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Verso l'ottimizzazione. Tra suscettibilità e potenziamento …

I. I confini mutevoli della diagnosi …

1.6 Verso l'ottimizzazione. Tra suscettibilità e potenziamento …

Rose (2007/2008), allacciandosi al discorso sul rischio e sulla predisposizione, riassume sotto il termine di suscettibilità tutti gli interventi biomedici finalizzati all'identificazione e alla prevenzione di patologie che potrebbero manifestarsi in futuro in persone altrimenti asintomatiche, diagnosticando loro uno stato di malattia potenziale o protomalattia. La suscettibilità va, dunque, a superare la semplice valutazione e gestione, terapeuticamente preventiva, dei fattori di rischio e diventa qualcosa che si puo definire con sempre maggiore precisione a livello del singolo individuo, grazie soprattutto ad una nuova spazializzazione dello sguardo medico che determina il passaggio dallo sguardo anatomo-clinico di Foucault a quello molecolare segnalato appunto da Rose (2007/2008; cfr. Bronzini, 2013). L'associazione delle concezioni di predisposizione, rischio e prevenzione, unite ai continui progressi delle tecnologie di controllo, screening e imaging e all'avvento della scienza genetica, avrebbero, infatti, prodotto un netto avanzamento di scala. Per usare le parole dello stesso Rose (2007/2008: 137-138):

“la combinazione dell'idea di suscettibilità come precisione genomica, della tecnologia dello screening genetico e della promessa di interventi medici preventivi sembra costituire un salto qualitativo nelle capacità degli esperti biomedici di individuare un futuro potenzialmente indesiderabile e di renderlo prevedibile. E cio stesso sembra stimolare o addirittura richiedere interventi medici sugli individui suscettibili nel presente, per indirizzare il loro percorso verso un diverso e più desiderabile – meno malato – futuro”.

Queste dinamiche pongono delle questioni centrali che la sociologia della salute e della medicina non puo esimersi dal prendere in considerazione. La diagnosi di una condizione ottenuta attraverso lo sguardo molecolare infatti, oltre a influire sulle capacità tecniche e sulle ambizioni degli specialisti, “prefigura scenari inediti per l’ontologia stessa della salute e della malattia” (Bronzini, 2013). Ed è anche trascurabile, continua Rose, il fatto che gli avanzamenti negli studi sulla farmacogenomica, sui test genetici, sulla mappatura del DNA non siano ancora stati all'altezza delle aspettative per quanto riguarda l'ottenimento di risultati concreti e clinicamente significativi tanto che, sottolinea Bronzini (2013; cfr. Conrad, 2005), la portata effettiva della genetica e della genomica si puo stimare ancora solo in termini potenziali. Infatti, l'imponente eco mediatica riscossa da iniziative quali il Progetto Genoma Umano comporta che le aspirazioni della pratica della medicina odierna tendano

nella direzione di una “medicina predittiva, preventiva e personalizzata” (Rose, 2007/2008: 139; cfr. Conrad, 2005; Bronzini, 2013) composta da terapie mirate e costruite su misura28, che lasciano dunque presagire scenari ancora non del tutto esplorati. In questo senso, è lecito poter parlare anche di “geneticizzazione” dal momento che si ha a che fare con il tentativo di far risalire alle combinazioni dei geni sia le cause di una determinata condizione che, più in generale, le caratteristiche degli individui. Nonostante, dunque, il linguaggio della genetica sia ancora di tipo altamente probabilistico e non sia ancora riuscito a trovare una generalizzata e continuativa applicazione clinica, a livello di opinione pubblica quantomeno, i concetti di rischio e predisposizione sono stati ampiamente, e semplicisticamente (Bronzini, 2013), assimilati. Ne deriva quindi una nuova concezione di malattia, ancora più pervasiva proprio perché strutturata al livello di una potenzialità la cui manifestazione è del tutto scollegata dal contesto ambientale (sociale, emotivo, relazionale, strutturale etc) degli individui “a rischio”, in tutto e per tutto assimilabili a dei “malati virtuali” o ancora a dei “pazienti perpetui” (Braun; Finkler in Bronzini, 2013; cfr. Rose, 2007/2008).

La categoria della suscettibilità mostra chiaramente come, ormai, uno dei campi di azione della conoscenza biomedica riguardi l'intervento sugli esseri umani nel presente avendo di mira l'ottimizzazione della loro vitalità futura. L'altro parametro che, stando a Rose, completa la dimensione dell'ottimizzazione è la categoria del potenziamento (o miglioramento) umano. Diverse sono le definizioni che si trovano in letteratura del (biomedical) human enhancement. Per Rose il concetto di potenziamento riguarda tutti quei “tentativi di ottimizzare o migliorare praticamente qualsiasi capacità del corpo e della mente umana – forza, resistenza, longevità, attenzione, intelligenza – per aprirla all'intervento artificiale e includerne la gestione nella competenza della biomedicina” (Rose, 2007/2008: 132-133); per Elliott fa riferimento alla varietà di farmaci e procedure che sono utilizzate dai dottori non solo per curare una condizione patologica, ma anche per migliorare capacità o caratteristiche degli esseri umani, rendendoli meglio dotati (Elliott, 2003: xvii-xviii); Douglas intende l'utilizzo di dispositivi tecnologici biomedici per ottenere risultati diversi dalla cura o dalla prevenzione della malattia (Douglas in Maturo, 2009: 20), mentre Conrad sottolinea il suo uso specifico nel campo della bioetica indicante quegli interventi designati per migliorare 28 Rose parla di un possibile futuro spostamento dalla vendita dei blockbuster drugs, farmaci all'ingrosso, ai

l'aspetto o le funzionalità degli individui al di là di quanto sia necessario per sostenere o ristabilire lo stato di salute (Conrad, 2007: 71).

Sempre per Conrad è necessario distinguere tre diversi tipi di potenziamento, tra loro interrelati: si ha un intervento di normalizzazione quando l'obiettivo è quello di (ri)portare il corpo in linea con in una situazione considerata normale in relazione agli standard sociali, come per esempio nel caso di una terapia ormonale per la bassa statura non patologica, o le operazioni di chirurgia “puramente” estetica29; si parla invece di ristrutturazione quando gli interventi biomedici sono utilizzati per ringiovanire il corpo o comunque riportarlo ad una condizione ottimale; si arriva infine al vero e proprio miglioramento della performance, in assenza di nessuna patologia conclamata, principalmente attraverso l'uso di farmaci con obbligo di prescrizione o di vere e proprie sostanze psicoattive illegali usate per garantire ai soggetti un vantaggio competitivo. Il caso del doping nello sport è senz'altro quello più evidente, ma ricadono in questa categoria anche l'uso del Ritalin (e affini) come potenziatore cognitivo tra gli studenti, o ancora l'uso del Viagra (e affini) come potenziatore della performance sessuale. Sulla base della tipologia tratteggiata da Conrad si possono quindi individuare diverse aree principali di intervento a scopi di enhancement: il miglioramento cognitivo, il miglioramento emotivo, il miglioramento fisico e l'estensione della vita (Maturo, 2009: 19; cfr. Tognetti, 2013; Lupton, 2013).

Data questa breve ricostruzione dei diversi obiettivi e ambiti del potenziamento, sia che si parli di farmacologizzazione, sia che si preferisca utilizzare la cornice della (bio)medicalizzazione, una cosa sembra essere certa: il confine tra terapia e ottimizzazione è incredibilmente labile, infatti la maggior parte dei farmaci e delle tecnologie biomediche contengono al loro interno istanze terapeutiche e migliorative. Il Viagra puo potenziare le prestazioni sessuali o curare una disfunzione erettile nei prostatectomizzati, e la chirurgia plastica puo apportare dei perfezionamenti estetici puramente cosmetici o risanare delle lesioni fisiche (Elliott, 2003: 107). Per cui è il contesto d'uso dei farmaci e dei dispositivi biomedici a fare spesso da discriminante per determinare se l'intervento venga utilizzato per scopi terapeutici o di enhancement, e la legittimità di questi ultimi, così come mostrano 29 Elliott fa notare a questo proposito come la nozione di “complesso di inferiorità” in realtà tenda a fornire una giustificazione terapeutica alla chirurgia estetica, non più puramente cosmetica dunque, ma volta alla cura di deficit psicofisici autopercepiti, una sorta di “psichiatria con lo scalpello” (Elliott, 2003: 121)

distintamente gli esempi avanzati da Conrad che mette in evidenza la differenza intercorrente fra l'uso di un potenziatore cognitivo per un malato di Alzheimer, e l'uso off-label per uno studente che prepara gli esami universitari o per un concorrente durante un torneo agonistico di scacchi (Conrad, 2007: 72-88).

Allo stesso tempo pero, è proprio la labilità di questo confine che porta a problematizzare ulteriormente la questione legata al biomedical enhancement, a partire dallo stesso concetto di normalità. Torna utile, per cogliere meglio questo punto, la categorizzazione di normalità lungo tre profili proposta da Horwitz che distingue fra la normalità statistica, la normalità normativa e la normalità evolutiva. Nel primo caso si ha che fare con una “proprietà dei gruppi e non degli individui” (Horwitz in Maturo, 2009: 28) e si considerano normali quelle situazioni o quei valori che si presentano nella stragrande maggioranza della popolazione o che accadono con maggiore frequenza, sulla base della moda o della media; il criterio normativo invece interpreta la normalità come conformità ad un modello definito socio-culturalmente che molto spesso interviene per modificare cio che è dato in natura; in ultimo la normalità evolutiva si basa sulle funzioni adattive e coincide con quelle caratteristiche che risultano vincenti nella selezione naturale.

Su quale concetto di salute normale si andrebbe quindi ad innestare il miglioramento biomedico se si definisce tale intervento come operato su una persona “sana” al fine di migliorarla? E quanto dovrebbe essere limitata la diffusione della differenza competitiva di cui si fa portatore tale intervento prima che tale diffusione vada a rientrare quantomeno nella media statistica? Quando si parla di spostamento di standard di normalità si fa riferimento proprio alle dinamiche che si celano dietro a queste domande (Maturo, 2009: 25; cfr. 2012; Williams, Martin, Gabe, 2011). Maturo cita il caso della chirurgia estetica, e per la precisione la mastoplastica additiva, per esemplificare il passaggio tra vari stadi di normalità sovradescritti. Il caso della chirurgia plastica al seno potrebbe essere infatti letto in quest'ottica se si interpretano i primi interventi al seno in termini di normalità evolutiva in quanto tentativi di aumentare la propria autostima e avere maggiore “successo”, e la successiva imposizione, specie in determinati ambienti, di un canone di bellezza artificiale come esempio normalità normativa. “Se le azioni di chirurgia estetica si susseguono a questo ritmo c'è la possibilità che il seno rifatto divenga 'normalità statistica'” (Maturo, 2009: 29), per

lo meno in alcuni ambienti come quello dello spettacolo dove la mancata adesione a specifici canoni estetici comporta sempre più spesso l'esclusione tout court, “e qui la 'moda estetica' tornerebbe al suo significato statistico” (Maturo, 2009: 29). In questo senso il potenziamento umano rappresenta una grande tentazione a livello sociale poiché offre la possibilità di ottenere una differenza competitiva attraverso una quick-fix solution, a maggior ragione se tale soluzione quick-fix è rappresentata da una pillola. Come pero d'altronde succede in ogni nicchia di mercato di successo, soprattutto all'interno della società occidentale da sempre affascinata dalla ricerca dell'eterna giovinezza e del prestigio derivante dall'affermazione di una superiorità intellettuale, fisica e materiale, si assiste di continuo al dilagare delle mode e all'imporsi di canoni, estetici e performativi, anche su larga scala.

È a questo punto che l'essenza del biomedical enhancement comincia a perdere sostanza e sfumare nel rischio che la differenza competitiva di cui si fa portatore si imponga con il passare del tempo, se non come una necessità virtualmente universale, quanto meno come requisito fondamentale per poter essere ammessi in alcuni settori o comunque essere a proprio agio con se stessi, pena, per chi ne è sprovvisto, un forte svantaggio o un forte senso di inadeguatezza, per certi versi proprio “patologici”. Per quanto dunque, a prima vista, gli interventi di human enhancement sembrano innestarsi sulla normalità, non per patologizzarla, ma per ottimizzarla (Maturo, 2009: 25; cfr. 2012), le dicotomie del normale/patologico e del normale/migliorabile non sembrano essere poi così nettamente separate30. Accade infatti che, mette in chiaramente in luce Maturo (2009: 30-31), “il migliorabile di oggi [possa facilmente diventare] il patologico di domani”, in un circolo vizioso il cui risultato è quello di un continuo ed erosivo spostamento degli standard di normalità e un conseguente allargamento del bacino di cio che Conrad definisce come categoria dell'underperformance. Quando infatti, come si avrà modo di evidenziare per quanto riguarda l'ambito della sessualità (Katz, Marshall, 2004), si tende a stabilire una implicita equazione tra cio che è normale e cio che è 30 La medicalizzazione intesa come patologizzazione si presenta sempre come cura di condizioni umane che vengono costruite come anormali proprio perché patologiche o a rischio. In questo senso, la medicina viene legittimata ad intervenire solo nel caso in cui, per esempio, la timidezza venga classificata come fobia sociale, la calvizie come alopecia, i problemi digestivi come sindrome dell'intestino irritabile e così via. Nel miglioramento umano non è, invece, apertamente rintracciabile la marca della patologizzazione, necessaria affinché si possa parlare di medicalizzazione. Il focus dello human enhancement si concentra, infatti, sull'utilizzo della tecnologia biomedica per migliorare lo stato di un individuo non bisognoso di cure, quindi senza nessun fine riparativo o terapeutico (Conrad, 2007; Maturo, 2009; 2012; Williams, Martin, Gabe, 2011).

ottimale, per riflesso automatico si riterrà “disfunzionale”, spesso con una chiara valenza patologica, qualsiasi performance o stato psico-fisico che non è svolto o raggiunto al massimo delle sue possibilità imposte a livello socioculturale. Il concetto di underperformance quindi, secondo Conrad (2007: 64-65), “can be reflected in how tasks are accomplished, continual problematic adaptations, or the level of success achieved. Individuals feel that they could/should be doing better, and they seek help in improving their performance”.