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Il Museo aziendale nell’attualità

3.3 Comunicare il Museo ogg

Il valore dell’inclusività democratica delle istituzioni museali è senz’altro affine all’idea di Europa welfarista che si afferma negli anni ’50 e ’60 (Da Milano & Sciacchitano, 2015). In Italia, già negli anni ’70, la comunicazione visiva nei luoghi culturali, anche se con qualche ritardo rispetto Inghilterra e Olanda, inizia a delinearsi per tentare di ampliare l’accessibilità al museo per nuovi audience, tanto che in quegli anni la grafica preposta a questo tipo di comunicazione venne definita “grafica di pubblica utilità” (Ferrara, 2007). Da quel momento in avanti il mondo museale, e della cultura artistica in genere, inizia ad interrogarsi sulle esigenze del visitatore, permettendo l’evolvere del concetto di visitatore-alunno in quello di 30 visitatore-utente libero di scegliere tra la vastità delle informazioni (Villaespesa, 2013; Simon, 2010; Falk, 2009; Korn, 1992).

Nel contesto museale diventa importante perseguire l’obiettivo di essere quanto più un’istituzione accessibile e trasparente, cercando di mitigare il senso di inadeguatezza e spaesamento che può avvertire il visitatore non abituale, sostenendo al contrario una comunicazione culturale strutturata in base all’eterogeneità dei pubblici. Al museo è conferito il compito di stimolare il visitatore proponendo esperienze sempre aggiornate, poiché la mera visita non deve essere intesa come un unicum, ma un appuntamento che si rinnova tra il visitatore e l’istituzione (Mottola Molfino, 2006). Riprendendo di nuovo la ricerca redatta da

News-Italia riguardante l’informazione museale da parte dei pubblici generici, si può asserire

che la dieta mediale emersa non appare unitaria. Gli italiani sembrano infatti avere preferenza nel rintracciare informazioni culturali relative a musei e mostre partendo dai media generalisti, come la televisione o i quotidiani, mentre, nel mondo Web, affermano di prediligere l’informazione attraverso il sito internet ufficiale dell’istituzione o il profilo Facebook, definito quale social media di maggiore accessibilità (Antonioni & Raimondi, 2018). Lo studio non tiene conto dei dati socio-demografici relativi all’età dell’utenza, all’occupazione, alla provenienza o al genere, ma è un interessante punto di partenza per iniziare a pianificare delle strategie comunicative funzionali per i musei italiani. Il museo è lo spazio in cui la sinestesia diviene la chiave di lettura necessaria per coinvolgere tutti i sensi

Pochi anni più tardi si accorda un ampliamento dell’offerta dei servizi del museo con la Legge Ronchey del 1992, la quale

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sposta l’attenzione sull’esperienza del visitatore e allarga la proposta dei musei con i cosiddetti servizi aggiuntivi, necessari per favorire il benessere psico-fisico durante la visita museale.

del visitatore (Munari, 2010), ed è dunque compito delle strategie comunicative quello di rintracciare un sistema di codici e connessioni volto a favorire l’emozionalità, la curiosità e l’interazione, poiché ogni elemento fa parte del grande insieme simbolico della comunicazione (Watzlawick, Beavin & Jackson, 1971).

Il valore dell’immersività, centrale in ambito museale, deve essere quindi declinato non soltanto come mero apparato scritto, ma come un insieme di linguaggi - visivo, acustico, tattile, olfattivo - concertati all’unisono per stimolare la pluralità dei pubblici, o le “intelligenze multiple” che possono essere correlate a differenti stili di apprendimento (Gardner, 2013). Bisogna, pertanto, ragionare sul fatto che il pubblico non può essere inteso come una massa uniforme o blob da istruire (processo top-down), bensì, deve essere descritto come un’entità eterogenea determinante nella vita del museo attraverso ogni scelta che compie (processo bottom-up) (Giorzet & Vellar, 2018; Bartoletti & Patrinieri, 2012). Per questa ragione, l’audience development, ossia l’insieme di azioni volte ad ampliare e diversificare il pubblico, non può essere tradotta come semplice aumento numerico dei visitatori, ma come partecipazione attiva alle proposte del museo, aumentando anche la qualità del livello esperienziale (Bollo, Carnelli, Dal Pozzolo, Seregni & Vittori, 2014). C’è una netta demarcazione tra chi decide di entrare in contatto con il mondo culturale istituzionalizzato e chi invece ne resta fuori per motivi talmente vari da rendere difficoltoso il rintracciamento delle cause. Una scelta del tutto personale che viene compiuta da parte del visitatore che decide di allacciare o meno un patto con l’istituzione museale, partecipando o allontanandosi dalla vita culturale di quel luogo (Boccia Artieri, Gemini, Pasquali, Carlo, Farci & Pedroni, 2017).

Le 50 sfumature di pubblici teorizzate da Bollo (2014) si estendono, appunto, dagli utenti facilmente coinvolti, agli occasionali, ai potenziali e di prossimità, per arrivare al non- pubblico, accettando il fatto che quest’ultimo per un proprio disinteresse non potrà essere raggiunto dalle solite strategie di comunicazione emesse dall’istituzione museale. Ponendo alla base le dinamiche del raggiungimento si può instaurare una modalità comunicativa propedeutica all’intercettazione di pubblici, ossia un approccio iniziale durante il quale il museo dovrà proporsi in modo sempre più attraente, accessibile e aggiornato nella

lo studio delle dinamiche comunicative e promozionali dei musei aziendali, composte dall’unione delle operazioni delle strategie offsite che l’istituzione decide di attivare investendo anche in approcci inusuali e al di fuori della propria sfera di competenza. In questa prima intercettazione dei pubblici il ruolo della comunicazione digitale è certamente una componente determinante se si vuole raggiungere l’obiettivo di incuriosire il visitatore che da potenziale potrebbe divenire reale e fisico (Bollo, Carnelli, Dal Pozzolo, Seregni & Vittori, 2014; Morcellini, Consolo, D’Ambrosi, Lai & Martino, 2011). L’utente intercettato potrà dunque scegliere di divenire visitor e, una volta vinto l’effetto soglia (Lugli, 1992), dopo aver scavalcato le barriere sociali, cognitive, emotive e psicologiche per approcciarsi alla realtà museale, sarà compito delle attività di engagement il soddisfare, l’incuriosire, nonché il fidelizzare ogni singolo partecipante. Il pubblico deve essere visto come il nucleo centrale a tutte le strategie attivate dal museo, visione allineata con l’approccio costruttivista di Hein (1995), il quale vede il singolo soggetto come co-curatore capace di fruire, interagire, interpretare ed ideare un significato culturale del tutto personale, accrescendo in tal modo la propria conoscenza e l’autorealizzazione per l’esperienza svolta (Simon, 2010).

Nell’attualità, caratterizzata dalla convergenza culturale (Jenkins, 2006), il concetto di

partecipatory museum di Simon (2010) è esondato dagli argini dell’architettura fisica, 31

trasportandosi nella volontà dell’utente stesso di poter creare contenuti multimediali attraverso i canali social, vestendo il ruolo di prosumer in grado di generare ulteriori significati (Degli Espositi 2015; Ritzer & Jurgenson, 2012; Ritzer, 2010). Grazie a programmi che offrono ai visitatori la possibilità di condividere, adattare, modificare, costruire e curare i propri contenuti digitali, i modelli di coinvolgimento che traslano dal reale al virtuale, o viceversa, sono ormai diventati una comune aspettativa. Quindi, come dal Web 1.0 si è passati al Web 2.0 e al successivo Web 3.0, allo stesso modo l’istituzione museale dovrà evolvere in un museo aderente al contesto sociale e comunicativo contemporaneo (Bonacini, 2012), investendo e coadiuvando il ruolo attivo del visitatore-utente a partire dalle strategie comunicative sviluppate in Rete, le quali dovranno essere avviate solo dopo un’attenta analisi di benchmark e di identificazione dei pubblici di riferimento (Bollo, Carnelli, Dal Pozzolo, Seregni & Vittori, 2014).

“The participatory museum” è un libro consultabile online redatto da Nina Simon, curatrice indipendente con esperienza

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nell’ambito del design partecipativo. Grazie all’esperienza nel settore, Simon crea Museo 2.0, un’azienda di design che lavora con musei, biblioteche e istituzioni culturali in tutto il mondo per realizzare mostre dinamiche e programmi educativi guidati dal pubblico.

E’ bene aggiungere che quello del prosumer è in realtà un ruolo ricoperto con semplicità dall’utenza contemporanea, poiché la possibilità di lavorare con criteri di auto-espressione customizzati è intrinseca nella natura stessa dei social media, dove il concetto di identità individuale viene espresso nel decretare il gradimento, la soddisfazione e soprattutto la scelta di una connessione selezionata con altri profili, pagine o gruppi (Caruth & Shelley, 2007). Basti pensare a social network come Facebook che richiedono una dettagliata rappresentazione digitale del proprio account per migliorare l’interazione con gli altri utenti, o a canali semi-professionali quali LinkedIn che si basano proprio sulla creazione di una rete di conoscenze partendo da collegamenti selezionati (Giaccardi, 2012; Effing, Van Hillegersberg & Huibers, 2011; Simon, 2010). Un processo “from me to we” come lo definisce Simon (2010) che, se utilizzato in contesti culturali, potrebbe dare vita a comunità di utenti associati da interessi artistici, quali appunto i musei, che potrebbero entrare a far parte del dibattito quotidiano del mondo del Web (Bonacini, 2012). Un aspetto da evidenziare riguarda proprio la capacità di sperimentazione avviata da alcuni musei storico-artistici che hanno comunicato e promosso la propria esistenza e le proprie collezioni con strategie innovative e con un appeal davvero attrattivo per gli utenti (Chung, Marketti & Fiore, 2014; Dudareva, 2014; Caruth & Shelley, 2007).

E’ questo il caso di quando linguaggi seduttivi ereditati dal glossario pubblicitario vengono liberamente affiancati a tematiche culturali, come se si volesse “vendere” non un prodotto di natura commerciale, ma un’opportunità esperienziale e di accrescimento culturale (Ferrara, 2007). Ottimi esempi di comunicazione, difatti, arrivano proprio da musei artistici che, interiorizzando la contemporaneità dei cambiamenti socio-culturali, si impegnano a raggiungere e coinvolgere i visitatori con linguaggi ben declinabili nelle piattaforme social e Web. Basti pensare alla struttura del sito del Rijksmuseum di Amsterdam, nel quale viene messa a disposizione la possibilità di creare un account e di selezionare le opere delle collezioni per creare una propria bacheca personalizzata grazie ad un sistema di gradimento simile al “like”. Un funzionamento che ricalca il modello dei maggiori social, come ad esempio Pinterest o Instagram, e che affida la maggior parte della propria comunicazione all’immagine più che al testo scritto . Un’interazione a tale livello apre sicuramente nuove 32

modalità differenti, dovrebbero abbracciare l’idea comune del co-autoraggio prosumerico e partecipato (Bollo, 2014; Bartoletti & Paltrinieri, 2012; Simon, 2010). Si potrebbe dunque pensare al museo d’impresa come ad uno strumento di narrazione del brand heritage-based che vuole custodire ed esaltare il proprio patrimonio, la propria storicità, (Iannone, 2016) valorizzando il capitale culturale aziendale (Montella, 2008). O, più specificatamente, come ad un format privilegiato per la diffusione della memoria collettiva aziendale, un tassello facente parte della tastiera comunicativa sviluppata per l’heritage mix (Martino, 2013).

Quando l’azienda decide di comunicarsi attraverso un museo inevitabilmente si riallaccia ai propri valori identitari che la contraddistinguono dalle altre aziende dello stesso settore merceologico, diventando un importante plus metanarrativo per emergere tra i competitors (Iannone, 2016). Per tale ragione, raccontare e promuovere questo collegamento storico e culturale non è meno importante di altre strategie di marketing messe in atto dall’azienda stessa con maggiore facilità di dispendio di energie e risorse. Sebbene la realtà di

Museimpresa faccia sperare in una sempre crescente promozione e coinvolgimento dei musei

in attività collettive, attualmente alcuni associati restano molto distanti dall’idea di comunicazione museale ben strutturata e strategica. Fattore non trascurabile, specialmente quando si parla dell’utilizzo delle piattaforme partecipative dei social network. Tali strumenti, infatti, pur essendo i canali consigliati per una promozione identitaria democratica e all’avanguardia, molto spesso, soprattutto per motivi legati alla governance in atto, trovano parecchie resistenze ad essere inglobati nelle strategie comunicative dei musei industriali italiani (Antonioni & Raimondi, 2018; Crabini, Ducci, Raimondi, 2018; Martino, 2015).