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Capitolo secondo Percorsi di integrazione tra identità in

2.5 L’identità sospesa dei figli degli immigrat

Emigrare è sicuramente una scelta difficile e complessa in quanto tocca in profondità l’immagine e l’autostima che il soggetto ha di se stesso, però non bisogna dimenticare che il migrante ha deciso volontariamente di compiere il viaggio migratorio, ha avuto modo di ponderare , almeno potenzialmente, i costi e i benefici di tale scelta ed ha deciso di partire per migliorare la propria vita e quella dei suoi cari. Questa consapevolezza gli consentirà di affrontare le difficoltà che incontrerà nel suo cammino con maggiore forza e coraggio: i suoi sforzi non sono vani, sono finalizzati al raggiungimento di un obiettivo.

Ben diversa è la situazione in cui vertono i figli degli immigrati. Quest’ultimi non hanno la possibilità di scegliere, devono obbedire alle decisioni prese dagli adulti senza neanche essere consultati; il loro parere non conta, sono troppo piccoli per avere voce in capitolo. Per loro il viaggio migratorio non è una scelta, ma una decisione subita, molte volte non comprendono neanche la necessità e i vantaggi della partenza. In alcuni casi sono costretti a lasciare i parenti, gli amici e i luoghi dell’infanzia per seguire i genitori, che hanno visto solo durante le vacanze estive o natalizie (per loro sono quasi degli estranei), in una terra ostile e sconosciuta. Questa situazione di incertezza e di non considerazione è menzionata, con diverse sfumature, da tutti gli adolescenti di origine straniera intervistati nella ricerca sul campo:“Prima è partito mio padre, dopo due anni lo abbiamo raggiunto io, mia madre e mia sorella. Un giorno mia madre ci ha chiamato e ci ha detto “a settembre andiamo a

Roma da papà, cosi stiamo di nuovo tutti insieme. Roma è una bella città, vi piacerà sicuramente” […] io e mia sorella siamo rimasti senza parole, sapevamo che sarebbe successo prima o poi [..] nessuno ci aveva chiesto cosa ne pensavamo” (intervista n. 5); “Zia mi ha detto una mattina che mamma veniva questa estate a prendermi per portarmi in Italia [..] avevano trovato una casa per stare tutti insieme” (intervista n. 7), “Mi manca il mio paese, i miei nonni e i miei amici, io non volevo venire, qui è difficile fare amicizia [..] i miei genitori hanno detto che vivere n Italia era meglio per me e mio fratello, così siamo partiti” (intervista n. 14).

Con il tempo la situazione cambia radicalmente. Dalle interviste e dallo studio della letteratura esistente su tale argomento è emerso che dopo un primo periodo di disorientamento dovuto alla novità del nuovo contesto e alla pessima conoscenza della lingua del paese di immigrazione i giovani di origine straniera iniziano ad ambientarsi nella società di accoglienza, apprendono velocemente la lingua e i nuovi codici culturali, fino ad arrivare a muoversi con disinvoltura nel nuovo contesto. Questi ragazzi, osservando a posteriori la propria esperienza migratoria, danno di essa un giudizio positivo. La

maggior parte del campione della ricerca ritiene infatti di avere in Italia, rispetto ai coetanei rimasti al paese natale, maggiori possibilità economiche, formative e professionali; inoltre il soggiorno all’estero viene percepito come un’esperienza di crescita personale che ha favorito l’apertura mentale verso ciò che è nuovo e diverso e ha potenziato il senso dell’autonomia: “Quando torno l’estate al mio paese sento una differenza tra me e i miei vecchi amici [..] mi sento più maturo [..] ho visto e fatto più cose” (intervista n. 3); “rispetto ai miei amici ho più possibilità di trovare un buon lavoro,

molti di loro mi guardano con invidia […] sono fortunata di stare qui in Italia […]

(intervista n. 5); “sono venuto in Italia per studiare e prendere una laurea […] chi è

rimasto in Ecuador non ha i mezzi per studiare [..] ho più possibilità di loro (intervista 16); “mi sento più grande, ho visto più cose” (intervista n. 14). Queste frasi sono

confermate anche dall’alta percentuale del campione che pensa in futuro di restare in Italia (la maggioranza relativa del campione indagato, il31,7% pensa di restare in Italia, solo il 15,4% pensa di tornare in futuro al proprio paese di origine).

Questa apertura verso la società di accoglienza può confliggere, in alcuni casi, con i valori trasmessi dal mondo familiare; molte volte i figli degli immigrati vivono in una situazione di conflitto di “aspettative”: da una parte c’è la scuola che li incoraggia ad apprendere l’italiano e a comportarsi come gli altri bambini e dall’altra c’è la famiglia che può giudicare questo allontanamento come un tradimento nei confronti delle proprie origini. Questa situazione è ben descritta da Tahar Ben Jelloun, nel romanzo A occhi bassi, nel quale viene narrata la storia di Fatima, una bambina emigrata a Parigi con la sua famiglia. Inizialmente Fatima non riesce ad ambientarsi nella nuova città, i cambiamenti sono troppo rapidi e profondi e lei non riesce a comprenderli “la mia lingua era il berbero e non capivo come si potesse utilizzare un altro dialetto per comunicare. Come tutti i bambini pensavo che la mia lingua materna fosse universale. Ero ribelle, perfino aggressiva, perché la gente non mi rispondeva quando parlavo. [...] Non ero né viziata né difficile. Ero assalita dalle cose nuove e volevo capire. Avevo l’impressione di essere diventata, da un giorno all’altro, sordomuta, gettata e dimenticata dai miei genitori in una città in cui tutti mi volgevano le spalle e dove nessuno mi guardava o mi parlava. Forse ero trasparente, invisibile, forse il colore scuro della mia pelle mi faceva confondere con gli altri alberi”114.

Col passare del tempo la protagonista inizia ad ambientarsi nella nuova società, frequenza la scuola e comprende l’importanza di apprendere il francese, che rappresenta, per lei, la chiave d’accesso a questo nuovo mondo, la Francia: “Spesso dormivo con il dizionario

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sotto il cuscino. Ero persuasa che le parole di notte lo avrebbero attraversato per venirsi a sistemare in caselle predisposte per metterle in ordine. Le parole avrebbero così lasciato le pagine e sarebbero venute a stamparsi nella mia testa. Sarei diventata sapiente quel giorno in cui, nel libro, non ci fossero state che pagine bianche [...]. Non riuscivo a trovare e a maneggiare le sfumature di una lingua che amavo, ma che non mi amava. Inciampavo nell’imperfetto. Battevo la testa contro il passato prossimo - prossimità del tutto illusoria - e mi bloccavo davanti al passato remoto. Per semplificare riducevo tutto al presente, cosa evidentemente assurda”115. Una volta appresa la lingua e dopo aver fatto amicizia con i suoi compagni di classe, la società francese cambia fisionomia ai suoi occhi; non è più ostile, inospitale, straniera, ma diventa la sua casa, la sua patria. Lei, però, ha anche un’altra patria: il villaggio dove è nata e cresciuta, la sua lingua madre è il berbero e i suoi parenti vivono in quella terra. Tutto ciò le provoca una grande confusione, non riesce a gestire questa doppia appartenenza e si sente letteralmente divisa in due, “c’era ancora una metà di me appesa all’albero del villaggio, e l’altra metà che balbettava la lingua francese era in perpetuo movimento in una città di cui non vedevo mai i limiti né la fine. Spiegavo il mio nervosismo con gli scontri ai quali si lasciavano andare le due metà di me. Io non ero in mezzo ma in entrambe le parti”116. Entrando sempre più in contato con il modo di vivere francese, la protagonista diventa più autonoma e critica nei confronti dei genitori: “I miei genitori non erano soddisfatti del mio comportamento. Per loro ero la speranza e la chiave di un mondo estraneo. Leggevo le lettere, riempivo i formulari, spiegavo il giornale, non dipendevo più da loro, erano loro a dipendere da me. Mia nonna aveva detto: “il mondo va a rovescio”. In fondo era vero. I miei sentimenti nei loro confronti cambiavano. Avevo dentro di me troppa energia, troppa ribellione per non essere critica verso mio padre che subiva la vita lavorando come una bestia e sacrificando la sua giovinezza. La notte avevo qualche rimorso per il fatto di nutrire sentimenti del genere. Cercavo di capirlo, ma al mattino dopo gli parlavo in francese, e questo lo innervosiva e lo contrariava parecchio. Era il mio modo di dimostrargli il mio disconoscimento. Capiva benissimo che stava accadendo ciò che più temeva. Mi stava perdendo. Mi stavo allontanando dai miei genitori, mi ripiegavo su me stessa e non parlavo più e quando aprivo la bocca era per parlargli in una lingua straniera. Una madre ostile si portava via la loro bambina”117.

I genitori si accorgono del suo cambiamento e si rendono conto che, a poco a poco, la stanno perdendo, cercano di trattenerla a sé ribadendole che tra lei e i francesi c’è una 115 Ivi, p. 55. 116 Ivi, p. 76. 117 Ivi, p. 85.

differenza incolmabile “sappi che la nostra morale e la nostra religione sono diverse da quelle dei tuoi compagni di classe. E noi ci prepariamo a vivere tutta la nostra vita in un paese nel quale siamo stranieri118”. Ormai, però, Fatima ha già fatto la sua scelta: vuole essere francese a tutti gli effetti; anche se questo vuol dire rinnegare le proprie origini e provocare un grande dolore alla sua famiglia: “Capii che bisognava staccarsi definitivamente dal paese natale. Come riuscirci senza turbare i miei genitori, senza rinnegarli? Non potevo tirare una linea e ritrovarmi allo stesso livello nei meandri di un tempo diverso. Qualcosa mi tratteneva; anche se il mio desiderio era forte. Ero decisa a non smarrirmi più nelle congiunzioni. Ma il villaggio era sempre presente mi circondava, mi girava intorno, mi infastidiva [..] mi applicai attivamente a usare in modo appropriato le consequenzialità temporali. Feci degli esercizi e non utilizzai più il presente. La cosa mi divertiva perché sapevo che il giorno in cui non avessi più mescolato i tempi, avrei davvero lasciato il villaggio”119.

Fatima non riesce a portar a termine questo suo progetto. Nonostante gli sforzi compiuti per cancellare le proprie origini, queste la perseguitano e non l’abbandonano mai, tanto che, alla fine, decide di tornare in vacanza nella sua terra natale. Durante questa vacanza Fatima si renderà conto che il suo villaggio è sempre stato dentro di lei, e che ha condizionato ogni evento della sua vita. Sicuramente non è più la bambina di un tempo, gli anni passati in Francia l’hanno cambiata e allontanata dalla sua cultura d’origine, ma essa in qualche modo è sopravissuta e si è amalgamata con quella francese. Lei rappresenta il simbolo vivente di questo incontro tra “culture”,

Anche se la storia di Fatima è una finzione letteraria, frutto della mente dello scrittore, è possibile ritrovare in essa le ansie, le paure, i sogni e i desideri di tanti altri giovani che oggi giorno vivono sulla propria pelle l’esperienza della migrazione. In alcune delle interviste, effettuate nella ricerca sul campo, è possibile rintracciare i diversi passaggi, descritti in modo magistrale da Tar Ben Jelloun: “i primi giorni di scuola sono stati difficili, non capivo nulla di quello che dicevano gli insegnanti, tutto mi sembrava strano, senza logica […] dopo qualche mese capivo bene l’italiano, ho iniziato ad uscire con i compagni di classe […], parlo male il rumeno, non l’ho più studiato, lo parlo come una bambina di sette anni [..] a mia madre dispiace che io e mio fratello non parliamo il rumeno, dice che è la nostra lingua, la capisco [..] in futuro voglio studiarla ma ora con la scuola non ho tempo” (intervista n. 18); “all’inizio non capivo nulla, sapevo solo alcune

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Ivi, p. 67.

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parole… pizza, grazie, ciao […] mi mancava la mia casa, i miei amici i miei nonni […] ora sto bene qui, ho tanti amici e una fidanzato italiano” (Intervista n. 4).

Naturalmente ogni storia rappresenta un percorso di vita unico ed irrepetibili, sono molti i fattori che influenzano il modo in cui il giovane di origine straniera percepisce e gestisce la doppia appartenenza nazionale, la complessità delle variabili in gioco non permette di ridurrei percorsi di questi ragazzi in un percorso standard, i frammenti sopra riportati rappresentano solo alcune delle possibili strade percorse. Nei prossimi paragrafi verranno esaminate le variabili che rivestono un ruolo decisivo nel processo di integrazione dei giovani di origine straniera.