L’assistenza probatoria internazionale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo
7. Considerazioni conclusive
In assenza di una previa armonizzazione normativa tra le legislazioni degli Stati membri, è toccato alla Corte europea dei diritti dell’Uomo elaborare una serie di criteri finalizzati ad assicurare, nei casi transnazionali, adeguata tutela alle garanzie fondamentali dei tanti soggetti coinvolti.
In particolare, nel ribadire come il compito della Corte non sia quello di giudicare la disciplina del procedimento probatorio degli Stati ma quello di valutare la
fairness processuale, i giudici di Strasburgo hanno finito con l’affermare che la
cooperazione tra autorità giudiziarie non può in nessun caso comportare una restrizione dei diritti fondamentali in misura incompatibile con le garanzie di cui all’art. 6 CEDU.
Il parametro da sempre tenuto in considerazione dalla Corte per verificare il rispetto, in ogni giudizio, dell’equità procedurale è il diritto al confronto, da intendersi come unico strumento in grado di assicurare, nella fase di formazione della prova, il contraddittorio tra le parti.
La Corte ha così affermato, nei casi transnazionali passati in rassegna nei paragrafi precedenti, che l’esigenza di non pregiudicare – con una declaratoria di inutilizzabilità – l’impegno profuso in sede di cooperazione internazionale non può esimere gli Stati richiedenti da un’indagine seria sull’effettivo rispetto delle garanzie fondamentali.
Se è vero, infatti, che le autorità richiedenti non possono essere ritenute responsabili per le modalità con cui si svolge l’esame all’estero, è altrettanto vero che compete a loro verificare, in piena indipendenza e secondo i principi fondamentali del proprio ordinamento, se le modalità con cui l’atto è stato assunto lo rendano utilizzabile come prova.
Resta allora da chiedersi cosa debba intendersi per cooperazione tra autorità in ambito penale e quali siano gli obiettivi avuti di mira dalla disciplina dell’assistenza giudiziaria probatoria.
Secondo alcuni ordinamenti (ad esempio quello spagnolo) non c’è ragione di dubitare della legalità delle modalità di acquisizione della prova proprie dello Stato richiesto; così, le prove raccolte all’estero da autorità straniere conformemente al principio del locus regit actum sono per ciò solo utilizzabili nel processo interno.
Simili impostazioni delineano un’idea precisa di assistenza giudiziaria probatoria: la collaborazione penale tra autorità deve evitare il pericolo che l’impegno profuso in sede di cooperazione internazionale possa essere frustrato da una declaratoria di inutilizzabilità ove le modalità con cui l’atto è stato assunto non risultino in linea con le garanzie di cui all’art. 6 CEDU.
Se da un lato è evidente il punto di forza di questa idea di assistenza giudiziaria probatoria, che risiede nella fiducia che gli Stati richiedenti ripongono nella struttura e nel funzionamento dei rispettivi ordinamenti giuridici e nelle capacità di tutti gli Stati di garantire processi equi, dall’altro ne sono pure chiari i limiti. La principale preoccupazione è che si assista al rischio di un arretramento sul piano delle garanzie, ove si ritengano spendibili nella dinamica processuale interna prove acquisite all’estero secondo il principio della lex loci, senza verificare l’effettivo rispetto dei diritti fondamentali dei soggetti coinvolti.
Al contrario, la mancata previa armonizzazione delle normative nazionali e il tasso di disomogeneità esistente tra i singoli sistemi processuali non consentono di eludere il controllo di ciascuno Stato richiedente circa l’osservanza del contraddittorio nella fase di formazione della prova.
I giudici di Strasburgo hanno più volte affermato – proprio in occasione di vicende transnazionali – come, pure a fronte di un allontanamento dalle ordinarie modalità di formazione della prova per ragioni di protezione di soggetti deboli o esigenze di sicurezza non altrimenti tutelabili, i diritti della difesa non possano essere ristretti in misura incompatibile con le garanzie previste dall’art. 6 CEDU. Se questo è vero si capisce come per non frustrare il fine della cooperazione e l’impegno profuso dallo Stato richiesto, l’autorità richiedente deve attivarsi per fare in modo che la prova sia assunta nel rispetto del contraddittorio, ad esempio partecipando all’atto rogato per suggerire gli accorgimenti necessari per l’utilizzabilità del materiale probatorio raccolto all’estero.
Il concetto di cooperazione non può pertanto coincidere con l’idea di ritenere spendibili nel processo prove assunte all’estero quali che siano state le modalità di acquisizione; per nessun motivo, nel bilanciamento tra contrapposti interessi, esigenze di celerità ed economicità processuale possono prevalere sul principio della formazione della prova nel contraddittorio tra le parti.
Il confronto dialettico tra le parti è l’unico strumento in grado di consentire valutazioni attendibili sugli elementi probatori utilizzati ai fini decisori; deviazioni
dal classico svolgimento adversarial del procedimento sono ammesse solo a patto che siano apprestati contrappesi procedurali in grado di compensare dette limitazioni.
La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha svolto dunque un ruolo centrale nell’individuare le garanzie minime da assicurare nella fase di formazione della prova per garantire l’equità del processo.
Questo in alcuni casi ha portato a un miglioramento qualitativo delle discipline nazionali e a un innalzamento del livello di tutela dei diritti fondamentali da parte degli Stati.
Ma quel che più forse è apprezzabile è il ruolo svolto dalla Corte di Strasburgo nell’ambito del processo di armonizzazione del diritto delle prove.
Nel valutare di volta in volta l’equità processuale ai sensi dell’art. 6 CEDU, la Corte ha individuato un articolato sistema di norme minime sull’ammissione della prova, che ha finito col facilitare la comunicazione tra gli ordinamenti; in questo scenario, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali si è posta come «fonte indiretta di ravvicinamento della disciplina della prova penale».
In tutti i casi esaminati la Corte ha stabilito, per un verso, la necessità che all’imputato sia sempre garantita un’occasione adeguata per contestare una testimonianza a carico, e che occorre apprestare contrappesi procedurali in grado di compensare i limiti arrecati – per esigenze di sicurezza non altrimenti tutelabili – al contraddittorio; ha così dichiarato l’illegittimità della prova assunta in difetto di confronto dialettico tra le parti e posta a fondamento della decisione di condanna.
Per l’altro, invece, si è impegnata nell’individuare le modalità in grado di assicurare il contraddittorio nella formazione della prova e la partecipazione effettiva dell’imputato al processo.
Emblematico, in questo senso, è il caso dell’impiego del video-collegamento nel processo penale, ritenuto compatibile con i valori convenzionali a patto di verificarne, di volta in volta, l’attitudine ad assicurare risultati effettivi in chiave partecipativa.
Si apprezza così, in tutti i casi esaminati, il tentativo di favorire il ravvicinamento delle diverse legislazioni e la comunicazione tra gli ordinamenti, senza che in alcun modo possa determinarsi «una forzata omologazione suscettibile di
comportare arretramenti sul piano delle garanzie450». Resta, infatti, ferma la possibilità, per ciascuno Stato, di predisporre un livello di tutela più elevato di quello desumibile dagli standard internazionali.
L’esigenza di un’armonizzazione tra i vari sistemi probatori trova – così – nuovo slancio grazie alla Corte di Strasburgo che, mediante l’individuazione delle garanzie minime da assicurare nella fase di formazione della prova dichiarativa e in assenza di una previa omogeinizzazione tra le legislazione degli Stati, facilita la circolazione delle prove e il raggiungimento degli obiettivi avuti di mira con la cooperazione.