Non diversamente da Wheaton, Phillimore deve fare i conti con il problema della sanzione delle violazione alle norme del diritto internazionale. In altre parole,
52 l’autore deve dimostrare l’esistenza di un vero e proprio ordinamento giuridico nonostante l’assenza di un’autorità statuale che imponga il suo rispetto.
Phillimore sostiene che la tesi che nega l’esistenza del diritto internazionale in conseguenza dell’assenza di una potestà superiore in grado di imporre il rispetto del diritto confonde due distinte questioni: la sanzione fisica che deriva dal fatto che il diritto venga imposto da un’autorità superiore, e la sanzione morale che deriva dal riconoscimento dei principi fondamentali che compongono il Diritto. I mezzi attraverso i quali una sanzione viene concretamente eseguita non inficiano il valore della norma che è stata violata. Per questo il diritto internazionale rimane diritto nonostante l’assenza di una potestà superiore:
But, irrespectively of any such means of enforcement, the Law must remain. God ha willed the Society of States as He has willed the society of individuals. The dictates of both may be violated on earth: but to the national, as to the individual coscience, the language of a profound philosopher is applicable: “Had it strength as it had right, had it power as it ha manifest authority, it would absolutely govern the world (Bishop Butler, Sermon III, On Human Nature).41
L’idea è che le obbligazioni internazionali discendano dal diritto naturale e dal diritto consuetudinario, e i trattati stipulati tra stati possono solo rafforzare l’obbligo di rispettare questi principi42. Il principio stesso dell’inviolabilità dei trattati internazionali, pacta sunt servanda, trova il suo fondamento nei diritti antecedenti, naturale e consuetudinario, nella sanzione divina e nella garanzia della pace:
Upon a scrupulous fidelity in the observation of treaties , not merely in their letter but in their spirit, obviously depends, under God, the peace of the world. […] the treaty braking State is the great enemy of Nations, the disturber of
41
Phillimore, ibid. , p. 77.
42
“The international obligations arising out of Natural or costumary Law may receive additions and restraints from specific Conventions or Treaties.” Phillimore, ibid. , Vol II, p. 68.
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their peace, the destroyer of their happiness, the obstacle of their progress, the cause – to sum up all charges – of the terrible but necessary evil of the War.43
In altre parole, il fatto che il diritto internazionale, non diversamente da quello interno, venga spesso non rispettato dagli stati, non dimostra in alcun modo la non esistenza di questo ordinamento giuridico. Il fatto è che gli stati non possono, senza correre alcun pericolo, distaccarsi nella pratica da quelle idee che hanno riconosciuto come i principi guida “of their relations with the Commonwealth of Christendom”44.
Anche in questo caso vediamo come l’assenza della sanzione viene supplita dal riferimento alla società internazionale che vincola gli stati. Una società che, in quanto pensata ancora come società cristiana, trova un ulteriore pilastro nella religione e nella sanzione divina. Una società internazionale che proprio grazie all’influenza dello spirito cristiano è giunta a limitare la violenza in guerra:
To put to death the unarmed and unresisting prisoner, to poison the enemy, to sell the captivity into slavery, to employ the arm of the assassin, are practices which the voice of Christendom ha both probated and rendered illegal. […] Those harsh and barbarous practices, that pushing of a principal to its most odious extreme, has ceased to be among the legal usages of War. An abstinence from them, which Bynkershoek would have ascribed of dictates of magnanimity (animi magnitudo) and not to the obligations of right (justitia), is now enjoined by the recognised warfare of civilized states.45
La religione cristiana quindi come fonte principale da cui scaturiscono sia il fondamento delle sanzioni che le concrete limitazioni alla violenza in guerra:
That enemies, during the fiercest raging of war, must keep their word and fulfil their plighted faith, is an undeniable maxim of all civilised States; without the religious observance of these obligations, proposals of peace could
43
Phillimore, ibid. , p. 70
44 Phillimore, ibid. , p. VII dalla prefazione alla terza edizione. 45 Phillimore, ibid. , vol. III, pp. 83-84.
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never be entered upon, and horrors of war would be perpetual. […]Every belligerent acts upon the presumption that the usages of civilised War will be observed. Hence, Flags of Truce, Cartels for the exchange of prisoners, Passes, Safe Conducts, are holden sacred by all States.46
Non è quindi casuale che Phillimore dedichi l’ultima parte del secondo volume, in tutto oltre duecento pagine, alle relazione tra la religione e gli stati, in particolare al problema che definisce come “lo statuto internazionale di una forza spirituale straniera” come la religione cattolica rappresentata dal Papa. Ma proprio questo legame con la religione cristiana rende il suo universalismo spazialmente limitato, nel senso della concreta estensione dei singoli istituti giuridici positivi, tanto da affermare che “It was once a matter of serious doubt and discussion if one nation could enter into Treaties with another which professed a different religion”.
Gli autori che lo seguiranno, impegnati nel problema dell’estensione degli istituti giuridici internazionali per disciplinare l’espansione della società internazionale europea, abbandoneranno proprio questo universalismo di matrice cristiana.
55
Capitolo III.
Gli Stati Uniti e il Diritto Internazionale. Theodore, D. ,
Woolsey (1801-1889)
Nella prefazione alla quarta edizione del 1874 troviamo due affermazioni che sintetizzano i tratti caratteristici della visione del diritto internazionale di Theodore Woolsey47.
La prima si riferisce all’obiettivo pratico che si pone la sua opera, un trattato, scrive Woolsey, che non è pensato né diretto verso i giuristi di professione, ma è scritto per “young men of liberal culture”in modo tale che siano in grado di stabilire “what is acknowledged justice between state and state”. Qui abbiamo, l’idea che il diritto internazionale sia composto da quell’insieme di norme che le nazioni civilizzate rispettano nelle relazioni reciproche, e che gli Stati Uniti devono rispettare in quanto appartenenti a questo circolo.
La seconda idea, sempre dalla prefazione del 1874, si riferisce al carattere universale del Diritto Internazionale, non nel senso di una sua attuale caratteristica, ma nel senso di una sua futura possibilità:
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The author had been engaged for a number of years in teaching international law and in giving lectures on history. The forward movement of this law over the world, the possibility of a universal Law of Nations, spreading itself like the universal gospel over mankind, was the though of greatest interest attending on the study.48
In questi due brani, e forse già solo in quel “ciò che è riconosciuto come giusto nelle relazioni tra stati”, possiamo trovare le due fondamentali idee che caratterizzano le pagine del giurista statunitense:
1. Il primato attribuito allo stato nella formazione del diritto internazionale, da cui discende la sua potenziale universalità.
2. Il diritto di natura diviene una questione esclusivamente morale.
L’introduzione si apre con un implicito richiamo ai principi della Dichiarazione d’Indipendenza attraverso cui Woolsey sottolinea il legame tra il diritto internazionale e la questione della definizione di un principio di giustizia su cui esso si deve fondare:
In order to protect the individual members of human society from one another, and to make just society possible, the creator of man has implanted in his nature certain conceptions which we call rights, to which in every case obligations correspond. These are the foundations of the system of justice, and the ultimate standard with which laws are compared to ascertain whether they are just or unjust […] on this basis within the state […] a system of law grows up.49
Ciò che differenzia le relazioni all’interno di uno stato rispetto a quelle tra gli stati è il fatto che a livello internazionale, continua Woolsey, nessun diritto è imposto ad essi da un potere esterno. Ma gli stati non potrebbero intrattenere alcuna relazione se non riconoscessero i comuni diritti e doveri. Da questo riconoscimento della comune natura e finalità tra gli Stati sorge il Diritto Internazionale:
48 Woolsey, ibid. , p. X. 49 Woolsey, ibid. , p. 1.
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They have, as States, a common nature and destination, whence an equality of rights arises. And hence proceeds the probability of a law between nations.50
Un diritto internazionale il cui fondamento è pensato come ciò che scaturisce dalla natura comune degli stati da cui deve derivare il reciproco riconoscimento e quindi lo stesso ordinamento giuridico.
Vediamo quindi come la sua concezione del diritto internazionale si fondi, a livello teorico, sull’identificazione di un principio di giustizia comune alla natura degli stati. Ma da questa posizione teorica non discende, come invece vedremo nelle pagine di Lorimer, una visione teorico-filosofica del diritto internazionale tesa ad identificare i principi e le norme che devono costituire l’ordinamento giuridico internazionale. Al contrario Woolsey sottolinea immediatamente come si ponga la necessità di distinguere tra il diritto come è, ed il diritto come dovrebbe essere, secondo tali principi di giustizia. Il diritto internazionale potrebbe infatti essere definito, partendo dalla prospettiva teorico-filosofica, come quell’insieme di regole norme e principi che governano le relazioni tra gli Stati e che possono essere dedotte da questi diritti e attributi morali che discendono dalla comune natura degli stati. Ma, continua Woolsey, poiché una tale definizione del diritto internazionale risulterebbe eccessivamente astratta, è preferibile procedere alla distinzione tra un diritto internazionale teorico ed un diritto internazionale esistente, e non al fine di realizzare, attraverso il confronto tra di essi, un codice internazionale perfetto, in quanto corrispondente al principio di giustizia, ma piuttosto con l’obiettivo di utilizzare la corretta definizione del principio di giustizia che deriva dalla prospettiva teorica come pietra di paragone rispetto alle attuali regole e consuetudini, poiché “in ogni scienza giuridica è molto importante distinguere tra il diritto come esso è e il diritto come dovrebbe essere”51.
Da questo ragionamento discende evidentemente una visione del diritto internazionale riconducibile al positivismo giuridico:
50 Woolsey, ibid. , p. 2. 51 Woolsey, ibid. , p. 3.
58
In a more limited sense international law would be a system of positive rules which by the nations of the world regulate their intercourse with one another.52
Ma anche questa definizione risulta troppo ampia perché non esiste concretamente un ordinamento internazionale comune a tutte le nazioni:
Neither have the more civilised states of the east agreed with those of Europe, none the States of antiquity with those of modern times.53
Cercando una definizione sempre più precisa, Woolsey, infine, ancora la sua visione del diritto internazionale alla comune cultura che unisce gli stati appartenenti a tale ordinamento, definendo il diritto internazionale come le regole “che gli stati cristiani riconoscono come obbligatori nelle loro relazioni reciproche”, con queste due interessanti precisazioni:
1. Gli Stati Cristiani ora controllano l’opinione tra gli uomini, la loro visione del diritto ha cominciato ad espandersi oltre i confine della Cristianità, come in Turchia, in Giappone e in Cina54.
2. La definizione non può essere ampliata fino ad includere il diritto che governa gli Stati Cristiani nelle loro relazioni con gli stati selvaggi o semi civilizzate55.
Questo riferimento alla Cristianità non deve indurre a pensare che in Woolsey il fondamento del diritto internazionale risieda nel concetto di società internazionale, declinato nel duplice significato di comune cultura e di solidarietà tra gli stati. In
52 Woolsey, ibid. , p. 3. 53
Woolsey, ibid. , p. 3.
54
“That a Christian States are now controllers of opinion among men, their views of law have begun to spread beyond the bounds of Christendom, as into Turkey, Japan and China” Woolsey, ibid. , p. 4.
55 “The definition cannot justly be widened to include the law which governs Christian States in their
59 primo luogo, qui non abbiamo l’idea della communitas christiana, l’idea cioè di una civiltà che ad un certo punto della sua storia si organizza in singole comunità indipendenti, ma l’idea di un insieme di stati accomunati da una comune religione. Qui vediamo, in altre parole, l’idea del primato statale rispetto al primato attribuito alla dimensione unitaria che racchiude gli stati.
Perciò, anche se i confini del diritto internazionale sono ancora limitati agli Stati cristiani (ma l’ordinamento giuridico sta progressivamente includendo altri stati civilizzati appartenenti ad altre culture), non si deve dimenticare che il fondamento di questo diritto rimane il riconoscimento della comune natura e della comune finalità delle nazioni, da cui derivano i comuni diritti e attributi morali, da cui scaturisce il diritto internazionale.
Da questa struttura teorica discende il modo particolare attraverso cui Woolsey pensa l’espansione del diritto internazionale. Qui la potenziale universalità è la conseguenza dell’idea dell’universalità dell’organizzazione politica, la nazione, da cui discendono i principi a partire dai quali emerge il diritto internazionale. E’ Da questa prospettiva, l’universalità della nazione, che discende la conclusione teorica che il diritto internazionale dovrebbe/potrebbe includere tutte le nazioni del mondo, anche se concretamente l’ordinamento giuridico internazionale è limitato alle nazioni cristiane.
Questa importanza attribuita al primato statale emerge quando deve trattare della questione della genesi del diritto internazionale. Scrive infatti che esistono due diverse tipologie di diritti, quelli protetti e sanciti da un potere esterno, e quelli protetti dalla stessa persona titolare di tale diritto. Il diritto internazionale rientra in questa seconda tipologia:
First of all, the single state sets up for itself its views of right against other states […] If it gives up its isolation, it freely forms in intercourse with other states a common right or law, from which now it cannot longer set itself free, without offering up, or at least endangering, its peaceful relations, and even its existence.56
60 Abbiamo citato questo brano di Woolsey per mostrare quanto nelle sue pagine sia rilevante l’influenza della storia della formazione della nazione Americana. “If it gives up its isolation” è una frase che assume senso solo se posta in relazione con la storia degli Stati Uniti, la loro nascita e il problema delle relazioni da intraprendere con il Vecchio Mondo. Quando, negli stessi anni, i giuristi inglesi parlavano dell’origine degli Stati e, conseguentemente, del diritto internazionale, discutevano della transizione dalla potestà universale del medioevo alla progressiva affermazione dell’organizzazione politica statuale. Per i giuristi inglesi, in altre parole, l’idea era quella della progressiva formazione di un insieme di Stati all’interno di un contesto di norme, valori e principi generalmente riconosciuti. Qui invece abbiamo l’idea di uno Stato che si forma come entità politica autonoma e che si trova, inizialmente, in una condizione di libertà come conseguenza del suo isolamento. Da questa condizione iniziale può liberamente formare vincoli e norme con gli altri stati, rinunciando alla sua libertà originaria ma riuscendo così a garantire le relazioni con gli altri Stati:
From the nature and destination of a State, it must in a sense be as truly separate from the rest of the world, as if it were the only state in existence. It must have an exclusive right to impose laws within its own territory, the sole regulations in general of its subjects, the sole determining power in the regard to the forms of its organization.57
Quando gli stati abbandonano l’iniziale isolamento in cui si trovano, emerge, attraverso il reciproco consenso, un diritto internazionale necessario per permettere le relazione politiche e commerciali tra di essi. Esiste quindi un diritto che nasce dalle reciproche relazioni tra gli stati, ma il diritto internazionale del XIX secolo ha da lungo tempo superato quel livello iniziale grazie al ruolo svolto dalla comune civiltà:
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Stati Isolati → Diritto Internazionale → Civiltà → Diritto internazionale XIX secolo
Il problema allora è quello di comprendere quale sia l’origine della Civiltà, che caratterizza il diritto internazionale del XIX secolo, determinandone i suoi stessi confini:
As states have diverse interests and opinions, it takes time before a seeming interests can be given up, even after right is acknowledged to be on other side; and it takes time to bring the views of nations to a common standard.58
E’ quindi la crescita delle interazioni tra i diversi Stati che porta all’emergere di quelle sensibilità verso i principi di giustizia che alla fine conducono al diritto internazionale contemporaneo. Woolsey infatti scrive che uno Stato che si trovi ad un basso livello di civilizzazione, come i selvaggi, giunge a definire la propria identità quando si trova a lottare per la sua stessa sopravvivenza, maturando quel sentimento di auto-difesa che permette di costituire il senso della propria identità unitaria. Qui la guerra diventa un insegnamento morale:
Opposition to external force is an aid to highest civic virtues. But if this where all there could be no recognition of obligations towards foreigners, no community of nations, in short, no world. These conceptions grow up in man, from the necessity of recognizing rules of intercourse, and intercourse is itself a natural necessity from the physical ordinances of God. Self-protection and the intercourse are thus the two sources of International Law ; they make it necessary, and the conception in man of justice, of rights and obligations, must follow, because he has a moral nature.59
Possiamo quindi riformulare lo schema presentato precedentemente, in questo modo:
58 Woolsey, ibid. , p. 6. 59 Woolsey, ibid. , pp. 5-6.
62 Stati Isolati Diritto Internazionale → Civiltà → Diritto internazionale
↓ ↑
Self-Protection
International Intercourse (necessità naturale voluta da Dio)
Nel paragrafo successivo Woolsey si interroga sulle ragioni per cui per cui il diritto internazionale sia sorto solo tra gli stati cristiani (Why this law arose in
Christian States?), una domanda che si può porre solo se si pensa ad un diritto
internazionale universale che si sviluppa entro confini particolari. Negli autori inglesi questa stessa domanda era formulata nei termini delle ragioni per cui la Communitas Christiana – Europa – Civiltà aveva creato quel diritto internazionale, che univa gli stati e mostrava, sul finire del XIX una capacità di espansione oltre i suoi confini originari. Nelle pagine di Woolsey vediamo invece come l’inversione del soggetto sia l’espressione di una concezione universalista del diritto fondato sulla Stato-nazione. Woolsey risolve questa questione scrivendo che la risposta deve essere rintracciata nelle cause che hanno condotto gli Stati cristiani al più alto livello di civiltà, in modo che essi fossero i primi a elaborare un sistema di diritto internazionale60.
1. Una religione comune caratterizzata da un alto livello di senso di giustizia e di umanità.
2. L’eredità spirituale proveniente dalla filosofia e dalla scienza giuridica degli stati dell’antichità, in particolare il diritto romano.
3. Una stretto legame storico (historical connection), la cui origine deve essere rintracciata nell’antico impero romano, che ha favorito l’emergere di idee comuni (common ideas)61.
60
The same causes which have enabled Christian states to reach a higher point of civilization than any other, have made them the first to elaborate a system of International Law. Woolsey, ibid. , p. 7.
63 Nelle pagine dedicate alla definizione dei principi che hanno condotto gli stati cristiani alla formazione di un sistema di diritto internazionale compare il concetto di società internazionale, formulato nei termini di community of states, laddove scrive che la religione, la tradizione giuridica comune ed un simile percorso storico, in cui gli stati rimangono comunque pensati come le entità prime, hanno condotto alla formazione di una “community of states, where it is comparatively easy for common usage to grew up.”62