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Dopo esserci soffermati sulla relazione fondamentale che sussiste tra diritto internazionale e società internazionale, da cui deriva il legame, od almeno la non contrapposizione, tra diritto internazionale e sovranità statale29, possiamo passare

28

Phillimore, ibid. , p. 12.

29 Questa questione è fondamentale: sovranità e diritto internazionale non sono in contrapposizione perchè

40 ad analizzare in modo più approfondito la concezione del diritto internazionale di Phillimore.

Per l’autore il diritto internazionale si compone di due elementi, la Legge Divina ed il diritto positivo. Per quanto riguarda la legge divina, essa è a sua volta composta dal Diritto di Natura, iscritto nei cuori degli uomini direttamente da Dio, e dalla legge che, attraverso Cristo, è stata rilevata all’uomo. Per quanto invece riguarda il diritto positivo, esso è istituito direttamente dall’uomo e comprende il diritto scritto e il diritto consuetudinario.

La prima fonte del diritto internazionale è la stessa Legge Divina, e il diritto di natura deve essere considerato come antecedente rispetto alla legge che discende della rivelazione. Phillimore individua la ragione del potere vincolante di questo diritto di natura nel fatto che tutte le nazioni civilizzate, comprese quelle pagane, hanno riconosciuto il valore vincolante di questo diritto nelle relazioni con gli altri stati.

Il riferimento a queste civilized heathen nations cade naturalmente sull’antica Grecia, dove Phillimore rintraccia l’idea che le relazioni tra gli stati debbano ispirarsi a principi generali di giustizia. Phillimore scrive infatti che Aristotele censurò severamente quelle nazioni che volevano confinare il rispetto della giustizia all’interno dei propri confini e negarlo nelle relazioni con le altre nazioni. Allo stesso modo Tucidide criticò aspramente i Lacedemoni, rimprovero che fu ripetuto anche da Plutarco, e Platone si chiedeva, con indignazione, come potesse essere ragionevole l’idea che uno Stato potesse prosperare senza rispettare i diritti degli altri Stati:

These and other historical facts demonstrate that the application of the principles of natural justice to international relations, however imperfectly executed, and though never reduced to system, was not unknown to Greece [international relations].

che racchiude le singole nazioni. (Per Phillimore, oltre alla società internazionale, la comune fonte è rappresentata dalla la volontà divina).

41 Anche nell’Antica Roma, continua Phillimore, ritroviamo questa idea che le relazioni esterne debbano essere guidate da principi di giustizia. E’ pur vero che i romani non distinsero tra lo Jus Naturale dallo Jus Gentium, limitando quindi la possibilità di riconoscere l’esistenza di un diritto nelle sue relazioni esterne, e l’immensa ambizione imperiale dell’Antica Roma non contribuì al dispiegarsi di questi principi.30

Ma, nonostante ciò, Phillimore vede, da una parte, lo Jus Fetiale come un antecedente del moderno diritto internazionale, e, dall’altra parte, interpreta la traduzione del concetto greco di diritto naturale nel concetto giuridico romano dello Jus Gentium come indice del fatto che i principi del diritto di natura, ispirati dall’idea di giustizia, erano riconosciuti da Roma nelle sue relazioni con gli stranieri.

La questione fondamentale che vogliamo mostrare è il fatto che Phillimore ritrovi l’antecedente del diritto internazionale nel riconoscimento di un principio di giustizia in quelle che lui stesso definisce come international relations del mondo antico. Un principio di giustizia iscritto, dalla volontà divina, nella stessa natura umana, da cui discende la necessaria universalità del diritto internazionale. L’universalità del diritto internazionale discende, quindi, dal riconoscimento di una comune e universale volontà divina:

the first important consequence which flows from the influence of Natural upon International Law is, that the latter is not confined in its applications to the intercourse of Christian nations.31

Un diritto internazionale che quindi è efficace anche nelle relazioni tra una nazione cristiana e una pagana, e tra due nazioni non cristiane, seppure in forma meno perfetta. L’idea è che esista un diritto comune a tutti gli uomini, come mostrano i classici dell’antica Grecia dell’antica Roma, che, anche se è stato pensato in modi

30 Phillimore, ibid. , pp. 15-16. 31 Phillimore, ibid. , p. 17.

42 diversi in epoche differenti, fonda un diritto universale. La concezione universale del diritto internazionale di Phillimore si fonda quindi su uno schema triadico:

Volontà Divina – Jus Naturale – Diritto Internazionale

La prospettiva classica groziana derivava, da questo comune fondamento del diritto internazionale sul diritto naturale, indipendentemente dal legame con la volontà divina, l’idea dell’esistenza di due diversi diritti internazionali. Un diritto universale che deriva dall’azione divina e/o dalla natura razionale dell’uomo, ed un diritto internazionale particolare che accomunava le nazioni cristiane.

Questa distinzione si mantiene nelle pagine di Phillimore. L’autore distingue infatti tra un diritto naturale iscritto nei cuori di tutti gli uomini in tutte le epoche dalla volontà divina, e un diritto di natura derivato dalla Rivelazione Divina che ha permesso all’uomo di comprendere la vera origine di questo Jus, e quindi limitato alle nazioni cristiane.

Ma qui non si tratta più, come era invece per Grozio, di concreti istituti giuridici comuni a tutti gli uomini, ma piuttosto, come abbiamo visto anche nelle pagine di Wheaton, di un principio di Giustizia che è di per sé universale, e quindi conosciuto anche dai popoli non cristiani, ma che solo con la rivelazione raggiunge il suo livello più elevato.

Solo se si considera questa differenza si può comprendere perché Phillimore scriva che i classici pagani avevano già potuto intuire l’esistenza dello jus naturale senza riferirsi ad esso, ma che la sua compiuta comprensione è potuta avvenire solo con la rivelazione cristiana che permise all’uomo di vedere per la prima volta come questo diritto naturale fosse iscritto direttamente nei cuori degli uomini dal Dio cristiano. Nella storia pensata da Phillimore, quindi, lo stesso Jus Naturale, nel suo legame con la volontà divina, è immerso nella convinzione del progresso, nel senso di un mutamento teso al raggiungimento del grado massimo della verità rivelata (da qui anche la ragione del più alto livello raggiunto dal diritto internazionale tra le nazioni cristiane).

43 In questo senso dobbiamo modificare lo schema inizialmente proposto, dove dalla Volontà divina discende sia un Diritto Naturale comune a tutti gli uomini che determina un diritto internazionale universale (che, come vedremo tra poco, si riduce all’idea che sia giusto rispettare le norme e le consuetudini vigenti), che un Diritto (Naturale) Rivelato da cui emerge il diritto delle nazioni cristiane.

Jus Naturale Diritto Internazionale Universale

Volontà Divina →

Jus (Naturale) rivelato → D.I. delle Nazioni Cristiane

Come abbiamo già scritto, l’universalismo del diritto internazionale può discendere da una particolare concezione dell’uomo o del mondo, nel nostro caso la religione cristiana, o può essere concretamente misurato in funzione dell’estensione spaziale di un particolare istituto giuridico. In riferimento al Diritto Naturale, quando esso definisce un principio di giustizia comune a tutti gli uomini in funzione del quale poter giudicare il diritto positivo, ci troviamo di fronte al primo caso, mentre quando si riferisce a concreti istituti giuridici comuni a tutti gli uomini, come, per esempio, il trattamento degli ambasciatori, ci troviamo di fronte al secondo caso.

Se Wheaton affidava la questione della definizione del principio di giustizia al suo concetto di moralità internazionale, nelle pagine di Phillimore invece ritroviamo entrambi gli aspetti del diritto di natura.

Da una parte,infatti, Phillimore afferma l’idea dell’universalità diritto naturale fondata sulla visione del mondo di matrice cristiana (Il Dio cristiano che iscrive nei cuori degli uomini). Dall’altro lato si interroga su quali siano i concreti istituti giuridici comuni a tutti gli uomini. Nel primo caso parleremo di un diritto internazionale il cui universalismo è pensato, in funzione di una particolare visione del mondo, nel secondo caso invece parleremo di un diritto internazionale il cui universalismo è concretamente esperito attraverso l’individuazione degli istituti giuridici universali, in quanto comuni a tutti gli esseri umani.

44 Quando però Phillimore deve confrontarsi con questo secondo aspetto, si trova costretto a fare i conti con culture completamente diverse da quelle europee o di origine europea. Non è un caso che Phillimore citi lo stesso passo di Montesquieu ricordato da Wheaton sugli Irochesi: il loro diritto naturale prevede la consuetudine dell’antropofagia dei prigionieri.

Se quindi esiste, e deve esistere, un diritto di natura di origine divina, è però difficile far conciliare questa universalità con il fatto che quei selvaggi si cibino dei loro prigionieri. La soluzione che Phillimore individua per far conciliare l’universalismo pensato e l’esperienze della diversità è quella di ridurre la concezione del diritto di natura, (mentre Wheaton invece era più propenso ad abbandonare il riferimento a questo diritto). Così Phillimore commenta il passaggio di Montesquieu:

In altre parole queste barbare nazioni riconoscono, anche quando compiono queste azioni abominevoli, che certe regole devono essere reciprocamente rispettate nelle relazioni tra di essi, sia in pace che in guerra.32

Qui il diritto di natura si riduce al fatto che si devono rispettare certe regole, non importa se tra queste vi sia l’infanticidio o il cannibalismo, tra entità politiche autonome. E’ quindi un diritto minimo, quello naturale, che proprio grazie a questa genericità mantiene il suo carattere universale. Se questa è la sfera più ampia, che racchiude l’intera umanità, Phillimore pensa naturalmente anche ad un sfera più ristretta costituita dal diritto positivo stabilito sulla base dei costumi e delle consuetudini degli Stati Cristiani.

Nelle pagine di Phillimore intravediamo quindi l’immagine di un mondo distinto da una sfera universale in cui però l’umanità è unita da un diritto naturale discendente dalla volontà divina che impone solo il rispetto delle norme e delle consuetudini vigenti, ed una sfera particolare che racchiude le nazioni cristiane.

45 La prima conseguenza pratica che Phillimore deriva da questa duplice costruzione è il dovere da parte degli Stati cristiani di rispettare i principi generali di giustizia nelle relazioni con i popoli non cristiani:

Il punto più importante, comunque, è quello di stabilire che i principi della giustizia internazionale governano, o devono governare, le relazioni (dealings) degli Stati Cristiani con le Comunità di Infedeli. Questi principi vincolano, per esempio, la Gran Bretagna negli scambi con le potenze dell’India; la Francia con le popolazioni africane; la Russia nelle sue relazioni con la Persia o l’America; gli Stati Uniti d’America nei rapporti con i nativi indiani. 33

Nelle relazioni tra Stati cristiani gli obblighi imposti dal diritto internazionale si fanno però più precisi ed efficaci, sia perché “la comune adesione al cristianesimo rafforza l’osservanza del diritto naturale”34, sia perché il cristianesimo introduce il senso e la percezione di un’unità, quella appunto della cristianità, superiore rispetto a quella della nazione:

Christianity […] binds together by close though invisible ties the different members of Christendom, not destroying indeed their individuality, but constituting a common bond of reciprocal interest in welfare of each other, in lieu of that exclusive regard of isolated nationality, which was the chief, though certainly not the sole end proposed to itself by the Heathen State.35

Esiste quindi una comunità che sovrasta il singolo Stato la quale vincola lo Stato, favorendo il rispetto del diritto internazionale proprio perché lo stesso Stato percepisce questo senso di appartenenza.

Phillimore continua scrivendo che molti autori, tra cui Burke e Savigny, hanno definito questo sentimento come moralità internazionale (international morality), ma afferma di non condividere questa scelta, tesa a limitare il concetto di diritto

33

Phillimore, ibid. , p. 23.

34 Phillimore, ibid. , p. 23. 35 Phillimore, ibid. , p. 24.

46 solo ai trattati, ai costumi e alle consuetudini, in quanto verrebbe meno la necessità di sottolineare la subordinazione dello Jus la cui fonte è il consenso degli stati rispetto allo Jus la cui fonte deriva da Dio.

In questo modo Phillimore può affermare che il diritto divino, sia esso derivato dalla natura o dalla rivelazione, limita il campo a disposizione del diritto internazionale positivo, in quanto nessuno stato può contravvenire la volontà divina. “Positive Law, whether National or International, being only declaratory, may add to, but cannot take from the prohibitions of Divine Law”36. Il diritto internazionale positivo è quindi vincolato al rispetto di definiti principi di giustizia, proprio perchè ancorato al diritto divino naturale e rilevato:

Upon this principle we may unhesitatingly condemn as illegal and invalid all secret articles in treaties opposed to the stipulations which are openly expressed. Upon this principle it is clear that a custom of country to destroy and plunder foreigners shipwrecked upon their shores must always be an outrage upon the rights of Nations.37

Questa descrizione del diritto positivo di Phillimore dimostra come l’universalismo viene meno quando si misura la concreta estensione spaziale dei singoli istituti giuridici. Quando l’autore si interroga sui contenuti concreti e reali dello jus in bello, o sullo jus ad bellum, o sulla neutralità, non troviamo alcuna traccia di un diritto comune a tutti gli uomini, ma un diritto comune alle nazioni cristiane, non diversamente da quanto abbiamo visto nelle pagine di Wheaton. Se quindi possiamo applicare a Phillimore il modello a sfere concentriche elaborato da Wight e Bull, in cui la sfera universale, comune a tutti gli uomini, è rappresentata dal diritto naturale, e la sfera particolare è rappresentata dal diritto delle nazioni cristiane, dobbiamo però sottolineare il carattere chiuso ed escludente della sfera particolare. Un carattere chiuso ed escludente che deriva dal fatto che, accanto all’idea di un diritto internazionale universale, rimane il particolarismo

36 Phillimore, ibid. , p. 26. 37 Phillimore, ibid. , p. 27.

47 degli istituti giuridici concreti e reali. Questo riferimento all’idea di un diritto universale discendente dal diritto naturale verrà meno nel momento in cui, alcuni anni dopo, si porrà il concreto problema di universalizzare, nel senso di ampliare a livello globale i confini del diritto internazionale, gli istituti giuridici sorti nella civiltà europea, non più cristiana, che presto non sarà più nemmeno europea ma semplicemente moderna.

In questo senso, possiamo parlare di prospettiva spaziale del diritto internazionale non solo in riferimento all’universalismo inscritto nell’idea del diritto naturale che troviamo nelle pagine di Phillimore, ma anche in riferimento alla concreta estensione degli istituti giuridici positivi che compongono l’ordinamento giuridico internazionale.

Quindi, tornando alle pagine di Phillimore, possiamo affermare che, nonostante conservi l’universalismo di matrice cristiana, il suo sguardo è ben lungi dall’essere compiutamente globale, ma è, al contrario, marcatamente euro-centrico.

Una prospettiva che non solo è europea ma è soprattutto continentale, volta verso l’est europeo e il bacino del mediterraneo, a discapito del Nuovo Mondo. Infatti, per quanto riguarda il nuovo continente, Phillimore si limita ad affermare che gli americani, in quanto discendenti da popoli cristiani, sono sottoposti non solo al diritto internazionale universale ma anche a quello positivo di origine europea. Nonostante ciò, gli Stati Uniti, alla luce della dottrina Monroe, possono esprimere liberamente la propria volontà di non essere coinvolti nelle guerre e nella politica europea (continentale), pur rimanendo comunque reciprocamente coinvolti nella medesima politica coloniale nelle Americhe.

Più complesso invece è il suo discorso sull’Europa dell’Est, ed in particolare in riferimento al caso della Turchia. Da una parte, quando si trova di fronte alla questione della definizione dei soggetti del diritto internazionale, include l’Impero Turco.

Potremmo allora pensare che già in Phillimore sia presente una concezione potenzialmente globale del diritto internazionale, nel senso dell’idea di un ordinamento giuridico europeo che si predispone ad espandersi e ad includere gli stati non europei, o di origine non europea.

48 Ma, come abbiamo già scritto, l’universalismo di Phillimore non presuppone la concreta e reale possibilità di includere a pieno titolo gli stati non cristiani. La

Porta infatti è inclusa nell’ordinamento giuridico internazionale solo per due

ragioni, il diritto di natura comune a tutte le nazioni ed i trattati ed il diritto consuetudinario che disciplinano le sue relazioni con gli stati europei, mentre invece non troviamo alcun riferimento ad un criterio universale di inclusione a cui tutti gli stati, indipendentemente dalle origini e dalla cultura, possono accedere. Ed infatti, nella parte finale del primo volume [p. 635 e successive], Phillimore scrive che nessun riconoscimento formale dell’adesione dell’Impero Turco al sistema europeo, con il riconoscimento dei diritti e dei doveri propri di ogni Stato indipendente, può togliere il fatto che, in conseguenza della differenza di religione, tra il cristianesimo e l’Islam, essa è posta in una posizione anomala e inferiore rispetto agli altri membri del sistema europeo. Ci troviamo perciò di fronte ad un diritto internazionale i cui principi ultimi, nel senso della volontà divina e dello jus

naturale, sono universali ma i cui istituti giuridici concreti rimangono comunque

spazialmente e culturalmente delimitati.