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La competenza cautelare degli arbitri nella nuova riforma dell'arbitrato societario

Un progressivo segno di apertura verso il riconoscimento di poteri cautelari in capo agli arbitri si è registrato in ambito di arbitrato socie- tario, grazie alla riforma attuata con il d.lgs. n. 5 del 2003.

Ai sensi dell'art. 35, (5), quando la clausola compromissoria prevede la devoluzione ad arbitri di controversie avanti ad oggetto la validità delle delibere assembleari, gli arbitri godono sempre del potere di decidere, attraverso ordinanza non reclamabile, la sospensione del- l'efficacia di tale delibera. L'aspetto interessante della disposizione consiste nella parziale deroga che essa introduce al generale divieto di cui all'art. 818 c.p.c., scelta giustificata in particolare dalla inoppor- tunità di scindere nettamente le competenze, da un lato giudiziali dal- l'altro arbitrali, alla luce della particolare struttura che caratterizza il processo societario: esso presenta infatti uno stretto rapporto tra tu- tela cautelare – tutela di merito, per cui si ritiene maggiormente con- facente alle esigenze di questa materia affidare l'emanazione anche di provvedimenti interinali allo stesso soggetto, in questo caso l'arbi- tro, che sarà competente a giudicare anche nel merito, ossia sull'an- nullamento della delibera in questione.

L'effetto dell'intervento riconosciuto agli arbitri è limitato all'emana- zione di una inibitoria, che consiste in un provvedimento dichiarativo che non ha bisogno di essere attuato tramite la cooperazione della forza pubblica e del soggetto contro cui è diretto. Gli arbitri paralizza- no, attraverso l'inibitoria, l'efficacia temporanea della delibera assem- bleare; se invece si rendesse necessaria la pronuncia di provvedimen-

ti coercitivi in attuazione della sospensione dell'efficacia della delibe- ra, i poteri degli arbitri si vedrebbero arrestati, a favore di quelli del giudice ordinario, che tornerebbe a godere di un potere esclusivo. 181

181CARPI, “Profili dell'arbitrato in materia di società”, in Riv. Arb., 2003, p. 412; FIEC-

CONI, “Il nuovo procedimento arbitrale societario”, in Corriere Giuridico, 2003, pp. 971 e ss.; RUFFINI, “Il nuovo arbitrato per le controversie societarie”, in Riv. Trim., 2004, pp. 528 e ss.; FAZZALARI, “L'arbitrato nella riforma del diritto societario”, in Riv. Arb., 2002, p. 446; LUISO, “Appunti sull'arbitrato societario”, in Riv. Dir. Proc., 2003, p. 724; BOVE, “L'arbitrato nelle controversie societarie”, in Giust. Civ., 2003, vol. II, pp. 491 e ss.

Considerazioni Riepilogative

Nel capitolo I della presente trattazione mi sono dedicata ad analizza- re in termini generali la decisione conclusiva del procedimento arbi- trale, costituita dal lodo.

Ho affrontato l'annosa questione riguardante la natura di tale provve- dimento, che vede da sempre schierarsi due opposte teorie: la teoria giurisdizionale, secondo la quale al lodo arbitrale sarebbe attribuile la medesima efficacia propria delle sentenze dei giudici ordinari, con conseguente applicabilità dell'art. 2909 c.c. ; secondo la maggior par- te della dottrina a tale orientamento si sarebbe adattato anche il no- stro codice di rito in seguito all'introduzione dell'art. 824 bis (ad ope- ra del d.lgs. n. 40 del 2006), nel quale viene statuito che “il lodo ha,

alla data della sua ultima sottoscrizione, gli effetti propri della sen- tenza pronunciata dall'autorità giudiziaria”.

La seconda teoria, nota come teoria contrattuale si fonda sulla im- possibilità di riconoscere al lodo natura di cosa giudicata, in quanto atto scaturente dalla autonomia delle parti, per cui quest'ultime sa- rebbero vincolate ad osservarlo alla stregua di un negozio.

Ho proseguito poi con l'individuazione di che cosa rientri all'interno del concetto di lodo, avendo riguardo ad analizzare le varie soluzioni adottate nelle diverse fonti: ne troviamo traccia nella Convenzione di New York del 1958 sul riconoscimento e l'esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, e in quella di Ginevra del 1961 sull'arbitrato com- merciale internazionale.

Con riguardo poi al trattamento riservato da parte delle diverse disci- pline nazionali, si può notare come non sussista univocità di vedute in relazione alla nozione di “lodo”; in particolare è interessante quanto stabilito in ambito francese da una sentenza del 2002 della Cour de

Cassation, avallata poi in seguito anche dalla giurisprudenza america-

na, secondo la quale il requisito cui guardare per definire un provve- dimento come lodo sia la sua definitività.

Dopo avere accennato alla fase strettamente deliberativa del lodo, at- tenzione specifica è stata dedicata al requisito della motivazione; ho potuto così constatare come anche riguardo a questo punto non vi sia accordo.

La spaccatura più evidente si profila in relazione ai Paesi di civil law ri- spetto a quelli anglo-americani di common law: per i primi, come ben sappiamo, la motivazione costituisce requisito imprescindibile di qualsiasi decisione giurisdizionale, costituendo l'illustrazione chiara e puntuale dell'iter logico – giuridico percorso dall'autorità decidente per giungere all'emanazione della decisione finale; requisito, dunque, che non può per nessuna ragione difettare.

Un'eccezione è costituita dalla previsione dell'art. 31, (3) della Legge Modello UNCITRAL del 1985, per la quale il lodo deve contenere le ra- gioni su cui si fonda, salvo che le parti non abbiano previsto diversa- mente.

Nei paesi di common law invece è tradizione risalente quella di pre- scrivere l'obbligo per la decisione di contenere il solo dispositivo, am- mettendo la possibilità di inserire la motivazione anche in altro atto dal primo separato.

La questione si profila di primaria importanza in sede di arbitrato tra soggetti appartenenti a Paesi diversi, in quanto il lodo dovrà spiegare i propri effetti in ordinamento diverso; per cui ammettere la necessità o meno della motivazione implica di conseguenza la possibilità di pro- cedere o meno al suo riconoscimento ed esecuzione.

Altro argomento cui ho dedicato attenzione è l'acquisto di efficacia esecutiva del lodo, avendo cura di distinguere tra essa e il concetto di res iudicata. In alcuni ordinamenti tra cui il nostro il lodo non possie- de efficacia esecutiva alla data di emanazione, in quanto è necessario attendere un particolare procedimento a ciò diretto, noto come exe-

quatur.

Bisogna tuttavia ammettere come oggi la maggior parte dei Paesi pre- diligano invece una procedura più semplice per rendere il provvedi- mento arbitrale esecutivo, senza la previsione della necessità del meccanismo suindicato (è quanto avviene in Svezia, Austria e Spagna).

Infine sono passata ad analizzare i meccanismi di impugnazione del lodo, sia in relazione a quanto disposto dalla Convenzione di New York del 1958 sia dalla Legge Modello UNCITRAL del 1985, ed il giudi- ce competente a pronunciarvisi, individuato, dall'art. 34, (1) della L.M. in quello del Paese in cui l'arbitrato si è svolto, con la possibilità, per le parti, di fare invece riferimento alla legge del luogo che discipli- na l'arbitrato, se diversa da quella ove esso si è svolto.

Per quanto riguarda i meccanismi previsti per il riconoscimento del lodo straniero, analizzati all'interno del capitolo II, ho fatto riferimen- to, in primo luogo, alle svariate fonti di matrice internazionale: nel Protocollo di Ginevra del 1923 relativo alle clausole d'arbitrato viene

stabilito, all'art. III, l'impegno a dare esecuzione alle sentenze arbitra- li, ma solo limitatamente a quelle emesse nel medesimo Paese in cui l'esecutività è stata richiesta, sebbene siano state rese in forza di compromessi o clausole compromissorie stipulati in altro Paese con- traente.

Un primo tentativo di superamento di tale limite viene offerto dalla successiva Convenzione di Ginevra del 1927 per l'esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, grazie alla quale viene garantita l'esecu- zione del lodo non soltanto adottato nello stesso Stato in cui verrà eseguito, ma anche di quello emesso in altro Stato.

La Convenzione però, sebbene sia più flessibile riguardo questo pun- to, mostra i propri limiti riguardo ad un altro: essa stabilisce infatti che condizione necessaria per l'esecuzione della decisione arbitrale è il fatto che essa sia stata, in primis, emanata nel territorio di uno Sta- to contraente; secondariamente deve trattarsi di medesimo Stato aderente anche al precedente Protocollo, in quanto la Convenzione si applica soltanto ai Paesi già firmatari del Protocollo del 1923.

Infine l'esecuzione del lodo viene scandita dalle regole di procedura vigenti nel luogo in cui esso è invocato.

Un passo decisivo in avanti viene compiuto dalla Convenzione di New York del 1958 per il riconoscimento e l'esecuzione delle sentenze ar- bitrali straniere, segnando essa un nuovo modo di concepire l'istituto arbitrale.

L'art. I del testo convenzionale si preoccupa di definirne preliminar- mente l'ambito di applicazione: verranno riconosciute ed eseguite tutte le sentenze emesse sul territorio di uno Stato diverso da quello in cui riconoscimento ed esecuzione sono richiesti, riguardanti liti tra

persone fisiche e giuridiche; tali Stati possono anche non far parte della Convenzione.

L'ultima parte della disposizione specifica inoltre che verranno garan- titi riconoscimento ed esecuzione anche alle sentenze arbitrali non considerate nazionali in base al Paese in cui essi sono richieste; con l'aggettivo “non nazionali” ci si riferisce alla circostanza che le parti della lite abbiano fatto riferimento ad una legge nazionale diversa o addirittura non abbiamo preso a riferimento alcuna legge nazionale, preferendo che la controversia sia regolata dalla sola Convenzione. Infine anche questo testo individua come regolatrice la legge di pro- cedura vigente nel territorio in cui il lodo è invocato.

La successiva Convenzione di Ginevra del 1961 sull'arbitrato commer- ciale internazionale non compie progressi rispetto a quella di New York: a differenza anzi di quest'ultima reintroduce infatti il limite terri- toriale costituito dall'appartenenza alla Convenzione di entrambi gli Stati interessati nella lite ai fini del riconoscimento ed esecuzione della sentenza.

Per quanto riguarda le regole deputate a riconoscimento ed esecuzio- ne, esse sono dettate da tutti i testi convenzionali, ad eccezione della Convenzione di Ginevra del 1961; per quanto riguarda la disciplina nazionale relativa all'accoglimento dei lodi stranieri (ossia quelli risul- tanti da una procedura di arbitrato svoltasi all'estero), si deve fare ri- ferimento alle disposizioni degli art. 839-840 c.p.c. integrate con quel- le della Convenzione di New York.

Proseguendo la trattazione è stato affrontato nel capitolo III il di- scusso tema della competenza cautelare in capo agli arbitri e il fonda- mento e le ragioni che stanno alla base della stessa. E' facile notare come la ratio dell'istituto arbitrale, consistente in una definizione più rapida e meno dispendiosa delle controversie, possa venire spesso vanificata dalla necessità del caso concreto di provvedere agli interes- si delle parti coinvolte, senza pregiudicarli.

Questa esigenza fonda l'opportunità si prevedere strumenti volti alla conservazione o preservazione degli interessi in gioco anche all'inter- no del procedimento per arbitri.

Prova della crescente importanza che tali meccanismi hanno conqui- stato negli ultimi anni, ci è offerta dall'attenzione che sempre più molti testi legislativi nazionali in materia arbitrale hanno riservato al- l'argomento in questione: possiamo citare la sezione 38 dell'Arbitra-

tion Act inglese del 1996, oppure le Sezioni 1033 e 1041 dello ZPO te-

desco.

L'operazione di maggiore rilevanza in tema di disciplina del procedi- mento cautelare arbitrale è quella svolta dal Working Group nomina- to nel 1999 dall'UNCITRAL, con lo scopo specifico di elaborare una re- golamentazione più efficace, procedendo alla revisione dell'art. 17 della Legge Modello del 1985.

I lavori del Gruppo si sono conclusi nel 2006 con l'inserimento dell'in- tero nuovo Capitolo IV – A, contenente ben undici disposizioni dedi- cate alla materia cautelare (artt. 17 – 17J).

Il dato che subito risalta agli occhi è la previsione di una disciplina analoga sia in tema di riconoscimento ed esecuzione dei lodi sia dei provvedimenti cautelari.

Ma quale definizione di “misure cautelari” può risultare più appro- priata e universalmente valida per i vari ordinamenti nazionali? Recenti sono stati i tentativi avanzati, in particolare dalla Corte di Giu- stizia della Comunità Europea, la quale si è così espressa: “le misure cautelari e provvisorie sono quei provvedimenti volti alla conservazio- ne di una situazione di fatto o di diritto per preservare diritti dei quali spetterà poi al giudice di merito verificare l'esistenza”.

Altra elaborazione del concetto è pervenuta dalla Commissione sulla Procedura Civile Internazionale (International Law Association - ILA), un'organizzazione no-profit con sede in Gran Bretagna, che ha lo sco- po di “promove the study, clarification and development of interna-

tional law and the furtherance of international understanding and re- spect for international law”.

Dalla definizione data dalla Commissione emerge che “provisional

and protective measures perform two principal purposes in civil and commercial litigation: a) to mantain the status quo pending determi- nation of the issues at trial; b) to secure assets out of which an ulti- mate judgment may be satisfied”.

Le definizioni elaborate dalla dottrina italiana non si discostano da quelle appena menzionate, e da un'analisi comparativa possiamo de- durre come l'elemento a tutte comune sia la funzione propria dei provvedimenti cautelari, che consiste nell'assicurare l'utilità del suc- cessivo giudizio di merito e nell'evitare quelle situazioni deleterie e pericolose che possono verificarsi durante il tempo necessario per ot- tenere la tutela giurisdizionale.

Analizzando le realtà complessive nazionali è possibile individuare la presenza di due tipologie di misure cautelari: la tutela cautelare in

senso stretto è caratterizzata dall'assenza di autonomia, ma anzi è funzionale all'attività di cognizione o esecuzione.

Devono coesistere due presupposti, indispensabili alla concessione di tale tutela: il fumus boni iuris e il periculum in mora; il primo indica la dimostrazione della sussistenza del diritto vantato; il secondo consi- ste nella dimostrazione della gravità e irreparabilità del danno che si verificherà al patrimonio dell'attore qualora la misura non venisse concessa.

Espressione di questo tipo di tutela sono le misure cautelari in rem (misure reali), che assumono nomi diversi nei vari ordinamenti: nel nostro ordinamento abbiamo il sequestro conservativo, in Germania l'arrest, in Francia il saisie conservatoire.

Negli ordinamenti di common law esistono due particolari misure, da quell'ordinamento classificate come personali ma che svolgono la medesima funzione di quelle appena enunciate: si tratta dei famosi

Anton Piller Orders e Mareva Injuctions, istituti che traggono il nome

dai casi in cui per la prima volta sono stati applicati (Anton Piller KG v.

Manufacturing Process Ltd, 1976; Mareva Compania Naviera S.A. v. International Bulkcarriers A.A., 1975).

La seconda tipologia di tutela cautelare è costituita da tutti quei prov- vedimenti la cui ratio è prettamente anticipatoria, ossia mira a pro- teggere l'interesse in via anticipata, prima della pronuncia di merito; per questa ragione, nonostante tali misure condividano con le altre la natura sommaria, a differenze di quelle non possono essere definite cautelari.

Tra queste meritano menzione il Référé Provision francese, al quale ho dedicato uno specifico paragrafo e il Kort Geding olandese; per la

concessione di tali misure non è necessaria l'allegazione dei due ele- menti del periculum e del fumus, ma si fonda piuttosto sulla non seria contestabilità della pretesa, che spesso riguarda crediti pecuniari. Quanto al nostro ordinamento, la classificazione più accreditata e condivisa è quella tra misure provvisorie, la cui funzione è anticipare la decisione, e misure conservatorie, dirette piuttosto ad anticipare l'esecuzione.

In materia di arbitrato internazionale, infine si registra una triplice ri- partizione dei provvedimenti cautelari: vi sono misure che paralizza- no, per tutta la durata del giudizio, i rapporti tra le parti della lite; mi- sure cautelari in senso stretto, dirette a preservare la situazione di fatto o di diritto; e misure relative all'istruzione probatoria, categoria all'interno della quale rientrano i provvedimenti di istruzione preven- tiva e tutti quei provvedimenti volti ad ordinare ad una parte la pro- duzione di documenti, o relativi all'assunzione di prove testimoniali. Questione di primaria importanza è rappresentata dalla discussa que- stione se agli arbitri possano competere o meno poteri cautelari, o meglio, quali siano i limiti intrinseci derivanti dall'ufficio di arbitro. L'opportunità di affidare funzioni cautelari a tali soggetti è abbastanza evidente: innanzitutto ragioni di economia processuale suggeriscono di riunire le competenze cautelari in capo all'organo che si troverà maggiormente vicino alle questioni da affrontare, essendo esso così più in grado di garantire una coerenza e linearità nelle varie decisioni da prendere.

Altra ragione è rappresentata dal fatto che gli arbitri, a differenza dei giudici ordinari, godono di maggiore libertà nella scelta della tipologia e del contenuto della misura da adottare; questo perchè i giudici

sono vincolati strettamente all'adozione di provvedimenti tipici e de- terminati, da scegliere nel ventaglio di quelli disponibili secondo la

lex fori; l'arbitro internazionale invece non è tenuto a seguire una

specifica legge procedurale nazionale, tranne nel caso in cui ciò sia stato espressamente deciso dalle parti, oppure la legge del luogo di svolgimento del procedimento contenga disposizioni imperative rile- vanti per il caso in oggetto. Per cui l'arbitro si troverà praticamente li- bero nell'emanazione della misura, scegliendo quella che egli ritiene più adatta per la situazione di specie.

Con riguardo poi ai limiti è opportuno sottolineare che essendo la fonte dell'arbitrato un contratto, esso non sarà idoneo a produrre ef- fetti che sulle parti oggetto di tale contratto, a discapito di eventuali soggetti terzi.

Inoltre il limite maggiormente pesante si profila qualora sia necessa- rio emanare un provvedimento cautelare, ma il collegio arbitrale non sia stato ancora costituito; come si può agire per evitare che gli inte- ressi della parte vadano per sempre pregiudicati? Una soluzione al problema è stata fornita attribuendo il potere al Presidente del Colle- gio di pronunciarsi momentaneamente da solo, potendo egli preve- dere l'eventualità che gli altri membri partecipino soltanto in una fase successiva, ossia quella deputata alla modifica, conferma o revoca della misura da lui precedentemente concessa.

Riconoscere però competenza esclusiva al cautelare in capo agli arbi- tri si rivelerebbe inadeguato; per questo la soluzione più diffusa nella maggior parte degli ordinamenti è stata dunque quella di delineare un meccanismo di competenza concorrente tra giudici ed arbitri; rico- noscere la legittimazione esclusiva solo in capo a questi ultimi si rive-

lerebbe d'altro canto un grosso ostacolo alla tutela efficacia di ogni tipo di situazione.

Il sistema a competenza concorrente può quindi essere considerato, con rare eccezioni, un principio affermato nell'arbitrato internaziona- le.

Un paragrafo intero è stato poi dedicato a quegli strumenti a disposi- zione dell'arbitro in caso di inadempienza ad opera di una parte: par- ticolare attenzione è stata riservata alle astreintes, uno strumento coercitivo consistente nella condanna di pagare una somma di denaro a carico della parte che non ha ottemperato al proprio obbligo, parti- colarmente diffuso ed accreditato negli ordinamenti belga, olandese e francese.

Quanto infine ai meccanismi previsti per il riconoscimento e l'esecu- zione delle misure cautelari pronunciate degli arbitri, ho proceduto ad una rassegna, seppur sommaria, dei principali modelli nazionali: in primo luogo il modello dell'exequatur, caro alla maggior parte degli ordinamenti internazionali, tra cui alcuni stati americani ed africani; il secondo modello, accolto in Svizzera, è noto come modello dell'assi- stenza del giudice.

Infine un meccanismo misto, che accoglie elementi di entrambi, è quello adottato in Inghilterra.

Accanto ai singoli modelli sono state analizzate le fonti che regolano la materia, sia a livello nazionale sia sovra-nazionale, in particolare la Convenzione di New York del 1958 e la Legge Modello UNCITRAL così come modificata nel 2006.

Ho riservato infine un breve cenno alla normativa italiana, che risulta interessante per essere rimasta ormai isolata, all'interno del panora- ma internazionale, nel prevedere la competenza esclusiva dei giudici ordinari al cautelare, in base all'assunto dell'art. 818 c.p.c.; per con- cludere ho accennato poi alla riforma intervenuta nel 2003 in ambito di arbitrato societario, la quale ha dimostrato un ampio segno di apertura verso il riconoscimento di maggiori poteri cautelari anche in capo agli arbitri, seppur circoscritto ad un oggetto specifico, ossia la pronuncia di validità delle delibere assembleari.