Capitolo secondo Percorsi di integrazione tra identità in
2.1 Il concetto di identità
Nel capitolo precedente è stato analizzato il processo di costruzione e di consolidamento dell’identità nell’età dell’adolescenza. Sono stati illustrati i risultati ottenuti da alcuni studi condotti su questo tema in campo psicologico67, in Italia e all’estero, negli ultimi cento anni. Da questa analisi è emerso che l’identità è un costrutto multidimensionale in continua evoluzione, difficilmente etichettabile sotto un’unica nomenclatura, per alcuni aspetti è paragonabile ad un prisma di vetro, che, a seconda dell’orientamento della luce, proietta colori diversi. Definire l’identità in base ad un solo colore equivale a ridurre ad un unico elemento una realtà assai più complessa ed articolata.
Questo aspetto poliedrico dell’identità è stato messo in evidenza anche da altre ricerche condotte in settori disciplinari diversi, ma per alcuni aspetti complementari (studi sociologici, antropologici e pedagogici)..
Nella prima parte del capitolo particolare importanza è stata riservata alla dimensione socio-antropologica (problematicizzazione del concetto di “cultura”, definizione di identità “etnica”, differenze tra assimilazione ed integrazione, eccetera). Nella seconda parte,
66
Maalouf A., l’identità, Bompiani, Milano, 2001.
67
Vedi Erikson E. H. Gioventù e crisi d’identità, Armando, Roma, 1977; Grinberg L., Grinberg R.,
Identità e cambiamento, Armando, Roma, 1992; Mancini T., Psicologia dell’identità etnica, Carocci,
Roma, 2008; Santos Fermino A. . Santos Fermino A., Identità trans – culturali. Insieme nello spazio
invece, è stato dato maggiore rilievo alla prospettiva pedagogica: sono stati messi in evidenza sia il legame esistente tra la percezione che il soggetto ha di sé68 e il percorso scolastico intrapreso (scelta della scuola, risultati scolastici, prospettive future, eccetera), sia l’influenza esercitata dalla variabile “migrazione” nel processo di costruzione dell’identità nei giovani di origine straniera.
Per studiare e comprendere il processo di formazione e consolidamento dell’identità all’interno di contesti migratori è necessario fare un passo indietro e soffermarsi sul senso di appartenenza che i soggetti nutrono nei confronti della società d’origine, ovvero sull’identità etnica.
Ugo Fabietti, un importante antropologo contemporaneo, ha definito l’identità etnica come: “una delle molteplici identità, che gli individui possono scegliere di invocare. È definita da un insieme di valori, simboli e modelli culturali (valore, simbolo, modello) che i membri di un gruppo etnico riconoscono come loro distintivi e che riconoscono nella
rappresentazione dell’origine comune. Sembra comunque sempre più chiaro agli studiosi
che non si tratti di una questione di contenuti primordiali (sangue, lingua, territorio). Non si nasce con una identità etnica; piuttosto la si costruisce e invoca a seconda delle circostanze e con significati diversi. In altre parole, la prospettiva dell’identità situazionale evidenzia l’uso strategico dell’identità etnica per adattarsi a contesti particolari. In relazione ai quali essa viene rivendicata, nascosta, mutata (Tapper 1989). L’impiego dell’identità etnica è fluido e flessibile. La caratteristica generale è che dipende dall’interazione dei gruppi: come scrive Epstein (1978), la percezione che un gruppo ha di sé prende forma in relazione agli altri”69.
Questa definizione è particolarmente interessante perché mostra alcune caratteristiche basilari dell’identità.
In primo luogo viene sottolineato il fatto che l’identità non è “unica ed immutabile” 70, ne esistono al contrario diverse forme.
In secondo luogo, l’identità non è un qualcosa di innato, legato a dei valori primordiali (sangue, lingua, territorio), ma è “un’invenzione”, un “costrutto collettivo”71, che viene invocato, nascosto, mutato a seconda degli accadimenti socio-politici.
Secondo J.L. Amselle, la costruzione dell’identità è frutto di un processo che avviene a due livelli:
68
Con particolar riferimento all’appartenenza nazionale
69
Fabietti U. Remotti F., Dizionario di Antropologia, Zanichelli, Bologna, 1997, p. 356
70
Remotti F., Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 29.
71
1) un livello “interno” 2) un livello “esterno”72.
Il primo livello di produzione viene attivato dagli stessi membri del gruppo etnico che selezionano alcune caratteristiche comuni e le trasformano in tratti distintivi del gruppo, che diventano poi il “metro di giudizio” per stabilire chi fa parte del gruppo e chi no (identità performativa)73.
Il secondo livello invece viene prodotto dagli “altri” (coloro che non fanno parte del gruppo) che riconoscono l’appartenenza di determinati soggetti ad un certo tipo di gruppo (identità sostanziale)74. In altre parole legittimano l’esistenza del gruppo, che da quel momento diventa una realtà sociale riconosciuta sia dai membri interni sia da chi gli sta intorno. A volte però questo processo di legittimazione non scaturisce dalla volontà dei singoli soggetti di rivendicare un’appartenenza comune, ma è frutto di un’imposizione esterna, che col tempo viene accettata e valorizzata dal gruppo. U. Fabietti, nel testo
L’identità etnica, cita diversi esempi di questo tipo; un caso emblematico riportato
dall’autore è quello dei Tutsi e degli Hutu in Ruanda. Per secoli questi due “gruppi etnici” sono vissuti pacificamente insieme, formando un unico popolo, finché i colonizzatori occidentali hanno deciso per questioni amministrative di suddividerli in due etnie. Siccome non esisteva nessuna differenza fisica o culturale che permettesse di distinguere chi faceva parte di un gruppo e chi dell’altro, è stato scelto un criterio economico: se si possedevano più di dieci bovini si apparteneva “all’etnia Tuzi”, altrimenti si apparteneva “all’etnia Hutu”. L’appartenenza alla rispettiva etnia veniva inserita tra i dati della carta d’identità e diventava il mezzo per ottenere o essere esclusi da determinati diritti e benefici economici. Ben presto le disparità provocate dall’essere membro di un’etnia piuttosto che dell’altra, hanno portato i Tuzi e gli Hutu a valorizzare e fortificare il senso di appartenenza alla propria “identità inventata” ed a intraprendere una “guerra etnica” che ha devastato il Ruanda per dieci anni ed ha dato vita ad un vero e proprio genocidio.
Questo esempio mostra in modo eclatante che l’identità non è un qualcosa di innato, ma è il frutto di una costruzione storica, politica, sociale, in poche parole è un’invenzione. Il fatto però che le etnie “risultino essere delle “realtà immaginate” piuttosto che delle “realtà reali”, non impedisce che l’identità etnica sia percepita, da coloro che vi riconoscono come un dato assolutamente concreto [..] il fatto che alcuni individui affermino di appartenere ad
72
Amselle J.L., Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollani Boringhieri, Torino, 1999, p. 103.
73
Bromberger C., citato in Fabietti U., L’identità etnica, già cit., p. 133.
74
un certo gruppo è un dato di fatto che nessuna operazione di decostruzione dell’etnia, per quanto giustificata scientificamente, può eludere. Non vi è dubbio che alla base di questo sentimento di appartenenza vi sia, come sosteneva Nadel, un dogma. Ma è proprio tale dogma a fondare un’ontologia che, per quanto prodotta soggettivamente, ha una portata oggettiva per coloro che a quel dogma aderiscono. “Credere”, da questo punto di vista, equivale ad “essere””75.
Alla base di questo processo identitario vi è il sentimento di appartenenza.
L’appartenenza è “un sentimento che dispone e predispone i membri di una comunità a condividere idee, pensieri, modi di fare e tradizioni, mediante i quali si consolidano i legami sociali e si favorisce la costruzione del senso di identità sociale, etnica, religiosa, culturale, di genere. Non naturalmente sostanziale ed oggettivamente concreta, l’appartenenza rientra nell’ordine simbolico ed agisce come una categoria di pensiero le cui implicazioni emotive-cognitive regolano i rapporti tra persone e gruppi”76.
Il senso di appartenenza permette al gruppo di erigere un confine simbolico che ha il compito di separarli e distinguerli da quanti sono all’esterno. Paradossalmente è proprio l’esistenza “degli altri” che consente al gruppo di rimanere coeso e mantenere le sue caratteristiche distintive. È per questo motivo che, secondo Fabietti, “l’identità etnica non è pensabile se non in maniera contrastativa e contestuale. Ciò significa che per poter pensare me stesso devo mettermi in opposizione a qualcun altro. Lo stesso quando definisco gli “altri”. Per cui qualunque identità colta in un dato momento è spesso frutto di questa interazione tra un “interno” ed un “esterno””77.
Il risultato complessivo di questo modo di definire se stessi e gli altri è un’idea dell’umanità a compartimenti stagni, un insieme di “agglomerati più o meno ampi e discreti di esseri umani”78.
Questa relazione tra “noi” e “gli altri” è la dicotomia più facile e semplice da ottenere. L’uomo, per sua stessa natura, è portato a “segmentare” l’umanità e a costruire dei confini invalicabili sulla base di ciò che l’occhio o l’immaginazione coglie come caratteristica idiosincratica dell’alterità.
Molte volte l’estremizzazione del senso di appartenenza ad un gruppo e l’ostilità nei confronti di chiunque è estraneo alla comunità è dovuta alla paura di perdere i propri punti di riferimento e di trovarsi soli in un mondo di sconosciuti. Molto eloquenti a tal proposito
75
Fabietti U., L’identità etnica, già cit., pp. 134-135.
76
Tortolici B., Appartenenza, paura, vergogna: l’io e l’altro antropologico, Monolite, Roma, 2003, p. 21.
77
Fabietti U., L’identità etnica, già cit., p. 18.
78
sono le parale di M. Aime “sembra che la paura di essere uguale agli altri ci porti ad indossare gli abiti più vistosi per proclamare la nostra diversità”79. Non è un caso, quindi, che proprio quando la globalizzazione sembra diventare un fenomeno molto forte capace di coinvolgere un numero sempre maggiore di paesi, da diverse parti del mondo sorgono localismi e rivendicazioni di identità. Questo atteggiamento di apertura e nel contempo di chiusura di fronte ai processi messi in atto dalla globalizzazione è stato definito dal sociologo I. Robertson “glocalizzazione”80.
Dietro a questo fenomeno si cela la paura dell’altro, che può “privare, declassare, limitare la sicurezza del proprio diritto e del proprio esistere, e quanto meno lo si conosce tanto più lo si teme innescando reazioni istintive che si “incarnano” in fatti e comportamenti sociali. La paura muove reazioni diverse:
- fa fuggire da ciò che si avverte e/o si presenta come pericolo;
- favorisce l’unione con gli altri per trovare insieme la forza di combatterla (in questo caso la paura che rende coeso il gruppo, diviene modalità di unione e mezzo di aggressione;
- aggira l’ostacolo senza affrontarlo”81.
La logica della paura porta ad isolare e stigmatizzare l’altro, che diventa nell’immaginario comune “un nemico pericolosissimo” che con la sua sola presenza è in grado di minacciare l’esistenza e l’identità del gruppo. Questa logica portata alle estreme conseguenze diventa la via per il nascere e il consolidarsi del razzismo, che nel secolo scorso ha prodotto tre genocidi in nome dell’identità.
Un’ultima caratteristica che bisogna sottolineare è che l’identità è dinamica, cambia nel tempo ed è influenzata dai fenomeni storici, sociali e politici che la modellano a seconda delle circostanze. Questa mutabilità però non viene avvertita dai membri del gruppo, che tendono a considerare la propria identità come un qualcosa di statico, immutabile ed eterno.
Questa ambivalenza è alla basa dalla costruzione dell’identità, la quale si poggia su due variabili: “l’aggregazione costituisce l’elemento di coesione e di stabilità, i motivi storici ne rappresentano la modifica e la variabilità; l’una e gli altri, prima destorificati e poi trasfigurati, divengono momenti della struttura che indicano i valori rappresentativi dell’identità condivisa.
79
M. Aime, Introduzione in Amselle J.L., Logiche meticcie, già cit., p. 20.
80
Colombo E. Una generazione in movimento in Bosisio R., Colombo E., Leonini L., Rebughini P., Stranieri&Italiani, Una ricerca tra gli adolescenti figli di immigrati nelle scuole superiori, Donzelli,
Roma, 2005, p 68.
81
L’identità, come costruzione culturale, è modificabile, ma nella sua portata psicologica, è espressione di stabilità a cui è impossibile rinunciare, se non si vuole essere considerati “emarginati”, “diversi”. La sua natura culturale propone un orizzonte di precarietà e di instabilità, ma è proprio in questa instabilità che nasce il bisogno e il sentimento di appartenere ad un gruppo il quale crea garanzia e certezza. L’unione fa la forza e offre resistenza. L’appartenenza è un sentimento e, nella sua applicazione, diventa una categoria di pensiero ed un modello operativo pronto ad essere seguito ogni qual volta si avverte un pericolo di riconoscimento o una perdita di garanzie economiche e politiche […] l’etnia nasce come costruzione culturale ma è sentita e vissuta come se fosse naturale. Diventa poi, quasi assoluta quando si concretizza nell’idea di nazione o nell’idea di Dio intorno al quale il sentimento di aggregazione che unisce gli uomini si arricchisce di valore assoluto”82.
Il fatto che l’identità, come la cultura e la lingua, siano dei prodotti storici e non delle “forme a priori”, mostra chiaramente che è impossibile parlare di identità “pure” o “incontaminate”. Tutte le culture, malgrado le distanze temporali e spaziali che le separano, sono il prodotto di interazioni, di scambi, di influssi provenienti da altrove. Un esempio molto noto di questa mescolanza di culture è rappresentato dal brano di R. Linton, tratto dall’opera Studio dell’uomo, pubblicato nel 1936:
“Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente ma che venne poi modificato nel Nord Europa prima di essere importato in America. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria del vicino Oriente o di lana di pecora, animale originariamente addestrato nel vicino Oriente, o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo un procedimento inventato nel vicino Oriente. Si infila i mocassini, inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee ed americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani […].
Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina,
il suo coltello è d’acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la sua forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è il derivato dall’originale romano […].
Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli Indiani d’America […].
Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate su una carta inventata dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che s’agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano”83.
Questa citazione mostra in modo molto eloquente che le etnie, come gli americani nella testa del protagonista del brano, pretendono di essere delle realtà eterne, naturali, mentre non sono altro che il prodotto di una rappresentazione contingente.
Questa visione distorta e segmentata della realtà è sorretta dalla memoria etnica che seleziona e tramanda solo gli avvenimenti storici che confermano e valorizzano il sentimento di aggregazione.
Questo meccanismo mnemonico era stato già osservato nell’Ottocento da Ernest Renan, il quale parlando di nazione e dei prodotti dell’ideologia nazionalista, aveva scritto: “L’oblio, e perfino l’errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione”84