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Il principio fondamentale, comune a tutta la riflessione giuridica del XIX secolo, da cui nasce la stessa possibilità di pensare ad uno Jus in Bello, è che gli stati

possono fare la guerra. Il compito del diritto non è tanto quello di limitare la

violenza in guerra, ma di sistematizzare e chiarire quelle norme regole e principi che gli stati riconoscono come reciprocamente vincolanti nelle relazioni reciproche. Il compito della riflessione giuridica non era quello di produrre norme, ma piuttosto quello di facilitare il rispetto di queste norme da parte degli Stati grazie alla sua azione chiarificatrice. Come abbiamo già scritto, questa concezione del diritto si regge sul riconoscimento dell’esistenza di una società internazionale (commonwealth of state, the whole body of civilised states , society of states). Attraverso il riferimento all’idea di società internazionale questa riflessione giuridica trova la risposta al problema dell’origine delle norme internazionali e alla questione della fonte di normatività dell’ordinamento giuridico internazionale. In entrambi i casi la risposta rimanda alla società internazionale, pensata sia come fonte normativa primaria (la limitazione della violenza in guerra è il risultato della civiltà cristiana-europea) sia come sede della sanzione (la società, gli stati civili,

117 reagiranno contro la violazione delle norme riconosciute come legittime). Vediamo ora come questo tema emerge nelle pagine di Hall dedicate al diritto bellico.

Il primo problema che l’autore si pone è se lo scoppio di una guerra sospenda tutti i trattati internazionali vigenti tra le nazioni in guerra prima dell’inizio delle ostilità. L’argomentazione di Hall inizia con l’esposizione delle diverse tesi sostenuti del XIX secolo, dalle pagine di Wheaton, in cui si afferma che tutti i trattati sono sospesi, alle pagine di Bluntschili, Calvo e Heffter, dove invece si sostiene che nessun trattato perda la sua validità giuridica, a meno che non sia esplicitamente dichiarato come non più vigente, o non sia compatibile con le necessità imposte dalla condotta militare.

Dopo aver considerato questi giuristi il suo sguardo si volge verso l’analisi dei recenti cambiamenti sorti in conseguenza della stipulazione di trattati internazionali. Nel trattato di Parigi, con cui si era conclusa la guerra di Crimea, si era affermato che, fino al momento in cui le convenzioni e i trattati antecedenti allo scoppio della guerra non fossero stati rinnovati o modificati, il commercio doveva essere sostenuto in base alle regolamentazioni antecedenti l’inizio delle ostilità. Gli stessi principi erano stati confermati nella guerra tra l’Austria e il Regno di Sardegna, riconfermati poi nel trattato di Vienna del 1866. In riferimento a questi trattati (afferenti a quelle che lo stesso Hall definisce come relazioni sociali tra gli stati) l’autore conclude:

It would seem reasonable that they should continue or be suspended at the will of either of the belligerents147.

Anche in questo passaggio vediamo la tensione tra la salvaguardia della volontà statale, in ultima analisi è lo Stato che decide se rispettare quelle norme, ed il riconoscimento di un’unità superiore da cui discendono gli effetti mitigatrici della violenza in guerra.

Continua, infatti, Hall scrivendo che, indipendentemente dai trattati che riconoscono quelle agevolazioni necessarie a mantenere il commercio tra gli stati

118 europei, rimane come principio fondamentale dello diritto bellico il fatto che i cittadini di uno stato nemico devono comunque essere considerati come nemici. Nonostante ciò, prosegue l’autore, negli ultimi anni si sono realizzate importanti limitazioni rispetto a questo generale principio, ma queste concrete deroghe sono state o troppo generali o troppo legate agli interessi particolari degli stati coinvolti, o non sono state supportate da una diffusa e generale consuetudine, da poter essere considerate come eccezioni stabili e durature148. Probabilmente, conclude, l’unico principio che si è generalmente affermato è quello che si riferisce al trattamento di un cittadino appartenente ad uno stato nemico che si trovi sul territorio dell’altro stato al momento dello scoppio delle ostilità.

Discutendo del grado di violenza legittima durante una guerra ritorna il principio che abbiamo già visto in Wheaton e Phillimore , ma questa volta privo dell’orpello rappresentato dal diritto naturale. Hall scrive infatti che il grado di violenza legittimo durante un guerra è quello fornito dalle ragionevoli necessità belliche; lo stesso principio che Wheaton affermava quando scriveva che il diritto naturale vietava qualunque violenza se non quella strettamente necessaria per la condotta militare.

Da questo principio generale Hall deriva l’affermazione che la guerra deve essere diretta innanzitutto contro le forze armate dello stato nemico, mentre l’intimidazione e la violenza contro i civili è illegale in quanto la giustificazione militare, indebolire la resistenza del nemico, è troppo incerta per rendere giustificabili tali azioni. L’unico limite posto alla tutela dei civili è dato dal fatto che spetta agli stessi belligeranti il compito di stabilire le misure necessarie per le operazioni militari, e, inoltre, i civili non sono protetti dalle violenze che subiscono indirettamente dalle operazioni militari, come durante il bombardamento di una città assediata, e l’esempio corre al bombardamento di Parigi durante la guerra Franco-Prussiana.

La validità di queste limitazioni della violenza, e le altre che Hall elenca, è però legata al reciproco rispetto da parte dei belligeranti. Perciò, nel caso in cui uno

119 stato non rispetti queste norme, le stesse forme di limitazione della violenza in guerra vengono meno. Anche nelle pagine di Hall vediamo l’idea di una progressiva evoluzione del diritto internazionale verso una maggiore limitazione della violenza:

Gradualmente il diritto estremo di appropriarsi di tutte le proprietà dello stato nemico è stato moderato dalle consuetudini influenzate dai più moderati sentimenti delle epoche recenti.149

L’espressione di questa graduale mitigazione della violenza compare anche nelle pagine che Hall dedica all’istituto giuridico della occupatio bellica. L’affermarsi di questo istituto giuridico, scrive Hall, è un fenomeno relativamente recente, che non era conosciuto nelle epoche precedenti perché l’occupatio presuppone una concezione della sovranità non meramente fattuale, riferita al concreto possesso e controllo di un territorio, legata al solo atto di forza attraverso il quale si conquista un lembo di terra. Da questa primitiva visione della sovranità, continua Hall, discendeva il diritto da parte del sovrano di poter disporre a proprio piacimento del territorio conquistato, diventando esso stesso, durante il periodo di occupazione, il legittimo governante degli abitanti di quel territorio150.

Ancora durante la prima metà del diciottesimo secolo la pratica degli stati si adeguava a questa teoria; solo con la fine della guerra dei sette anni queste violente consuetudini cominciarono ad essere gradualmente abbandonate. Vattel, continua Hall, è colui che ha compiuto il primo passo affermando che un sovrano perde i suoi diritti su un territorio che è caduto nelle mani del nemico solo alla conclusione del trattato di pace attraverso il quale viene ceduto questo territorio. Secondo Vattel, nel momento in cui l’acquisizione di un territorio è solo momentanea, almeno finché un trattato non stabilirà i nuovi diritti, lo stato conquistatore non può fare ciò che desidera del territorio ma è obbligato a compiere solo quelle

149 Hall, ibid. , p. 435. 150 Hall, ibid. , p. 482-483

120 azioni ostili necessarie al perseguimento delle ostilità. Questa è la stessa base su cui Hall fonda la legittimità di questo istituto giuridico:

The rights of occupations may be placed upon the broad foundations of simple military necessity151.

Dobbiamo tener conto che l’affermazione che lo stato occupante può fare tutto ciò che è necessario per la prosecuzione della guerra, porta con sé una limitazione della sua sfera d’azione, seppure lo stato rimanga il giudice ultimo di tali confini, in quanto questa idea conduce al principio secondo il quale lo stato occupante può occuparsi solo di quelle materie e di quei casi inerenti alla conduzione delle operazioni militari. Da ciò ne consegue che, seppure non è possibile definire uno schema generale all’interno del quale siano stabiliti gli ambiti di competenza del potere occupante, esistono però alcune materie in cui il consenso generale vieta alla potenza occupante di intervenire, come nel caso delle leggi che si riferiscono alla proprietà privata, le relazioni personali, le norme che regolano l’ordine morale della comunità, le leggi che disciplinano gli affari religiosi, e lo stato occupante non può limitare la libertà di opinione nelle materie che non coinvolgono direttamente i suoi interessi militari.

D’altro canto, continua Hall, se gli abitanti di un territorio si levano in armi possono essere uccisi o sottoposti alla corte marziale, e, in taluni casi, gli abitanti del paese o del territorio in cui si suppone che sia stato organizzato un attentato possono essere colpiti da rappresaglia.

E’ qui evidente che l’esperienza concreta a cui l’autore si sta riferendo sono i problemi sorti durante la guerra franco-prussiana. Guerra a cui lo stesso autore si riferisce quando afferma l’illegittimità dell’utilizzo da parte dell’esercito prussiano di ostaggi francesi sui treni per evitare attentati, illegittimità che si concretizzò nella generale condanna rivolta all’esercito prussiano.

La memoria delle esperienze di questa guerra riemerge quando Hall afferma la legittimità del bombardamento degli edifici civili di una città assediata152. La sua

121 argomentazione è che, pur essendo una misura estremamente crudele, rimane però riconosciuta come legittima “and it was largely resorted to during the Franco- Prussian war of 1870”153. La sua argomentazione continua quindi riferendosi al “Manuel de Lois de la Guerre” dell’Istituto di Diritto Internazionale, nel quale si legge che non è possibile contestare la pratica di questa strategia militare, ma le considerazioni di carattere umanitario impongono alcune limitazioni, come il fatto di limitare il più gli effetti del bombardamento alle sole strutture militari, che prima di iniziare i bombardamenti si avvertano le autorità locali, che si cerchino di escludere i luoghi religiosi, le opere d’arte e gli edifici a carattere scientifico, gli ospedali, nel mentre si impone l’obbligo all’assediato di dichiarare la posizione di questi edifici.

Abbiamo riportato questi singoli esempi per mostrare il modo attraverso il quale l’autore pensa il processo progressivo di limitazione della violenza in guerra. E’ pur vero che il cardine, il giudice ultimo, di queste limitazioni rimane lo Stato, ma vediamo come lo Stato sia comunque appartenente ad una civiltà, ad una società internazionale, che né limita questa presunta assoluta libertà, condizionandone le scelte. Il significato dell’idea di Hall emerge solo se si comprende che, dal suo punto di vista, la limitazione della guerra nasce dai “customs of war”, dalle consuetudini, generalmente condivise dagli stati partecipi di una stessa civiltà, cultura, società internazionale.

Per comprendere la logica del ragionamento di Hall ci soffermiamo su un altro istituto giuridico volto alla limitazione della violenza, la neutralità. L’idea su cui si sorregge il suo discorso è quella che abbiamo già descritto, tra il medioevo e la modernità gli stati europei creano quell’insieme di istituti giuridici che infine formano quel diritto internazionale necessario per evitare l’affermarsi del caos nelle interazioni reciproche154. Se quindi, nell’ordinamento internazionale contemporaneo, la neutralità è diventato un istituto generalmente riconosciuto,

152

Hall, ibid. , pp. 556-558.

153 Hall, ibid. , p. 557. 154 Hall, ibid. , p. 598 - 600

122 Hall si chiede come si deve comportare una nazione neutrale nei confronti di una nave da guerra che si rifugia in un porto nemico senza violare la neutralità.

L’assunto di partenza è che lo stato desideri mantenere la propria neutralità. In questo senso, la risposta: “è sovrano e quindi può agire secondo la propria volontà” non è sufficiente. E non è sufficiente non perché Hall non riconosca la sua sovranità, ma perché il riconoscimento della neutralità richiede che gli altri stati riconoscano che questo stato agisce da neutrale. In altre parole, è necessario che l’argomentazione abbandoni il piano meramente statale, è libero di fare ciò che vuole perché è sovrano, per guardare le relazioni che si instaurano tra gli stati. Io posso agire come voglio, ma se voglio che gli altri stati riconoscano la mia neutralità, allora sono obbligato ad agire in modo tale che gli altri non possano dubitare del mio comportamento. Ma, perché non vi siano dubbi, è necessario che vi siano delle regole, inter-statualmente riconosciute, che definiscano quali debbano essere i comportamenti adatti, quali debbano essere i diritti e doveri propri dello stato che si dichiari neutrale. Ed a queste regole sono obbligato ad attenermi, almeno che non voglia rinunciare alla mia neutralità.

Rimane perciò la libertà dello stato, ma dal commonwealth of states, emergono quelle regole a cui, come stato, in funzione dell’obiettivo che voglio ottenere (nel nostro caso la neutralità), devo, sono obbligato a, rispettare.

Si aggiunga che la logica delle pagine di Hall, la logica della scienza giuridica come è pensata da Hall, è quella di sistematizzare razionalmente e gerarchicamente proprio queste norme, principi e regole che emergono dalle consuetudini degli stati e che disciplinano le relazioni che si instaurano tra di essi. Un diritto internazionale, quindi, che è il risultato, continuamente soggetto a mutamento, di questa opera di sistematizzazione compiuta dai giuristi.

In questo senso, Hall riesce a conciliare la libertà dello stato con la normatività del diritto internazionale. Ma può raggiungere questo obiettivo solo attraverso il riferimento alla società internazionale. Infatti, il diritto internazionale nasce dalle consuetudini degli stati, che si trovano in una comunità formatasi dopo la crisi dell’istanza universale del Papa e dell’Imperatore, per rispondere al problema di dare ordine a tale comunità.

123 Si aggiunga che le regole che compongono questo diritto sono coinvolte in un processo di continuo mutamento-miglioramento verso una maggiore umanizzazione delle relazioni tra gli stati, il quale dipende dall’evoluzione dei costumi della civiltà.

Nonostante Hall dedichi poco spazio alla riflessione sulla società internazionale, la sua idea del diritto internazionale non poteva reggersi senza il riferimento a quell’unità superiore agli stati che lui stesso definisce come “the body of civilised

states”.

Hall pensava ad un diritto internazionale la cui funzione fosse quella di mantenere l’ordine nelle relazioni tra gli stati, dove le consuetudini erano la prima e fondamentale fonte normativa e dove il problema dell’ordine era una questione che affliggeva essenzialmente le relazioni tra gli stati Europei. Per questa ragione la sua attenzione era essenzialmente volta al diritto europeo, mentre dedicò poco spazio al resto del globo. Tuttavia, nelle sue pagine si realizzava il primo passo verso la possibilità dell’espansione dell’ordinamento giuridico internazionale. Infatti, accanto al ripudio del precedente universalismo rappresentato dal diritto di natura, emergeva la possibilità, per quanto futura, di includere in questo ordinamento giuridico (originariamente europeo) quelle entità politiche che ora venivano definite come stati semi-civilizzati. In altre parole, la precedente idea di un insieme di norme comuni a tutti gli uomini veniva sostituita dall’idea di un comune processo di civilizzazione, il cui livello più elevato era stato raggiunto dagli stati europei (o di origine europea). Questa idea di una comune civilizzazione, e di un’umanità divisa in funzione dei livelli di civiltà, verrà approfondita da Alfred Thomas Walker.

125

Capitolo VI.

L’idea di un comune processo di civilizzazione. Alfred

Thomas Walker. (1862-1935)

Walker, Thomas, Alfred (1862-1935) scrisse nel 1893 la sua prima importante opera dedicata al diritto internazionale:

The Science of International Law155. Questo suo importante lavoro si apre con la stessa questione della definizione del diritto internazionale, e, come per gli autori precedenti, il riferimento critico è il positivismo giuridico di Austin. Walker inizia il suo trattato scrivendo che:

International Law if it be law, consists, we may not doubt, in certain rules, of conduct which the progress of civilisation teaches one portion of mankind to observe in their mutual dealings as members of different states.156

Contro Austin, Walker afferma che, se è vero che una norma di condotta deve prevedere una qualche forma di imposizione, e se l’osservanza di questa norma nella comunità cessa completamente, essa non più essere considerata come diritto, “but the truth is that the opinion of an indertimante body is often a sanction more effective than are the penalities annexed by a determinate legislator”157. Negli

155

Walker T. A. , The Science of International Law, London, Clay and Sons, 1893.

156 Walker , ibid. , p. 3. 157 Walker , ibid. , p. 16.

126 stessi anni Sumner Henry Maine stava conducendo i suoi famosi studi sul diritto antico e proprio citando questi studi Walker poteva affermare che il diritto può esistere anche laddove non vi sia un potere che emana le leggi ed un potere né sanziona la violazione.

In questo modo, attraverso il dialogo-confronto con le pagine di Austin, Walker formula l’idea che l’ambito del diritto si riferisca alla definizione delle norme che disciplinano la condotta umana. Walker costruisce quindi una visione del diritto il cui cardine diventa la predisposizione dei singoli soggetti ad ubbidire alle norme del diritto internazionale, giungendo a chiedersi se gli stessi obiettivi del Legislatore non siano quelli di assicurare l’ordine non attraverso alcune concrete sanzioni materiali ma attraverso la diffusione della convinzione della necessità morale di obbedire alle leggi:

It is not precision of definition, not yet precision of punishment, which lends its lasting effect to law, but a law-abiding spirit in the people. It is not absence of determinate sanction which makes a people lawless, but a law morale. […] The end of law is not the construction of a formally faultless Code, but Order and Education, the guarding and guiding of the destinies of Men. It were a pure ethical teaching for any society to refer right and wrong to the bare terms of Command.158

Nella prospettiva di Walker, il diritto interno è composto da quelle norme di condotta che gli uomini, in quanto membri di uno stato, rispettano o riconoscono come vincolanti tra di essi in quanto membri dello stesso stato, mentre il diritto internazionale è composto da quelle norme di condotta osservate dagli uomini come appartenenti a stati differenti, “though members of the same International Circle”159. Il diritto internazionale eisiste quindi nella misura in cui esistono una pluralità di stati le cui relazioni debbano essere regolate. Per quanto lo stato non sia ancora, scrive Walker, un’organizzazione politica universale, è comunque la forma politca assunta dalle nazioni civilizzate:

158 Walker , ibid. , pp. 31-35. 159 Walker , ibid. , p. 45.

127 State-life is not yet universal, but State-life is the common lot of

civilised men. Men being State-members observe or recognize laws, and the laws they observe or recognise either as members of the same State or as members of different states. And thus arises the distinction between Municipal and International Law.160

Se il diritto internazionale dipende dall’appartenenza di una pluralità di stati ad un medesimo International Circle, non universale ma limitato alle nazioni civilizzate, il principio cardine di questo ordinamento non può non essere altreo che il riconoscimento della reciproca sovranità:

International law is now neither more nor less than the expression, in the like terms of conduct, of the recognition by men of the applicability of the doctrine of territorial sovereignty to international relations. State jurisdiction is conterminous with state-territory: this is the foundation of all municipal law, and its recognition by the members of International Circle, together with certainly similarly recognised exceptions, must constitute the root-basis of the science of International Law. International and Municipal Law alike express the all comprehensive principle, that each and every State-sovereign is over all persons, and in all causes, within his dominions supreme.161

Non ci dovrebbe ormai stupire il fatto che il principio fondante della visione del