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Capitolo secondo Percorsi di integrazione tra identità in

2.4 La “terza identità”

L’immigrato, come si è visto nel paragrafo precedente, vive sospeso tra più “culture”, questa alternanza di universi simbolici può creare una sensazioni di spaesamento e di turbamento che porta l’immigrato a sentirsi incompleto in qualunque posto, la nostalgia è il sentimento che caratterizza la sua esistenza, gli manca sempre un tassello per sentirsi a “casa”. Questo stato d’animo è descritto in modo molto efficacedalla studiosa spagnola Rosa Abenoza Guardiola: “Suele occurir que cuando se despazan a su logar de origen

añoran su nuevo asentamiento y cuando vuelven, idealizan al je dejan atrás. Cuando se va y viene, siempre aparecen sentimientos de alegria y tristeza. Siempre una pena por lo que se deja”104.

Per superare questo stato di ambivalenza l’immigrato deve apprendere a maneggiare, plasmare ed elaborare gli elementi appartenenti ai diversi contesti di riferimento, in modo da creare qualcosa in grado di garantire un senso di “continuità” tra una cultura e l’altra, una sorta di ponte che permette al migrante di trovare punti di contatto tra le due appartenenze. Questo atto creativo, secondo Maria Inés Massot Lafon, genera una “terza via” che rappresenta al contempo la somma e il superamento delle due strade percorse finora: “La cultura es recostruida por cada individuo. Aunque esta perspectiva enfatiza las

diferencias entre las personas, no van en menoscabo de considerar que estos procesos de interpretación y creación tienenn lugar en ambitos de comunicaión esplìcita y soocial entre los niños”105.

Il primo a studiare questo “processo di fusione”, anche se in un campo differente, è stato Bronislaw Malinowsky, il quale nel 1845 ha pubblicato un’opera, The dynamics of culture

change, in cui ha sostenuto che l’incontro tra le società tradizionali africane e il

colonialismo europeo ha prodotto una “terza cultura”, non riconducibile alla somma delle due precedenti.

Questa tesi era condivisa anche dall’antropologo cubano Fernando Ortiz il quale proponeva una nuova lettura dei contatti e degli scambi culturali attraverso il concetto della

transculturazione: “Crediamo che il vocabolo transculturazione esprima meglio le

103

Inés Massot Lafon M., Jóvenes entre culturas. La construccion de la identidad en contextos

multiculturales, Descleé De Brower, Bilbao, 2003, p. 156.

104

Abenoza Guardiola R., Identidad e inmigración: orientaciones psicopedagógicas, Catarata, Madrid, 2004, p. 55.

105

differenti fasi del processo transitivo da una cultura all’altra, poiché questo non consiste semplicemente nell’acquisizione di una distinta cultura, che è quello che di rigore indica la voce acculturazione, bensì il processo implica necessariamente la perdita di una cultura precedente, che potrebbe definirsi come una parziale deculturazione nonché la conseguente creazione di nuovi fenomeni culturali che potrebbero dirsi neoculturazione. Infine come sostiene la scuola di Malinowsky, in tutti gli incontri fra le culture accade la stessa cosa che si verifica nella riproduzione genetica degli individui: il nuovo nato ha sempre qualcosa di entrambi i genitori e tuttavia rimane sempre diverso rispetto a ciascuno dei due”106.

In questo effervescente clima culturale un altro importante contributo è stato dato da Roger Bastide, il quale ha mostrato molto interesse per i fenomeni dell’acculturazione ed ha sottolineato, in diversi testi, che essi non si sviluppano “in senso unico” ma coinvolgono sempre due o più interlocutori. Questo dialogo, anche se per sua natura sproporzionato visto che i partecipanti si trovano in situazioni di potere squilibrate, crea dei fenomeni di “interpenetrazione” e di “intreccio”, che danno sempre vita ad un incontro ed a un contagio tra le due culture. Questo contagio viene definito dall’etnologo “acculturazione”: “la

aculturación trasforma la sociedades cerradas en sociedades abiertas: el encuentro de civilizaciones, sus mestizajes y su interpretaciones son factores de progreso y el mal, cuando este existe, es solamente el reverso de la dinamica social e cultural”107.

Il valore della differenza all’interno di una società è stato messo in evidenza anche da un altro antropologo, Claude Lévi Strauss, che definisce la civilizzazione come “la

coexistencia de culturas que ofrecen el maximo de divercidad y que incluso consiste en esta diversidad”108.

L’immigrato, come i colonizzatori europei e i colonizzati, si trova a possedere questa “terza cultura”, che rappresenta una caratteristica fondamentale della sua identità. Questa nuova situazione crea in lui un senso di disorientamento, che lo porta a “trovarsi in ogni luogo del tutto o in parte fuori posto”109 o all’opposto “può perfino cominciare a sentirsi dappertutto chez soi, “a casa”, ma il prezzo da pagare è accettare che in nessun posto ci si sentirà pienamente e veramente a casa”110.

106

Pompeo F., Il mondo è poco: Un tragitto antropologico nell’interculturalità, Meltemi, Roma 2002, p. 57.

107

A.A. VV. , La identidad cultural, già cit., p.20.

108

Ivi, p.24

109

Bauman Z., Intervista sull’identità, già cit., p. 8.

110

Questa condizione di incertezza è ancora più forte se il migrante è povero e clandestino. In questo caso l’immigrato oltre ad essere in bilico tra due paesi, oscilla tra “l’assenza” e la “presenza”111, tra l’essere e il non essere. Il sociologo A. Dal Lago definisce in modo provocatorio gli immigrati come non-persone: “Sono vivi, conducono un’esistenza più o meno analoga a quella dei nazionali (gli italiani che li circondano), ma sono passibili di uscire, contro la loro volontà, da condizione di persone. Continueranno a vivere anche dopo, ma non esisteranno più, non solo per la società in cui vivevano come “irregolari o clandestini”, ma anche per loro stessi, poiché la loro esistenza finirà e ne inizierà un’altra che comunque non dipenderà dalla loro scelta […] infatti noi e loro stiamo in una condizione giuridica del tutto diversa. Noi siamo liberi di vivere come più ci aggrada nel nostro paese grazie allo status di cittadini; lui pur potendo vivere a tutti gli effetti come noi sul piano materiale e sociale, non ha un futuro stabile nella nostra società. Egli è schiavo della sua nazionalità, del fatto di essere uno straniero, anche se parla la nostra lingua e vive nella nostra società. Qui il principio della nazionalità mostra tutto il suo carattere artificioso e al tempo stesso la capacità di sopprimere la realtà delle relazioni sociali concrete, il lavoro, l’amicizia, gli affetti. In breve sono le norme della cittadinanza che fanno di qualcuno una persona, non viceversa”112.

Con queste parole Del Lago vuole sottolineare il fatto che per un immigrato povero e clandestino la doppia appartenenza nazionale non è sinonimo di ricchezza culturale (come nel caso di Bauman e Maalouf), ma è indice di precarietà, di insicurezza. Per quanti sforzi faccia, gli autoctoni non sono disposti a riconoscergli un posto nella loro società, lo considerano sempre come un “qualcuno di troppo”113, al massimo possono tollerare la sua presenza se essa comporta dei guadagni o dei benefici, ma in fondo per loro rimane sempre qualcuno che occupa un posto non suo.

111

Sayad A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alla sofferenza dell’immigrato, Raffaello Cortina , Milano, 2002, p. 171.

112

Dal Lago A., Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano,2004, p. 207.

113