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Contesto internazionale

Parte II: La dimensione economica della “chiusura del cerchio”

4. Proposte per favorire lo scambio di beni prodotti in linea con i principi dell’economia circolare

4.1. Contesto internazionale

Partiamo dall’analisi della distribuzione dell’industria a livello globale. Da una parte, i Paesi aderenti al G7, a storica vocazione manifatturiera, e dall’altra i Paesi che fino a qualche anno fa venivano con-siderati in via di sviluppo e che oggi rappresentano una realtà con cui competere, identificabili so-stanzialmente nell’area del Sud-Est Asiatico. All’interno dell’area G7, una ulteriore suddivisione appare doverosa visti anche i recenti sviluppi, tra il blocco europeo e l’amministrazione statunitense. Se mettiamo a confronto queste tre piattaforme industriali - USA, Sud-Est Asiatico, Europa - cogliamo subito delle profonde differenze nel modo in cui i Governi si relazionano con l’industria, in altri ter-mini se e in che modo vengono messe in atto politiche industriali in campo ambientale.

Quello che emerge è che rispetto a una impostazione più liberista, tipica degli statunitensi, e una più di-rigista, che caratterizza paesi del Sud-Est asiatico (prima su tutti la Cina), l’Europa si colloca a metà fra i due approcci, fornendo degli indirizzi a livello UE, accompagnati in diversi casi da stanziamenti di risorse,

che debbono però poi essere calati e implementati concretamente a livello di singoli Stati Membri. Si pensi ad esempio al caso della spesa per Ricerca e Innovazione: il Piano Horizon 2020 ha destinato, a livello UE nel periodo 2014-2020 un totale di circa 80 miliardi di euro, che diviso su base annuo (circa 11 mld di euro) non rappresenta neanche una unità percentuale del PIL europeo.

Per questo motivo, i singoli stati membri hanno ritenuto opportuno mettere in piedi anche dei programmi di investimento e sostegno all’industria su base nazionale, come nel caso italiano di Industria 4.0. Tale impostazione la si ritrova anche quando si parla di politiche ambientali.

L’Europa ha ormai da decenni un approccio votato alla definizione di obiettivi sempre più sfidanti (basti pensare a quelli in materia climatica o di gestione di rifiuti al 2030), immaginando che tale am-bizione possa essere un volano all’innovazione, stanziando risorse a livello europeo che, nel caso del programma Horizon verranno solo leggermente rivisti al rialzo: si passerà dagli 80 miliardi del pe-riodo 2014-2020 a 96 miliardi nei successivi 7 anni.

Tale approccio dovrà necessariamente essere confrontato con quello delle altre due piattaforme in-dustriali che, soprattutto nel caso della Cina, si apprestano ad assumere la leadership in tale campo. Dalle ultime notizie disponibili, nell’ultimo piano quinquennale cinese comunicato a inizio 2016, che stabilisce la direzione dell’economia e la destinazione degli investimenti per i successivi cinque anni, i temi ambientali sono stati al centro della programmazione.

Il Governo cinese ha stanziato investimenti da qua al 2020 per circa 300 miliardi di dollari all’anno, per dare un termine di paragone si tratta all’incirca di un conferimento nel settore pari al PIL danese ogni anno. Come conseguenza, l’investimento totale nel tema della protezione ambientale arriverà a rappresen-tare circa il 2.7 del PIL cinese stimato nel 2020.

Anche confrontando i numeri ci si rende immediatamente conto di come l’approccio prevalentemente regolatorio tipico dell’Europa non possa più considerarsi sostenibile, soprattutto se declinato a livello di singolo stato UE.

Da un lato, infatti, dobbiamo considerare che se l’Europa continua a privilegiare obiettivi ambientali sem-pre più ambiziosi in via normativa senza accompagnarli con politiche di incentivazione e sostegno agli in-vestimenti e con la diminuzione dei costi dei fattori produttivi rischiamo di creare mercato alle tecnologie

extra UE nella misura in cui queste possono vantare vantaggi rispetto alle nostre in termini di costi. Dall’altro, non possiamo più pensare al fatto che le politiche industriali in questo campo debbano es-sere lasciate ai soli Stati membri, che non potranno competere da soli con la potenza delle piattaforme industriali continentali come USA e Cina. Allo stesso tempo poi frammentare le politiche industriali a livello di Stati membri rischia di indebolire la loro efficacia.

E’ quindi necessaria una risposta, come Europa, alle sfide ambientali intra ed extra UE su cui l’indu-stria è chiamata a confrontarsi.

La prima risposta riguarda l’investimento pubblico-privato in tecnologia: la tecnologia può infatti ren-dere possibile mantenere o addirittura aumentare gli attuali tenori di vita senza gravare ulteriormente sull’ambiente.

L’Europa e più in generale gli Stati firmatari dell’Accordo di Parigi hanno convenuto sull’impossibilità di invertire il processo, ma semmai di lavorare per lo più sulla mitigazione (es. mantenimento dell’aumento della temperatura entro i 2°) e sull’adattamento ai cambiamenti climatici investendo sulla sostenibilità. Il secondo tema riguarda il rapporto tra industria, ambiente e opinione pubblica; in altri termini il ruolo dell’informazione. E’ necessario che i messaggi relativi al rapporto tra industria e ambiente siano veicolati correttamente in un continente come l’Europa dove la sensibilità ambientale, complice anche l’elevata antropizzazione, è molto elevata.

Riteniamo non più sostenibili discorsi che vedono l’industria, in termini dinamici, in contrapposizione con l’ambiente. Semmai, l’industria è la soluzione alle sfide di sostenibilità ambientale. E’ quindi ne-cessario formare i cittadini sulla necessità di avere l’industria sui territori, non solo come fornitore di posti di lavoro, ma come incubatore di tecnologie per l’abbattimento di emissioni (ad esempio con l’ef-ficienza energetica e le fonti rinnovabili) l’uso efficiente delle risorse naturali attraverso l’economia cir-colare e la creazione di prodotti sempre più performanti e sicuri.

C’è una relazione testimoniata da evidenze empiriche che lega l’industria, l’ambiente e la salute. In-fatti, nei Paesi più ricchi, con un PIL pro capite elevato, le condizioni di salute sono migliori e l’aspet-tativa di vita è di 80 anni. Viceversa, nei Paesi meno ricchi le condizioni di salute sono peggiori e l’aspettativa di vita è di 60 anni.

L’industria contribuisce in modo determinante alla ricchezza di un Paese, determinando quindi le pre-condizioni necessarie al benessere sociale diffuso.