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Evoluzione della disciplina in Italia in attuazione delle Direttive europee

4. Riflessi della “nuova normativa” sulla disciplina della concorrenza sleale e dei segni distint

4.1 La concorrenza sleale

Tradizionalmente, la pubblicità comparativa costituisce la fattispecie più tipica, in caso di violazione delle condizioni di liceità stabilite dalla legge, in grado di sconfinare nella denigrazione. Dobbiamo sottolineare, tuttavia che l’equivalenza tra comparazione e denigrazione è stata definitivamente superata22.

A lungo, la giurisprudenza ha dovuto risolvere le controversie in materia, senza alcuna indicazione specifica da parte dell’ordinamento statuale, applicando secondo la propria interpretazione le regole riguardanti la denigrazione, l’agganciamento e il ricorso a pratiche scorrette in tema di concorrenza sleale. La nuova disciplina, stabilite le condizioni di liceità, ha fornito all’interprete delle linee guida, utili per dirimere le questioni in materia, favorendo una maggiore certezza e chiarezza del diritto.

Il compimento di un atto di concorrenza sleale dovrà essere accertato in concreto, attraverso una valutazione case to case, in base

22 In realtà, già prima della direttiva 97/55/CE e della sua attuazione, alcuni autori

avevano evidenziato la differenza intercorrente tra comparazione e denigrazione, sottolineando che, se ogni notizia o apprezzamento sui concorrenti fosse illecita, la pubblicità sarebbe confinata alla mera esaltazione dei prodotti o della propria impresa, contro la sua funzione concorrenziale-promozionale e gli interessi della collettività. In particolare: MENESINI, La denigrazione, un contributo alla teoria

della concorrenza sleale, Milano 1970, pag. 63 ss e 79 ss; GUGLIELMETTI, La pubblicità comparativa e la proposta di direttiva comunitaria, in Riv. Dir. Ind.,

1979, parte I, pag. 343 ss; GHIDINI, Della Concorrenza Sleale, Giuffrè Editore, 1991, pag. 212 ss.; FUSI, Sul problema della pubblicità comparativa, in Riv. Dir.

Ind., 1980, parte I, pag. 105 ss e in La comunicazione pubblicitaria nei suoi aspetti giuridici, Giuffrè Editore, Milano 1970, pag. 112 ss. Anche il Giurì, inoltre, aveva

affermato che il paragone istituito su elementi reali e concreti non comporta svilimento dell’attività e del prodotto altrui. Mentre, l’autorità giudiziaria affermava questo principio in linea teorica, ma in pratica ha considerato denigratori, a lungo, molti paragoni pubblicitari. Queste considerazioni sono rilevate da FUSI-TESTA- COTTAFAVI in Le nuove regole per la pubblicità comparativa, Christian Marinotti s.r.l., Milano, 2000, pag. 294 ss. Secondo l’autore, la presunta equivalenza tra comparazione e denigrazione avrebbe potuto essere superata anche ricorrendo al “buon senso”, interpretando la nozione di discredito o denigrazione come la <<lesione di un valore sociale>>, del prodotto (riguardante aspetti qualitativi, utilità, convenienza ecc.) o dell’impresa (complesso di qualità morali, economiche, tecnico- produttive che concernono a determinare l’apprezzamento presso i consociati). La pubblicità comparativa, di per sé non denigratoria, avrebbe potuto sconfinare in questa fattispecie a causa delle circostanze, contenuti e modalità espressive utilizzate nel caso concreto.

al contenuto del messaggio e alle modalità della sua presentazione. Se, in virtù della nuova legislazione, la comparazione diretta, anche nominativa, è lecita, non si potrà più sostenere, come in passato, la sua intrinseca illiceità (o scorrettezza) per violazione dell’art. 2598 n. 2 (o n.3). Ad oggi, restano fermi i divieti di denigrazione, agganciamento, confusione e contrarietà ai principi di correttezza professionale, ma, nel caso in cui la pubblicità non si limiti alla mera esaltazione del prodotto, l’atto non sarà qualificato di per sé come sleale, il suo inquadramento giuridico dipenderà dall’avvenuto o dal mancato rispetto delle regole.

Detto questo, il novellato D.lgs. 74/92, non introduce una nuova fattispecie di pubblicità comparativa illecita; ove ne ricorrano i presupposti (e sia violata una delle condizioni elencate all’art. 3 bis del decreto), sarà applicata comunque la disciplina della concorrenza sleale e l’art. 2598 c.c. continuerà a rivestire un ruolo centrale. A dimostrazione di questo, l’art. 7 c. 13 del decreto stabilisce che “è

comunque fatta salva la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’art. 2598 del codice civile”23.

Più specificamente, il divieto di denigrazione24 è contenuto

nella prima parte dell’art. 2598 n.2 c.c. Secondo la norma, compie atti di concorrenza sleale chiunque <<diffonde notizie e apprezzamenti sui

prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito>>. E’ ovvio che la pubblicità sia il mezzo più idoneo a

diffondere velocemente notizie e apprezzamenti presso il pubblico e che il discredito (ossia la perdita di reputazione o di fiducia di cui un’impresa o i suoi prodotti godono sul mercato) possa accentuarsi più

23 FUSI-TESTA-COTTAFAVI in Le nuove regole per la pubblicità comparativa,

Christian Marinotti s.r.l., Milano, 2000, pag. 75-76.

24 VANZETTI - DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, settima edizione,

Giuffrè Editore, Milano, 2012, pag. 77 ss.; ACQUAFREDDA, Pubblicità

comparativa e illecito concorrenziale per denigrazione (commento a), in Dir. Ind.,

facilmente quando si ricorra ad un confronto. Evidentemente, la pubblicità comparativa si presta bene a quest’ipotesi.

Affinché si possa parlare di denigrazione, non è necessario che la perdita di discredito sia permanente, è sufficiente che si produca un

danno concorrenziale, inteso, in questo caso, soprattutto come

sviamento della clientela, con effetti anche temporanei. Non tutti i messaggi comparativi (e pubblicitari in genere), però, sono denigratori, anche se, esaltando le qualità positive della propria impresa o del proprio prodotto, è fisiologico che possano determinare una valutazione negativa nei confronti dell’impresa o dei prodotti del concorrente da parte del consumatore. Il problema principale è stabilire se l’illiceità della denigrazione sia condizionata alla sua falsità; se, in altri termini, possa operare l’exceptio veritatis25.

L’orientamento prevalente ritiene che le notizie e gli apprezzamenti

25 L’applicabilità di questo principio è stata riconosciuta in giurisprudenza, per le

vicende riguardanti l’esercizio del diritto di autotutela attraverso diffide o comunicati aventi ad oggetto la divulgazione di notizie ed apprezzamenti direttamente attinenti a vicende giudiziali, sia che riguardino provvedimenti provvisori (misure cautelari) che definitivi (sentenze). Con la diffida, il titolare del diritto esclusivo chiede pubblicamente ai consumatori o agli intermediari di astenersi dall’acquistare o dal commercializzare determinati prodotti indicati come costituenti contraffazione del diritto esclusivo; con il comunicato, diffuso di solito a mezzo stampa, il titolare del diritto rende noto che è intervenuto un provvedimento del giudice a suo favore, che ha realizzato la tutela del suo diritto contro chi lo ha violato. Oltre al caso di pubblicazione di provvedimenti a carico del soccombente come sanzione, è stato individuato quello della pubblicazione spontanea di chi abbia ottenuto il provvedimento a proprio favore, a proprie spese, considerata come espressione del principio di libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Cost. nel rispetto delle condizioni di liceità. La liceità della diffida o del comunicato pubblicato prima di un provvedimento definitivo sarà valutata solo a seguito dell’emanazione di quest’ultimo, in base alla veridicità della notizia diffusa e alla fondatezza dell’apprezzamento riferito al contenuto giudiziario della notizia stessa. In altre parole, a fronte di una diffida o di un comunicato infondati, la controparte che subisce l’effetto discreditante potrebbe esercitare un’azione di concorrenza sleale per denigrazione ai sensi dell’art. 2598 n. 2. Accade spesso, perciò, che il procedimento avente ad oggetto l’accertamento della liceità della diffida o del comunicato resti sospeso in attesa della conclusione dell’altro giudizio nato dal contenuto della diffida o del comunicato stesso (es: in virtù dell’azione esercitata da colui che ha emesso la diffida si accerta che vi sia stata contraffazione di marchio; se il convenuto in questo processo venisse assolto, risulterebbe vincitore nell’altro procedimento, da lui iniziato tramite esercizio dell’azione di concorrenza sleale per denigrazione, e il diffidante diverrebbe, quindi, convenuto soccombente). Per tali aspetti si veda FLORIDIA in Diritto industriale: Proprietà intellettuale e

screditanti, oltre ad essere veritieri, debbano essere resi in modo obiettivo e non tendenzioso, senza andare oltre l’esigenza di informazione del pubblico. Solo così si può evitare l’integrarsi della fattispecie denigratoria. La pubblicità comparativa è corretta se il confronto dei prodotti comparati è completo e se tiene conto di tutte le differenze verificabili.

Inoltre, si può parlare di denigrazione solo quando sia possibile individuare il/i concorrente/i a cui il messaggio si riferisce.

Per quanto riguarda i destinatari del messaggio, la denigrazione si realizza quando un imprenditore, nel formulare un giudizio screditante, si sostituisce al pubblico, influenzandone gli elementi di giudizio. La notizia screditante può essere diffusa ad un pubblico indifferenziato o a un numero indeterminato di persone operanti nel settore in cui il prodotto è destinato ad essere utilizzato. In base a questa distinzione, cambierà il metro di valutazione del caso concreto. Nella prima ipotesi il significato del messaggio sarà individuato tenendo conto di quello che potrebbe essere recepito dal consumatore di media capacità e avvedutezza. Nella seconda, ci si dovrà concentrare su una ristretta cerchia di soggetti più accorti, ma non si esclude l’integrazione della fattispecie quando le loro cognizioni riguardino argomenti diversi da quelli trattati dalla notizia screditante.

Anche nella magnificazione del proprio prodotto, priva di riferimento esplicito a quelli dei concorrenti26, tuttavia, può essere implicito un messaggio denigratorio. Ciò si verifica quando l’imprenditore, nel promuovere il proprio prodotto o la propria impresa, utilizzi il superlativo relativo, affermandone l’eccellenza “che è nel contempo una rivendicazione di unicità”. Ma la

26 VANZETTI - DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, settima edizione,

Giuffrè Editore, Milano, 2012, pag. 86. Inoltre, la liceità della pratica pubblicitaria <<consistente in dichiarazioni esagerate o in dichiarazioni che non sono destinate ad essere prese alla lettera>> è sancita esplicitamente in una delle nuove norme sulle pratiche commerciali scorrette.

giurisprudenza si è mostrata abbastanza indulgente verso questa magnificazione, soprattutto quando la comparazione-denigrazione non sia troppo evidente, in quanto generica o palesemente iperbolica.

Altro atto di concorrenza sleale che può derivare dalla pubblicità comparativa è l’appropriazione di pregi altrui, richiamata nella seconda parte dell’art. 2598 n.2. E’ compiuta da <<chiunque si

appropria di pregi27 dei prodotti o dell’impresa del concorrente>>.

Con riferimento alla pubblicità comparativa essa si può verificare quando nel confronto siano millantate qualità (positive) del prodotto o dell’impresa pubblicizzata che, in realtà, caratterizzano quelli del concorrente e che siano tali da divenire un motivo di preferenza nella scelta dell’acquirente28. Devono essere ricondotte in questa fattispecie

anche le ipotesi di “pubblicità per agganciamento” o quelle di uso del marchio altrui preceduto dalla parola “tipo” o “analoga”, senza specificare effettivamente le caratteristiche dei beni o dell’impresa promossa29.

Infine, può incidere sulla disciplina della pubblicità comparativa anche l’art. 2598 n.3 per quanto attiene alle ipotesi di comunicazioni ingannevoli, pratiche commerciali scorrette e

27 PAGANINI in Anche la pubblicità comparativa per indebita attribuzione di pregi

altrui è concorrenza sleale, in Diritto e Giustizia, fasc. 2, 2016, pag. 16, definisce il

pregio come “un elemento dotato oggettivamente di capacità individualizzante”.

28 Se la qualità millantata non fosse presente, oltre che nel proprio prodotto, anche in

quello del concorrente, si tratterebbe, invece, di mendacio concorrenziale, comunque illecito ai sensi dell’art. 2598 n.3 c.c. Tra le due fattispecie spesso esiste una zona grigia e, dal punto di vista applicativo, il problema principale risiede nell’individuare il soggetto legittimato a chiedere l’inibitoria. Nel caso di mendacio potrà essere chiesta da ogni concorrente, in quello di appropriazione di pregi dal concorrente che effettivamente può vantarsi della caratteristica millantata dal rivale.

29 In questo caso, il mendacio è solo eventuale, non importa se effettivamente il

prodotto abbia caratteristiche simili a quello a cui ci si aggancia, già affermato sul mercato. Ciò che conta è la natura parassitaria di questa azione, si sfrutta il credito che altri anno acquisito con il proprio lavoro, per potersi affermare velocemente, senza particolari fatiche e sforzi promozionali. Sono state riconosciute come appropriazione di pregi anche: l’utilizzo di una forma simile a quella della confezione o del prodotto altrui, il ricorso a “tabelle di concordanza” che presentino il prodotto come equivalente a quello di un marchio famoso e l’ipotesi di indicazione della provenienza del proprio prodotto da una determinata località geografica diversa da quella reale, quando quella zona determinata, per ragioni geografiche o umane, possa influenzare la qualità del prodotto.

pubblicità menzognera. Tale norma si presenta come una clausola generale in cui vengono definiti atti di concorrenza sleale tutti quelli <<non conformi ai principi della correttezza professionale e idonei a

danneggiare l’altrui azienda>>. In realtà, la maggior parte delle

fattispecie riconducibili ad essa sono state “tipizzate” nella prassi30.