Capitolo secondo Percorsi di integrazione tra identità in
2.3 La “doppia identità” degli immigrat
Nei paragrafi precedenti è stata analizzata l’identità etnica e sono state considerate le strategie che permettono di mantenere un forte senso di appartenenza al gruppo. Ma cosa succede quando una persona è costretta per motivi politici o economici a lasciare la propria terra e a trasferirsi per un lungo periodo in un altro paese? Quali conseguenze produce l’emigrazione sull’identità dell’individuo? Vivere la maggior parte della propria vita in un paese diverso da quello di origine porta il soggetto ad acquisire l’identità del paese ospitante? È possibile vivere in bilico tra due identità?
La risposta a queste domande va ricercata facendo riferimento all’esperienza di due studiosi, che hanno vissuto, per motivi diversi, il fenomeno migratorio in prima persona e che hanno passato gran parte della loro vita a studiarlo: Zygmunt Bauman e Amin Maalouf.
93
Bauman è fra i maggiori intellettuali al mondo. È professore emerito di sociologia nell’Università di Leeds e Varsavia. Per motivi politici è stato costretto negli anni Sessanta a lasciare la Polonia e a trasferirsi in Israele e in seguito in Inghilterra.
Molto interessante è il prologo del testo Intervista sull’identità, in cui lo studioso espone la sua esperienza personale: “secondo l’antica usanza dell’Università Carlo di Praga, durante la cerimonia delle lauree honoris causa viene suonato l’inno nazionale del paese di appartenenza. Quando toccò a me ricevere questo onore, mi chiesero di scegliere tra l’inno britannico e l’inno polacco. Beh, non trovai facile dare una risposta.
La Gran Bretagna era il paese che avevo scelto e che mi aveva scelto offrendomi una cattedra quando in Polonia, il mio paese di nascita, era diventato impossibile perché mi era stato tolto il diritto di insegnare. Laggiù, però in Gran Bretagna, io ero un immigrato, un nuovo venuto, fino a non molto tempo fa un profugo di un paese straniero, un alieno. Poi sono diventato un cittadino britannico naturalizzato, ma quando sei un nuovo venuto puoi mai smettere di esserlo? Non avevo intenzione di passare per un inglese né i miei studenti né i miei colleghi hanno mai avuto il minimo dubbio che fossi uno straniero, un polacco per essere esatti. Questo tacito gentlement’s agreement ha impedito ai nostri rapporti di guastarsi; al contrario, li ha resi onesti, tranquilli e nel complesso sereni ed amichevoli. Avrei dovuto quindi far suonare l’inno polacco? Ma anche questa scelta non aveva molto fondamento: trenta anni e passa prima della cerimonia di Praga ero stato privato della cittadinanza polacca. La mia esclusione era stata ufficiale, avviata e confermata da quel potere che aveva la facoltà di distinguere il “dentro” dal “fuori”, chi apparteneva da chi no: pertanto il diritto all’inno polacco non mi competeva più.
Janina, la compagna della mia vita e una persona che ha ragionato molto sulle trappole e le tribolazioni dell’identità (d’altronde è autrice di un libro Un sogno di appartenenza) ha trovato la soluzione: perché non fai suonare l’inno europeo? Effettivamente perché no? Europeo lo ero senza dubbio, non avevo mai smesso di esserlo. Ero nato in Europa, lavoravo in Europa, pensavo europeo, mi sentivo europeo; e soprattutto, a tutt’oggi non esiste un ufficio passaporti europeo con l’autorità di “emettere o rifiutare” un “passaporto europeo” e perciò di conferire o negare il nostro diritto ad essere europei.
La nostra decisione di chiedere che venisse suonato l’inno europeo era al momento stesso “inclusiva” ed “esclusiva”. Alludeva ad un’identità che includeva i due punti di riferimento alternativi della mia identità, ma contemporaneamente annullava come meno rilevanti o irrilevanti, le differenze tra di essi e quindi anche un’eventuale “scissione d’identità”. Rimuoveva la questione di un’identità definita in termini di nazionalità, quel tipo d’identità
che mi era stata resa inaccessibile. Anche gli struggenti versi dell’inno europeo contribuivano allo scopo. Alle Menschen werden Bruder l’immagine di “fratellanza“ è la sintesi della quadratura del cerchio: differenti eppure uguali, separati ma inseparabili, indipendenti ma uniti”94.
Anche Amin Maalouf, come Bauman, ha riportato nel libro L’identità, la sua esperienza di migrante e il particolare rapporto che intrattiene con le sue due patrie (il Libano e la Francia):
“Da quando ho lasciato il Libano nel 1976 per trasferirmi in Francia, mi è stato chiesto innumerevoli volte, con le migliori intenzioni del mondo, se mi sentissi “più francese” o più “libanese”. Rispondo invariabilmente “l’uno e l’altro!”, non per scrupolo di equilibrio o di equità, ma perché, rispondendo in maniera differente, mentirei. Ciò che mi rende come sono e non diverso è la mia esistenza fra due paesi, fra due o tre lingue, fra parecchie tradizioni popolari. È proprio questo che definisce la mia identità. Sarei più autentico se mi privassi di una parte di me stesso?
A coloro che mi pongono la domanda spiego dunque, con pazienza, che sono nato in Libano, che vi ho vissuto fino all’età di ventisette anni, che l’arabo è la mia lingua materna, che ho scoperto prima nella traduzione araba Dumas, Dickens e i viaggi di Gulliver, che nel mio paese di montagna, quello dei miei antenati ho conosciuto le mie gioie di bimbo e sentito certe storie cui mi sarei ispirato in seguito per i miei romanzi. Come potrei scordarlo? Come potrei mai staccarmene? Ma, dall’altra parte, vivo in Francia da ventidue anni, bevo la sua acqua e il suo vino, le mie mani accarezzano ogni giorno le sue vecchie pietre, scrivo i miei libri nella sua lingua, per me non sarà mai più una terra straniera.
Metà francese, dunque, e metà libanese? Niente affatto. L’identità non si suddivide in compartimenti stagni, non si ripartisce né in metà, né in terzi. Non ho parecchie identità, ne ho solo una, fatta di tutti gli elementi che l’hanno plasmata, secondo un “dosaggio” particolare che non è mai lo stesso da una persona all’altra.
Talvolta, quando ho finito di spiegare, con mille particolari, per quali ragioni precise rivendichi pienamente l’insieme delle mie appartenenze, qualcuno mi si avvicina, mi mette le mani sulla spalla e mi mormora: “hai avuto ragione di parlare così, ma nel tuo intimo che cosa si sente?”.
Questa domanda insistente mi ha fatto sorridere a lungo. Oggi, non ne sorrido più, perché mi sembra rivelatrice di una visione molto diffusa e, a mio avviso, pericolosa. Quando mi
94
si chiede che cosa sia “nel mio intimo”, si presuppone che “nell’intimo” di ciascuno di noi ci sia una solo appartenenza che conta, la sua “verità profonda” in un certo qual modo, la sua “essenza”, determinata una volta per tutte alla nascita e che non cambierà più; come se il resto, tutto il resto, il suo percorso di uomo libero, le sue convinzioni acquisite, le sue preferenze, la sua sensibilità personale, le sue affinità, la sua vita insomma-non contasse minimamente”95.
Queste due esperienze mostrano in maniera evidente che l’identità non è un qualcosa che si eredita alla nascita e si mantiene stabile ed uguale a se stessa per tutta la vita, ma si evolve, si trasforma e si arricchisce nel corso del tempo.
Entrambi gli studiosi non percepiscono il loro “essere sospesi tra due patrie” come una doppia identità, una specie di dottor Jekyll inglese-francese e mister Hide polacco-libanese per intenderci, ma come una identità composita.
L’identità di ogni persona, secondo Maalouf, è costituita da una moltitudine di elementi: l’appartenenza ad una tradizione religiosa; ad una nazionalità, talvolta due; ad un gruppo etnico o linguistico; a una professione; a un’istituzione, a un gruppo sociale; ad una squadra sportiva; a un partito; ad un sindacato e via dicendo.
Tutte queste appartenenze naturalmente non hanno la stessa importanza, ad ogni modo non nello stesso momento, ma nessuna di esse è totalmente insignificante. Per evidenziare lo stretto legame che intercorre fra le diverse appartenenze Maalouf ha paragonato l’identità a “un disegno sulla pelle tesa” dove “basta che una sola appartenenza venga toccata, ed è tutta la persona a vibrare”96.
Lo scrittore franco-libanese chiama queste appartenenze “geni dell’anima”97, in quanto questi elementi, come il DNA, presi singolarmente sono comuni a molte persone, ma nella loro interezza sono unici; è infatti impossibile ritrovare l’intera combinazione in due persone diverse, ed è proprio questo che rende la persona unica e insostituibile e irrepetibile.
Anche se l’identità è formata da molteplici appartenenze la persona tende a percepirla come un tutt’uno ed a riconoscersi nell’appartenenza più attaccata “talvolta quando non si ha la forza di difenderla, la si dissimula, allora essa resta in fondo all’io, nascosta nell’ombra, in attesa della sua rivincita; ma, che la si assuma o la si nasconda, che la si proclami sommessa o in gran voce, è con essa che ci si identifica. L’appartenenza che è in causa - il colore, la religione, la lingua, la classe sociale - invade allora l’intera identità.
95
Maalouf A., L’identità, già cit., pp. 7-9.
96
Ivi, p. 33.
Coloro che la condividono si sentono solidali, si riuniscono, si mobilitano, si incoraggiano a vicenda, se la prendono con “quelli di fronte”. Per loro, “affermare la propria identità” diventa per forza un atto di coraggio, di liberazione”98.
Questa tendenza a ridurre l’identità ad un unico elemento, porta gli uomini ad assumere un “atteggiamento parziale, settario, intollerante, dominatore, talvolta suicida, e li trasforma assai spesso in assassini, o in sostenitori degli assassini. La loro visione del mondo diviene deformata e distorta. Coloro che appartengono alla stessa comunità sono “i nostri”, ci crediamo solidali con il loro destino ma ci permettiamo anche di essere tirannici nei loro confronti, se li consideriamo “tiepidini”, li denunciamo, li terrorizziamo, li puniamo come “traditori” e “rinnegati”.
Quanto agli altri, quanto a quelli dell’altra riva, non si cerca mai di mettersi al loro posto, ci si guarda bene dal chiedersi se, su questa o quella ragione, potrebbero non essere del tutto dalla parte del torto, si evita di lasciarsi intimorire dai loro lamenti, dalle loro sofferenze, dalle ingiustizie di cui sono stati vittime. Conta soltanto il punto di vista dei “nostri”, che è spesso quello dei più militanti della comunità, dei più demagoghi, dei più accaniti99. Il risultato di questo meccanismo è la creazione di “identità omicide”100.
Per evitare che l’identità diventi il fattore scatenante di numerose guerre ed atti terroristici compiuti in nome di una singola appartenenza (cosa che, sempre con più frequenza, accade nei nostri giorni): “Ciascuno di noi dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità, a concepire la propria identità come somma di appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra”101. L’idea di un’identità composita è sostenuta anche dal sociologo Abou che incita a considerare l’identità culturale all’interno di una dimensione più complessa, costituita dall’identità globale: “identidad global [..] es una constellación
de varias identificaciones particulares con otras tantas instancias culturales distintas”102. Non bisogna dimenticare, poi, che una persona può acquisire nel corso della vita un livello di competenza alto in differenti “culture” e può arrivare a identificarsi in un sistema di riferimento culturale diverso da quello di origine: “l’identificaión con una cultura es
esencialmente indipendente de la identificación con una cultura no disminuye la
98 Ivi, pp. 33-34. 99 Ivi, p. 37. 100 Ivi, p. 37. 101 Ivi, p. 175. 102
Abou S., Identidad etnica e identidad cultural, citato in A.A. V.V., La identidad cultural, Andalucía Acoge, Sevilla,1998, p. 8.
capacidad de la persona para identificarse con otra culturas. O sea, la persona puede adquirir competencias culturales en diferentes culturas”103.