni assolute, in termini di un principio di Economia Interpretativa, che recita: massimizza il contributo dei significati convenzionali degli elementi di una frase nella computazione delle sue condizioni di verità. Il principio in sostanza richiede che le condizioni di verità di un enunciato siano computate per quanto possibile sulla base unicamente del significato convenzionale delle espressioni che lo costituiscono (o della sua Forma Logica), ricorrendo a condizioni di verità dipendenti dal contesto solo quando i significati convenzionali non sono sufficienti.

È evidente come questo principio sia in prima battuta eminentemente composizionale, appellandosi se necessario anche ad una rappresentazione profonda (FL) che comprende significati non manifesti superficialmente (ad esempio, il significato di pos); ma avvalendosi del contributo del contesto in caso di necessità (per stabilire una classe di comparazione, o determinare il valore della funzione che fissa lo standard di riferimento in relazione al contesto) indebolisce in fondo l’aderenza stretta alla composizionalità.

L’effetto del principio di economia interpretativa sulla forma positiva è quello di assicurare che gli aggettivi con scala chiusa siano interpretati in senso assoluto. Uno standard di riferimento relativo, dipendente dal contesto, è in linea di principio una opzione disponibile,

ma poiché la struttura scalare di un aggettivo è parte del suo significato convenzionale, il principio impone che questo tratto determini immediatamente la sua interpretazione.

3.4 POS?

In contrasto con gli approcci sintetizzati nei paragrafi precedenti (che, dettagli a parte, condividono l’assunzione di base che gli aggettivi graduabili incorporino funzioni di misura che mappano oggetti a gradi su scale) è stata sporadicamente proposta in letteratura (Kamp (1975), Klein (1980)) una teoria composizionale del significato dei predicati graduabili che non fa uso dei gradi (né come tipi semantici né come tipi ontologici), ma che li analizza in modo parallelo ad altre espressioni predicative, come funzione del tipo <e, t>.

Il tratto caratteristico dei predicati graduabili è che denotano funzioni parziali, dipendenti dal contesto, da individui a valori di verità. Oltre alle estensioni positiva e negativa, i predicati graduabili possono avere un “vuoto di estensione”, che corrisponde all’insieme di oggetti di cui il predicato non è né vero né falso in un particolare contesto. Tutte queste estensioni possono variare crucialmente in relazione al contesto; questa variabilità è alla base della loro vaghezza, ma anche della semantica delle comparative e di altre espressioni complesse.

Le comparative, ad esempio, implicano la quantificazione su interpretazioni possibili (alias la precisazione) di un aggettivo: x è più A di y è vera solo se c’è una interpretazione di A tale che x è nella sua estensione positiva ma y no.

I due approcci sono dunque speculari: l’uno deriva la gradabilità da una semantica generale per il predicati vaghi, mentre l’altro spiega la vaghezza basandosi sulla semantica della gradabilità.

Un potenziale vantaggio, in termini di composizionalità forte, dell’approccio senza gradi è che rispetta la morfologia superficiale della forma positiva, considerandola dal punto di vista semantico un primitivo: non è necessario postulare un morfema nullo pos o una regola di type- shifting. La marcatezza morfosintattica (forma positiva vs. forma comparativa) rispecchia la complessità composizionale.

Questa linea non è stata però battuta a fondo, anche per la maggiore difficoltà nel maneggiare immediatamente i dati esposti nel § 2, ovvero le proprietà semantiche degli aggettivi graduabili relativi ed assoluti nella forma positiva. Se la vaghezza (intesa come interpretazione variabile e disponibilità alla precisazione) è un tratto primitivo degli aggettivi graduabili ed una condizione necessaria per la comparazione, infatti, ci si aspetta che tutti gli

aggettivi graduabili siano vaghi, mentre gli aggettivi assoluti, come si è visto, hanno estensioni positive e negative fisse, pur essendo pienamente graduabili.

Barker (2002) tenta di ovviare a questo problema definendo le condizioni di verità di un predicato graduabile in termini di scale e gradi, ma senza introdurre i gradi nel tipo semantico dell’aggettivo. Invece di un morfema pos o di una regola di type-shifting che mappa una funzione di misura ad una certa proprietà di individui, Barker definisce una funzione da contesti a denotazioni di predicato che faccia uso delle informazioni sulla struttura scalare di un aggettivo nel fissare le sue estensioni positive e negative, in modo tale che, ad esempio, un aggettivo le cui condizioni di verità sono definite in termini di una scala chiusa verso il basso denoti una proprietà di individui vera solo se l’individuo ha un grado superiore allo zero della proprietà in questione.

4. SEMANTICA DELLE COMPARATIVE

A differenza delle forme positive, le comparative (e le costruzioni di grado in generale) fissano esplicitamente il valore dell'argomento di grado del predicato, indebolendo la vaghezza insita nel predicato graduabile.

Ci sono molte implementazioni di questa idea di base (si veda von Stechow (1984a) per una panoramica), ma la maggior parte condividono l'assunzione centrale che i morfemi comparativi fissano il valore dell'argomento di grado del predicato comparativo richiedendogli di stare in una particolare relazione – > per “più”, < per “meno”, ≥ per “tanto” – con un secondo grado (lo standard di comparazione) fornito dalla frase comparativa.

Una strategia comune è quella di assegnare al morfema comparativo essenzialmente lo stesso tipo semantico di un determinante quantificazionale: il comparatore denota perciò una relazione tra due insiemi di gradi. Uno di questi insiemi è derivato astraendo sull'argomento di grado del predicato principale; il secondo è derivato astraendo sull'argomento di grado di un predicato corrispondente nella frase comparativa.

Questa analisi presuppone dunque che la frase comparativa contenga il predicato. Se nelle comparative in forma frasale il predicato è presente nella forma superficiale, nelle comparative ridotte il predicato è sistematicamente eliminato dalla forma superficiale dell’enunciato da una operazione di ellissi. La determinazione del grado di paragone nelle comparative ellittiche non può quindi procedere immediatamente dall’enunciato, almeno apparentemente contro il principio di composizionalità stretta e l’ipotesi di una corrispondenza uniforme tra sintassi e semantica. Questo punto verrà trattato nello specifico nella Parte Terza di questo lavoro.