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I requisiti: a) non ingannevolezza del confronto

Evoluzione della disciplina in Italia in attuazione delle Direttive europee

5. Le condizioni di liceità

5.2 I requisiti: a) non ingannevolezza del confronto

Il primo requisito enunciato dal c.1 dell’art 3 bis è la <<non ingannevolezza>>62. Più precisamente, ex art. 2 lett. b) del d.lgs. 74/92, la pubblicità ingannevole è: “Qualsiasi pubblicità che in

qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente”63. In altre parole, “è

considerata pubblicità ingannevole qualsiasi forma pubblicitaria capace di indurre in errore il consumatore, fornendo una falsa rappresentazione della realtà e provocando nelle persone, soprattutto se prive di filtri adeguati, una fallace illusione, vantaggiosa per l’impresa produttrice”64. E’, quindi, uno strumento concorrenziale

pubblicitari, fermo quanto disposto dall'articolo 10 della legge 3 maggio 2004, n. 112, ["Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI-Radiotelevisione italiana Spa, nonché delega al Governo per

l’emanazione del testo unico della radiotelevisione", nello specifico, articolo dedicato alla tutela dei minori nella programmazione televisiva] abusa dei

naturali sentimenti degli adulti per i più giovani.” art. 7 c.2: “É considerata ingannevole la pubblicità, che, in quanto suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti, può, anche indirettamente, minacciare la loro sicurezza.” Non è

necessaria la falsità dei fatti affermati, ci si riferisce alla pubblicità di quei prodotti che potrebbero danneggiare la salute fisica o psichica dei più giovani, provocando atti di emulazione, diffondendo immagini raccapriccianti o che, più semplicemente, esercita una pressione psicologica sul soggetto volta ad incoraggiarne il possesso o ad indurre sentimenti di inferiorità nel caso di mancato possesso del bene o invidia o gelosia verso chi lo possiede; infine, a quel messaggio che, sfruttando i sentimenti degli adulti verso i minori, riproduce immagini o espressioni che possono risultare più incisivi rispetto alla mente del consumatore.

62 A ben vedere, esso costituisce un divieto generale, da applicare, non solo

all’advertising comparativo, ma alla pubblicità in sé, ed è uno tra i requisiti confermati anche dall’art. 15 c.a.p.

63 Tale articolo ha introdotto una definizione compiuta di pubblicità ingannevole, in

attuazione dell’art. 2 punto 2 della direttiva 84/450/CEE e ha riportato testualmente la definizione ivi enunciata, con l’aggiunta dei termini “fisiche e giuridiche”, per precisare chi possa essere indotto in errore. La stessa definizione è contenuta, in sostanza, nel d.lgs. 145/2007, all’art. 2 punto 1, in cui i termini “induca in errore o

possa indurre” sono stati sostituiti da “è idonea ad indurre in errore”. Inoltre, l’art.

4 c.1 lett. a) dello stesso decreto, nel prevedere la non ingannevolezza come condizione di liceità, richiama anche la non ingannevolezza ai sensi degli art. 21-22- 23 del d.lgs. 206/2005 (noto come “Codice del Consumo”).

64 OLIVIERO, in La pubblicità comparativa con casi risolti, Maggioli Editore,

scorretto che, non solo colpisce la buona fede dei consumatori, ma produce anche effetti diretti sui concorrenti, i quali rischiano di perdere una quota della propria clientela. Per questo, la pubblicità ingannevole è repressa sia dalle norme della concorrenza sleale, sia dalle direttive che tutelano gli interessi dei consumatori e degli utenti.

Rilevante è il riferimento al pregiudizio economico menzionato dall’art. 2 del d.lgs. 74/92; attraverso di esso, si sottolinea come la pubblicità comparativa, per essere ingannevole, deve sì trarre in errore il consumatore (o essere idonea a farlo), ma, oltre a questo, è necessario che sia tale da poter incidere sul suo comportamento economico, influenzandone la scelta di acquisto. E’ in questo senso che il legislatore parla di un “pregiudizio economico”: non è, cioè, essenziale il verificarsi in concreto di un danno patrimoniale65. Peraltro, dal sintagma << ovvero che, per questo motivo, leda o possa

ledere un concorrente>> sembrerebbe, di primo impatto, che la

lesione al concorrente sia un requisito alternativo. In realtà, la parola chiave è costituita da <<per questo motivo>>; per cui, il pregiudizio del concorrente non è alternativo; piuttosto, è da ritenersi eventuale66.

Infatti, mentre la pubblicità può essere considerata ingannevole già nel momento in cui è possibile che il consumatore venga indotto in errore, lo sviamento di clientela, che determinerebbe un pregiudizio per

65 In altre parole, non è necessario che il consumatore sia indotto ad acquistare un

prodotto per lui non conveniente. Ciò è confermato anche da BORRUSO, in La

pubblicità comparativa: l’attuazione della direttiva n. 97/55/CE in Italia e la sua <<ratio>> economica, Università Studi di Pisa – Copyright Wolters Kluwer s.r.l.,

in Nuova Giur. Civ. Comm., 2005 – Parte seconda, pag. 212, il quale ribadisce che “è pubblicità ingannevole anche quella che si limita solo ad influenzare le scelte

economiche”. Come sottolinea MELI, in La repressione della pubblicità ingannevole, Giappichelli Editore, Torino, 1994, pag. 60, l’errore del consumatore,

che la pubblicità può causare, non è altro che “una falsa rappresentazione della

realtà che induce il soggetto ad operare scelte negoziali differenti da quelle che egli avrebbe operato”. L’autore parla anche di una <<presunzione di essenzialità

dell’errore>> per cui, se il messaggio è suscettibile, indipendentemente dal fatto che avvenga, di indurre nei destinatari una falsa rappresentazione degli elementi di valutazione elencati all’art. 3, salvo prova contraria fornita dall’operatore commerciale, dovrebbe ritenersi che il comportamento economico dei consumatori ne sarebbe influenzato.

l’altro imprenditore, è collegato al comportamento del consumatore stesso, in quanto destinatario del messaggio; egli, influenzato dalla pubblicità, potrebbe scegliere, appunto, un prodotto diverso da quello del concorrente67.

Ai fini della valutazione dell’ingannevolezza di un messaggio comparativo, dovranno essere seguiti i criteri specificati all’art. 3 del d.lgs. 67/200068, considerando sia le caratteristiche del prodotto pubblicizzato sia quelle attinenti al prodotto comparato, il target69 a cui la campagna pubblicitaria è destinata e le modalità con cui è stato attuato il confronto70.

Perché la pubblicità sia ingannevole, non è indispensabile che abbia un contenuto falso o mendace71, l’errore indotto potrebbe

67 La differenza tra “pregiudizio del consumatore” e “del concorrente” è emersa

soprattutto dalle decisioni del giudice ordinario e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM). Il primo ha guardato alla pubblicità ingannevole nell’ottica di un comportamento sleale, scorretto dal punto di visto concorrenziale. La seconda, invece, ha individuato nel consumatore il soggetto da tutelare in primis.

68 Esso riporta testualmente quanto affermato dall’art. 3 della direttiva

84/450/CEE. In base all’articolo suddetto, << Per determinare se la pubblicità é ingannevole se ne devono considerare tutti gli elementi, con riguardo in particolare ai suoi riferimenti: a) alle caratteristiche dei beni o dei servizi, quali la loro disponibilità, la natura, l'esecuzione, la composizione, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, l'idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l'origine geografica o commerciale, o i risultati che si possono ottenere con il loro uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi; b) al prezzo o al modo in cui questo é calcolato ed alle condizioni alle quali i beni o i servizi sono forniti; c) alla categoria, alle qualifiche e ai diritti dell'operatore pubblicitario, quali l'identità, il patrimonio, le capacità, i diritti di proprietà intellettuale e industriale, ogni altro diritto su beni immateriali relativi all'impresa ed i premi o riconoscimenti>>.

69 In generale, nella valutazione di ingannevolezza del messaggio si terrà conto della

percezione che potrebbe averne il consumatore medio, non particolarmente avveduto. Tuttavia, se per la sua funzione il bene/servizio è destinato a delle specifiche categorie di acquirenti, dovrà essere valutata l’ingannevolezza del messaggio tenendo conto del target specifico.

70 Per questi aspetti si vedano BORRUSO, in La pubblicità comparativa:

l’attuazione della direttiva n. 97/55/CE in Italia e la sua <<ratio>> economica,

Università Studi di Pisa – Copyright Wolters Kluwer s.r.l., in Nuova Giur. Civ.

Comm., 2005 – Parte seconda, pag. 198 ss, e FUSI-TESTA-COTTAFAVI in Le nuove regole per la pubblicità comparativa, Christian Marinotti s.r.l., Milano, 2000.

71 Si sottolinea che la comunicazione ingannevole è diversa dal semplice mendacio;

mentre in quest’ultimo caso l’informazione data è del tutto falsa (la qualità dichiarata non esiste in nessun prodotto), nella prima ipotesi il consumatore riceve un’informazione decettiva che gli fa credere all’esistenza di qualcosa che non è

derivare anche da una comparazione scorretta, non obiettiva, basata su elementi illusori72. Da questa affermazione, si può notare che

l’ingannevolezza spesso si interseca con il mancato rispetto di altri requisiti previsti dall’art. 3 bis del d.lgs. 67/2000, specie con riferimento a quelli di cui alle lettere b) e c) del medesimo articolo, tantoché si potrebbe parlare, forse, di un’ <<ingannevolezza in senso lato>>73. Nel nostro ordinamento, quando ancora mancava una legge specifica sull’argomento, la pubblicità menzognera era considerata illecita solo da parte della dottrina; la giurisprudenza, invece, tendeva a considerare lecita “l’iperbolica magnificazione dei propri prodotti”, da parte dei commercianti, anche mediante indicazioni di qualità non rispondenti al vero, in quanto si riteneva che il pubblico fosse a conoscenza del fatto che i “bottegai” sarebbero stati disposti a tutto pur di vendere. Solo successivamente i giudici hanno acquisito la consapevolezza della differenza intercorrente tra la suggestione, l’esaltazione, il fascino illusorio intrinseco ad ogni messaggio promozionale e il vero falso pubblicitario. Quest’ultimo doveva essere represso in quanto dannoso economicamente e, per questo, la giurisprudenza, negli anni, ha identificato le caratteristiche della pubblicità non veritiera74.

esattamente corrispondente alla realtà. Non è l’informazione ad essere falsa, ma la sua presentazione che porta il consumatore a credere in qualcosa di falso. E’, se vogliamo, “una fattispecie più sofisticata di mendacio”.

72 A questa conclusione si potrebbe pervenire, secondo FUSI-TESTA-COTTAFAVI

in Le nuove regole per la pubblicità comparativa, Christian Marinotti s.r.l., Milano, 2000, anche considerando i testi dell’art. 2 lett. b d.lgs. 74/92, v. supra, e dell’art. 2 C.A.P. che definisce la pubblicità ingannevole “ogni dichiarazione o

rappresentazione che sia tale da indurre in errore i consumatori”; in conclusione,

sarebbe illecita la comparazione che possa indurre in errore in quanto tale, sia sulla base di informazioni inveritiere sul prodotto proprio o altrui, sia per una scorretta, impropria, deviante, instaurazione del paragone, o per l’erronea convinzione che, a causa della modalità espressiva, possa ingenerare.

73 Questa la tesi di FUSI-TESTA-COTTAFAVI in Le nuove regole per la pubblicità

comparativa, Christian Marinotti s.r.l., Milano, 2000. Essi sostengono che il

legislatore avrebbe potuto ricomprendere i requisiti di cui alle lettere b) e c), in quello più generale della non ingannevolezza (lett. a)).

74 OLIVIERO, in La pubblicità comparativa con casi risolti, Maggioli Editore,

Particolarmente significativo è l’art. 4 del d.lgs. 74/9275, secondo il quale “la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile

come tale” e se realizzata a mezzo stampa deve distinguersi attraverso

“modalità grafiche di evidente percezione”. Questa norma nasconde un problema abbastanza profondo: quello della “pubblicità occulta”76. Le tecniche più utilizzate per celare la comunicazione commerciale e pubblicizzare subdolamente un prodotto sono quelle della <<pubblicità redazionale>> e del <<product placement>>.

La prima consiste nella presentazione al pubblico di un prodotto o di un’impresa (ad es. in occasione del lancio di un nuovo prodotto particolarmente innovativo o dell’inaugurazione di nuovi locali di vendita o di produzione), tramite la pubblicazione di un articolo di giornale (cartaceo o on-line) o di un servizio d’informazione radiotelevisiva che, all’apparenza, sembra essere il frutto di un’autonoma iniziativa da parte della redazione del giornale o dell’emittente (e quindi redatto con un certo distacco giornalistico e proveniente da un terzo disinteressato), ma, in realtà, è stato commissionato dall’impresa utente, fatto redigere da un giornalista dietro compenso, o sollecitato alla redazione mediante una rete di relazioni pubbliche, senza distinguerlo dagli altri “pezzi” pubblicati dal mezzo di informazione. In questo modo, dietro ad “un comune articolo”, potrebbe nascondersi un messaggio pubblicitario particolarmente suadente ed accattivante per il pubblico; il lettore/spettatore, infatti, recepirebbe il messaggio in buona fede, non attivando quelle difese che adotterebbe automaticamente di fronte ad

75 Inerente alla “trasparenza della pubblicità”. Oggi sostituito, senza modifiche,

dall’art. 5 del d.lgs. 145/2007. Inoltre, un riferimento a tale requisito può essere riconosciuto anche nell’art.1 c.2, il quale ci dice che “la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta”.

76 In questo caso, l’inganno attiene non solo alle caratteristiche del prodotto, ma alla

<<natura funzionale>> della comunicazione/telecomunicazione. Si nasconde la natura commerciale del messaggio. In merito alla pubblicità occulta e alle sue forme si vedano oltre a OLIVIERO, op. cit., pag. 41-42, anche FUSI-TESTA, Diritto e

Pubblicità, Milano, 1996, pag. 91 e UNNIA, La pubblicità clandestina: il camuffamento della pubblicità nei contesti informativi, Milano, 1997, pag. 191 ss.

un comunicato commerciale, chiaramente di parte. Per quanto riguarda il fenomeno comparativo, una particolare forma di pubblicità redazionale può essere rappresentata dall’utilizzo degli Warentest77,

confronti di specifiche caratteristiche di beni o servizi, realizzati da testate di settore (es. Altroconsumo) e programmi televisivi specializzati.

Il product placement (“piazzamento del prodotto”), invece, si realizza con l’inserimento, all’interno di una narrazione cinematografica, televisiva, letteraria, finanche alle c.d. “televendite” (quando il presentatore di un programma diventa anche testimonial), di un prodotto facilmente riconoscibile per il suo nome, marchio, forma, al fine di realizzare un accostamento tra il prodotto e il protagonista, per beneficiare: dell’ambiente, del contesto, della popolarità di un personaggio, delle emozioni vissute all’interno di un film, una fiction, una sit-com ecc. Ad oggi, l’utilizzo di questa tecnica commerciale, di per sé, non è illecito; è vietato se non dichiarato78.

77 <<Espressione tedesca (crasi delle parole ware=merce e test=prova), utilizzata,

nel linguaggio tecnico per indicare una verifica, una prova o una sperimentazione su un singolo prodotto oppure su prodotti dello stesso genere, allo scopo di individuarne e valutarne gli attributi>>. Non deve essere confuso con il preistest, limitato solo ai prezzi. D’AMICO, L’uso dei warentest nella pubblicità

comparativa, Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing in Europa”,

Ecole Supérieure de Commerce de Paris – EAP, 25-26 Gennaio, 2002.

78 Per questo, quando si ricorre al product placement all’interno di una serie tv, ad

esempio (si pensi alla celebre fiction Don Matteo, in cui nell’ultima stagione veniva citata l’efficienza dei servizi telefonici e di dati mobili offerti da Tim, con relativa inquadratura di furgoncini e auto utilizzati dai tecnici pronti ad intervenire in caso di necessità) compare la scritta “nel programma sono presenti inserimenti di prodotti a

fini commerciali…” e nei titoli di coda compare l’elenco dei prodotti o servizi

pubblicizzati. In particolare, il nostro ordinamento ha riconosciuto espressamente la possibilità di ricorrere a questa tecnica pubblicitaria (purché dichiarato ed esercitato nel rispetto di determinate condizioni): nel 2004, per quanto riguarda l’inserimento dei prodotti all’interno delle opere cinematografiche; nel 2010, con riferimento all’inserimento di prodotti all’interno di opere audio-televisive. In passato, tuttavia, era frequente l’utilizzo di questa tecnica, anche se di solito veniva ricondotta dalla giurisprudenza nell’ambito della pubblicità ingannevole o occulta e pertanto considerata illecita; in Italia, si è diffusa soprattutto negli anni ’70-‘80, quando nei film ricorrevano frequentemente marche di sigarette, liquori ecc., ma anche negli anni ‘90 sono stati individuati casi di product placement non dichiarato; ad esempio, qualcuno ha ritenuto non casuale che, all’interno della fiction “Un medico in

Anche in questi casi, il pregiudizio del consumatore è dato dalla possibilità che questi consideri il messaggio attendibile in quanto proveniente da un terzo.

E’ quindi vietata ogni forma di <<pubblicità subliminale>>79.

5.3 (segue) b) l’identità dei bisogni e degli obiettivi

In virtù della seconda condizione di liceità prevista all’art. 3

bis d.lgs. 74/92, la pubblicità comparativa deve confrontare <<beni o

servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi>>80. Adottando una concezione moderna di questa norma, potremmo affermare che “il confronto deve riguardare prodotti e

servizi sostanzialmente simili e che rispondano, comunque alle medesime esigenze”81. La soddisfazione dei medesimi bisogni può

avvenire anche grazie a beni o servizi non omogenei sotto il profilo merceologico, ma presenti sul mercato in un rapporto di concorrenza, almeno potenziale. Si pensi alle bevande o ai cibi che possono soddisfare il bisogno della sete o della fame. Il vino, l’acqua, la Coca- Cola, seppur diversi tra loro, costituiscono alternative per il consumatore che abbia l’esigenza di bere ed è nell’interesse del consumatore stesso essere informato sulle varie opzioni in modo da operare scelte consapevoli82.

mani di “nonno Libero” (alias Lino Banfi), personaggio popolare della serie, molto amato dal pubblico.

79 Come esplicitato nel c.3 dell’art. 4 d.lgs. 74/92 e nell’ art. 5 d.lgs. 145/2007. Per

completezza di esposizione, dobbiamo menzionare anche il c. 2 dello stesso articolo: “I termini "garanzia", "garantito" e simili possono essere usati solo se

accompagnati dalla precisazione del contenuto e delle modalità della garanzia offerta. Quando la brevità del messaggio pubblicitario non consente di riportare integralmente tali precisazioni, il riferimento sintetico al contenuto ed alle modalità della garanzia offerta deve essere integrato dall'esplicito rinvio ad un testo facilmente conoscibile dal consumatore in cui siano riportate integralmente le precisazioni medesime.”

80 Anche il nuovo art. 15 c.a.p (come modificato nel ’99) formula una prescrizione

pressoché identica.

81 OLIVIERO, in La pubblicità comparativa con casi risolti, Maggioli Editore,

2013, pag. 42-43.

82 Ciò è stato evidenziato anche da FUSI-TESTA-COTTAFAVI, in Le nuove regole

per la pubblicità comparativa, Christian Marinotti s.r.l., Milano, 2000, pag. 200-

Mentre il bisogno è avvertito dal consumatore finale, l’obiettivo da raggiungere è intrinseco al bene stesso. Secondo questa accezione, con il secondo requisito di liceità dell’advertising comparativo si vorrebbe impedire un confronto tra beni o servizi non propriamente succedanei (non proprio interscambiabili), anche se appartenenti al medesimo settore merceologico, ed evitare che la comparazione avvenga tra beni dello stesso genere, ma diversi per: qualità, valore, prestigio, prestazioni ed investimento tecnologico.

Affinché i prodotti siano comparabili, infatti, è necessario tener conto dell’effettiva esigenza avvertita dal consumatore. Lo stesso bisogno può essere percepito in modo diverso a seconda dell’individuo, che avrà aspettative maggiori o minori anche a seconda delle proprie possibilità economiche e della condizione sociale in cui si trova. In questo senso, non si potrebbero ritenere comparabili una

Ferrari e una Fiat 500; anche se la pubblicità si servisse di un simile

paragone, nessuno lo considererebbe attendibile e, quindi, nessuno potrebbe sentirsi denigrato o offeso. Se, invece, la comparazione confrontasse articoli dello stesso genere, ma con caratteristiche qualitative difformi e molto lontane tra loro, sarebbero illecite a tutti gli effetti. Ad esempio, un hotel a quattro o cinque stelle, non potrebbe essere paragonato ad un’umile pensioncina di riviera.

In sostanza, “la comparazione può avvenire tra prodotti simili,

affini, ma soprattutto che occupino il medesimo segmento di mercato e lo stesso livello qualitativo”83.

merceologica non sarebbe indispensabile ai fini della comparazione e, essendo sufficiente la soddisfazione degli stessi bisogni o di bisogni affini, si dovrebbe guardare alla natura del bisogno e non del bene. Del tutto giustificate risulterebbero quindi le decisioni come quella del Giurì 370/98 che, pur assolvendo lo spot Alitalia per inesistenza di denigrazione, lamentata da Costa Crociere, ha riconosciuto, comunque, l’interesse della ricorrente, sul presupposto che entrambe le compagnie contendenti operano nell’unico mercato dei viaggi e delle vacanze “che non può più

essere considerato a comparti separati e reciprocamente neutrali”.

83 Anche questa tesi trova riscontro in FUSI-TESTA-COTTAFAVI, op. cit., dove si

afferma che la semplice identità di bisogni e di obiettivi non determina, di per sé, la comparabilità, ma essa richiede anche che i beni appartengano alla stessa fascia di qualità e di prezzo.

5.4 (segue) c) obiettività del confronto, essenzialità, pertinenza, verificabilità e rappresentatività delle caratteristiche comparate

La lettera c) dell’art. 3 bis afferma che la pubblicità comparativa è lecita se “confronta oggettivamente una o più

caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo, di tali beni e servizi”. Alcuni autori

hanno evidenziato la peculiare novità di questa condizione di liceità; le restanti, infatti, si ricollegano a divieti già presenti nel nostro