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I. I confini mutevoli della diagnosi …

1.4 Origini della medicalizzazione: la medicina come istituzione di

1.4.1 Conrad e la questione definitoria …

A partire dagli anni '90, si sente sempre di più la necessità di fornire modelli esplicativi del processo di medicalizzazione non più focalizzati esclusivamente attorno al ruolo della categoria professionale medica e quindi capaci di considerare i molteplici fattori che, nel tempo, sono intervenuti nello sviluppo di questo fenomeno. E proprio su queste premesse che Conrad, pioniere degli studi in questo campo, descrive la medicalizzazione come un graduale “processo attraverso cui questioni non mediche vengono definite e trattate come problemi medici, solitamente in termini di malattia e disturbi” (Conrad, 1992: 209; 2007: 4; 2015: vii). Il suo intento dichiarato è quello di fornire un'interpretazione del fenomeno volutamente ampia e inclusiva adatta a rendere conto dei suoi meccanismi e dei suoi agenti promotori nella società contemporanea.

Secondo Conrad, la medicalizzazione puo realizzarsi a diversi livelli: quello concettuale, legato all'uso delle definizione mediche riferite a determinate condizioni; quello istituzionale, inerente l'approccio medico adottato a livello organizzativo per regolamentare l'accesso o la gestione di specifici ambiti non sanitari (per esempio la visita medica necessaria alla concessione di un esonero lavorativo, un permesso speciale o un beneficio di natura economica); quello interazionale, strutturato sul rapporto medico-paziente. In tutti questi casi la chiave di lettura ruota attorno alla “questione definitoria” (Conrad, 2007; 2013; 2015) poiché le categorie mediche non potrebbero espandersi legittimamente su ambiti fino ad allora esclusi dal dominio della medicina senza una loro previa patologizzazione, portata avanti grazie alla collaborazione di quegli attori collettivi più interessati affinché un determinato problema venga gestito tramite il ricorso a procedure terapeutico-sanitarie, tra i quali spiccano le case farmaceutiche, le categorie professionali nel campo della salute e il pubblico di

pazienti-consumatori (Conrad, 2007; Maturo, 2007, 2009; Bronzini, 2013). Il primato riconosciuto alla dimensione definitoria permette di sottolineare l'elasticità del concetto di medicalizzazione: ci sono condizioni come la morte, il parto, alcune severe malattie mentali che sono ormai del tutto medicalizzate, mentre alcuni casi di una condizione possono esserlo solo parzialmente, come la menopausa, o non esserlo affatto; possono coesistere definizioni contrastanti oppure dai confini poco netti che a seconda del momento storico, e degli attori coinvolti pro e contro, si espandono o si contraggono, determinando, quindi, anche casi concreti di demedicalizzazione. Perché quest'ultima possa avere luogo, specularmente, un problema non deve più essere definito in termini clinici e i trattamenti medici non devono più essere ritenuti una soluzione appropriata. Un caso esemplare è senz'altro quello dell'omosessualità, ufficialmente demedicalizzata negli anni '70, per quanto ci siano tutt'ora chiare spinte verso una sua “rimedicalizzazione”, perlomeno parziale (Conrad, 2007).

In quest'ottica, la posizione di Conrad è totalmente in linea con quella espressa prima di lui da Freidson e, più in generale, dagli scienziati sociali all'interno della prospettiva socio-costruzionista. Conrad (2015: vii), infatti, sottolinea un totale distacco critico e la totale neutralità del concetto dal lui proposto: “in my view, medicalization research does not adjudicate whether or not an entity is “really” a medical problem, but rather how it became to be depicted (and accepted) as a medical problem and with what consequences”.

La medicalizzazione è dunque una categoria flessibile raffigurante un processo, come si è visto, non sempre lineare ma senza dubbio contestuale, graduale e in continua evoluzione. Esso si fonda su una riconcettualizzazione in termini clinico-patologici di eventi, comportamenti o condizioni più che comuni della vita spesso legati ai cambiamenti fisici associati all'invecchiamento e alla sessualità, come l'infertilità, l'impotenza o la menopausa, ormai a tutti gli effetti “medicalized social problems” (Loe, 2004: 11). In molti casi tale processo comporta anche una destigmatizzazione “from badness to sickness” (Conrad, Schneider, 1992) di comportamenti che in passato venivano concepiti come devianti, immorali o addirittura criminali, tra cui l'alcolismo, la tossicodipendenza, i disturbi mentali, grazie ad una vera e propria dislocazione della responsabilità poiché il singolo soggetto, una volta attestato il suo status di malato fisico, non viene più considerato diretto responsabile della propria situazione e la risposta a livello sociale si sposta dall’essere punitiva o di critica,

all’essere terapeutica, in linea con il noto modello dello sick-role parsonsiano (Parsons, 1951/1981: cap. 10).

Secondo questa prospettiva, si asseconderebbe un processo di “depolicitizzazione e individualizzazione dei problemi sociali” (Zola 1972: 500; Furedi, 2004; Conrad, 2007: 152) e una parallela “normalizzazione della malattia e della terapia” (Furedi, 2004: 122) che comporterebbe una vera a propria “sottomissione” nei confronti delle cosiddette “professioni di aiuto” (Furedi, 2004: 122). Da un lato, infatti, sembra rafforzarsi la tendenza a trattare complessi problemi sociali con soluzioni medico-tecnologiche quick-fix (Wienke, 2006) che risolvono il sintomo immediato senza incidere sulle strutture socio-culturali, politiche ed economiche che possono esserne la causa a monte. Dall'altro, invece, si riduce il raggio di cio che è considerato accettabile, operando contemporaneamente un'espansione diagnostica della categoria dell'underperformance (Conrad, 2007: 64) e un graduale declino della soglia di tolleranza verso i sintomi più vaghi, modesti e isolati (Barsky, 1988; Furedi, 2004). In questo modo si introduce, contemporaneamente, un nuovo tipo di responsabilità che richiede ai singoli soggetti di impegnarsi in un costante regime di auto-sorveglianza (Parsons, 1951/1981; Katz, Marshall, 2004) per mantenersi al passo di odierni standard psico-fisici sempre più elevati (Rose, 2008; Maturo, 2009) dipendenti da concezioni di normalità fortemente medicalizzate/psicologizzate e, di conseguenza, poste sotto un vero e proprio “imperativo terapeutico” (Furedi, 2004).

Un ambito ricco di esempi in questo senso è quello del disagio mentale che sembra essere stato attraversato, negli ultimi decenni, da diversi processi tra loro interrelati, quali: una maggiore genericità dei criteri diagnostici, una quasi totale indifferenza verso il contesto entro il quale i sintomi prendono forma e l'attribuzione di tutti i disturbi ad una alterazione neurochimica del cervello. Basta guardare alla crescita esponenziale e “impressionante” (Cardano, 2012: 91) delle patologie mentali all'interno del DSM18 per individuare questi ultimi recenti sviluppi che vanno a caratterizzare il nuovo modello dominante della psichiatria “diagnostica”, totalmente in linea con il riduzionismo biologico imperante nella biomedicina occidentale (Horwitz, Wakefield, 2007; Cardano, 2012: 89-90).

Non solo quindi oggi si assiste ad una vera e propria proliferazione delle patologie 18 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, arrivato attualmente alla 5' edizione

psichiatriche molte delle quali dai confini labili e fino tempi recenti non considerate disturbi psichici, come il disturbo disforico premestruale (Greenslit, 2005) o la semplice timidezza, oggi ribattezzata “fobia sociale” (Conrad, 2007: 17); ma anche ad un processo riduzionista di “somatizzazione” della psiche, ovvero un “azzeramento “della distanza fra il comportamento e le sue basi organiche” (Rose, 2007/2008: 312), che ha permesso un forte ancoraggio dell'eziologia psichiatrica alla psicofarmacologia:

“an increasingly biological trend in psychiatry has convinced more people that mental illness is a purely biological phenomenon without social etiology or sociall exacerbation [...] this leads many people to accept a more mechanistic and positivist approach in which they rely solely on drug treatment and eschew collective responses” (Brown, 1995: 46).

In questo contesto dunque “il sociale si riconduce al cerebrale, il culturale al naturale, la mente al corpo”19 (Marrone in Maturo, 2012: 16). Oggigiorno, infatti grazie ai continui progressi della neuroanatomia e agli sviluppi della tecnologia biomedica di risonanza, scansione e imaging, si sarebbe giunti a dimostrare le basi biologiche della malattia mentale, non più malattia dell'anima, dunque, ma sindrome prettamente fisica, dovuta a degli squilibri biochimici ben localizzabili all'interno del cervello in quanto organo differenziato, caratterizzato da specifiche funzioni mentali individuabili e suscettibili di intervento locale (Rose, 2007/2008: 297-312). A questo proposito Rose (2007/2008: 342) scrive:

In questo stile di pensiero la spiegazione di qualsiasi patologia mentale deve 'passare attraverso' il cervello e la sua neurochimica [...] E pure la fabbricazione e l'azione dei farmaci psichiatrici sono concepite in questi termini. Non che gli effetti biografici siano esclusi, ma la biografia – stress familiare, abusi sessuali – ha effetto attraverso il suo impatto su questo cervello. L'ambiente gioca la sua parte, ma disoccupazione, povertà e simili producono effetti solamente in quanto vanno a incidere su questo cervello. Le esperienze – per esempio, gli abusi di sostanze o i traumi – giocano la loro parte ma, ancora una volta, attraverso il loro impatto su questo cervello neurochimico.

In riferimento a cio bisogna sottolineare il fatto che, sebbene la definizione data da Conrad descriva un processo di per sé neutrale20, le principali indagini in questo campo hanno 19 Rose (2007/2008: 304) a riguardo afferma che la mente finisce per diventare “semplicemente l'attività del cervello, e la patologia mentale è semplicemente la conseguenza comportamentale di un errore o di un'anomalia identificabile, e potenzialmente correggibile, di qualcuno degli elementi ora considerati aspetti del cervello organico”.

20 Conrad (2015: vii) ha recentemente espresso le sue perplessità circa la sovrapposizione fra il concetto di medicalizzazione con quello di sovra-medicalizzazione, giudicandolo una “trappola” in cui uno scienziato sociale non dovrebbe cadere: “some critics often conflate medicalization with overmedicalization and use the term almost as an epithet. They work from the assumption that medicalization is a 'bad' thing. But it is easy to come up with examples where medicalization has had positive effects, e.g., epilepsy as a disease not a curse

spesso adottato un punto di vista critico relativo agli interessi in gioco da parte di quegli attori collettivi ritenuti le forze trainanti del fenomeno. Se fino agli anni '70, come si è visto, si è parlato per lo più di dominanza professionale medica (Freidson, 1970/1988; 2002), dagli inizi degli anni '80, data la più che notevole influenza nell'ambito sanitario dei colossi monopolistici farmaceutici, in molti critici hanno descritto negativamente il fenomeno di una sovra-medicalizzazione spinta da logiche di mercato (Moynihan, Cassels, 2005; Law, 2006; Loe, 2004).