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Le crescenti criticità nella gestione dei rifiuti

Parte III: Analisi tecnologica e impiantistica funzionale a “chiudere il cerchio”

2. Capacità impiantistica nazionale

2.2. Le crescenti criticità nella gestione dei rifiuti

Secondo gli ultimi dati diffusi da Ispra, la situazione impiantistica per la gestione dei rifiuti speciali è quella riportata in tabella 3.4.

Impianti di gestione dei rifiuti speciali (2016)

Tipologia Nord Centro Sud Italia % su totale

Impianti di recupero di materia 2.606 897 847 4.350 39%

Impianti di autodemolizione 669 300 580 1.549 14%

Impianti di rottamazione 80 34 21 135 1%

Impianti di frantumazione 21 6 11 38 0%

Impianti produttivi che effettuano

il recupero di materia 820 247 276 1.343 12%

Impianti di trattamento chimico-fisico

biologico e rincodizionamento 403 176 180 759 7%

Impianti di stoccaggio 1.121 432 379 1.932 17%

Impianti di recupero di energia

presso attività produttive 245 74 53 372 3%

Impianti di incenerimento 50 10 28 88 1%

impianti di discarica 204 51 95 350 3%

Impianti di compostaggio

e digestione anaerobica 105 24 42 171 2%

Totale 6.324 2.251 2.512 11.087 100%

Le considerazioni finora riportate sulla capacità impiantistica stanno diventando sempre più attuali, e la necessità di porre in essere interventi sempre più urgente, anche in considerazione della crescente emergenza che le imprese e gli operatori stanno affrontando nel settore della gestione dei rifiuti. In particolare, i produttori di rifiuti stanno segnalando da più parti (vd. Appendice 2 per le criticità re-lative alle singole Regioni) come i costi di gestione siano aumentati notevolmente negli ultimi anni, sia per quanto riguarda i rifiuti pericolosi, sia per i non pericolosi, inclusi i materiali come carta e plastica. L’aumento dei costi può essere spiegato, in prima battuta, proprio con la limitata o disomogenea di-sponibilità di impianti sul territorio nazionale e con il recente blocco alle importazioni di rifiuti da parte di alcuni partner storici (es. Cina e Germania), causando una notevole riduzione del mercato che tendeva ad assorbire una grossa porzione di tali rifiuti e che ora non trovano sbocco.

In aggiunta, si rileva una sempre maggior diffidenza, a volte pregiudiziale, da parte delle ammini-strazioni e delle comunità locali verso gli impianti di gestione rifiuti, pur necessari per la tutela am-bientale, che di fatto rallenta, se non ostacola del tutto, la costruzione di nuovi impianti e l’ampliamento di quelli già esistenti.

A tali difficoltà di tipo impiantistico e sociale, se ne accompagnano altri di tipo prettamente norma-tivo. A titolo esemplificativo, ricordiamo la discussa sentenza del Consiglio di Stato n. 1229 del 28 febbraio 2018, che ha di fatto bloccato il meccanismo di rilascio della autorizzazioni al trattamento rifiuti effettuato da Regioni e Province “caso per caso”; un meccanismo che ha consentito all’Italia di essere leader europeo nel riciclo dei rifiuti industriali (vd Parte I, Paragrafo 4.3).

L’insieme di tali criticità rischia quindi di mandare in crisi un sistema produttivo, che produce neces-sariamente rifiuti per realizzare i prodotti e servizi richiesti dalla collettività, per il quale è quindi ne-cessario mettere in piedi interventi di pianificazione e di gestione di lungo periodo.

Più nello specifico, è possibile individuare una serie di indicatori che inducono a ritenere estrema-mente probabile l’insorgere a breve-medio termine in più o meno vaste aree – settoriali e territoriali – di una vera e propria emergenza rifiuti.

Il primo indicatore oggettivo, rilevabile e quantificabile, è per l’appunto l’incremento dei prezzi prati-cati dagli operatori del settore (smaltitori e recuperatori) agli utenti (produttori di rifiuti).

Com’è noto, l’andamento dei prezzi di mercato è determinato dal rapporto tra domanda ed offerta, pertanto, l’impennata dei prezzi di smaltimento/recupero non può che essere determinata dalla crescita

della domanda di smaltimento/recupero (conseguente alla ripresa produttiva) o dalla contrazione del-l’offerta, ossia il conseguente esaurimento, senza sostituzione, di impianti di destinazione finale e la decrescente disponibilità complessiva di impianti esteri a ricevere rifiuti dal nostro Paese, o una com-binazione di entrambi questi fenomeni.

Un secondo indicatore può essere considerato a partire dalle elaborazioni delle comunicazioni an-nuali da parte dei produttori e dei gestori di rifiuti (MUD), incrociate con i dati relativi alle potenzia-lità (e quindi il grado di saturazione o di esaurimento) degli impianti autorizzati.

Quanto promesso conduce all’analisi del terzo indicatore, già accennato precedentemente, ossia la cre-scente segnalazione di difficoltà che proviene dagli operatori del settore. Pur trattandosi di difficoltà di vario genere e spesso legate alle specificità dell’attività di ciascun operatore, nel loro complesso posso essere riconducibili alle seguenti cause, tra cui:

• le cd. “barriere non tecnologiche” , ovvero quelle relative all’apparato normativo/amministrativo che, oltre a rendere eccessivamente (e spesso ingiustificatamente) complesse ed onerose (sia in termini economici che di tempo) le procedure e gli adempimenti, in non pochi casi (che negli ultimi tempi sono andati aumentando) finiscono con l’ostacolare in misura più o meno importante qualunque possibi-lità di gestione dei rifiuti attraverso obblighi, adempimenti, operazioni concretamente inattuabili; • l’incertezza dei tempi e degli esiti dei procedimenti amministrativi derivante non solo dalla spesso

eccessiva “prudenza” di un sistema normativo di controllo preventivo, ma anche e soprattutto

dal-l’eccessiva “prudenza” dell’apparato amministrativo nell’applicazione di detto sistema normativo,

già in sé estremamente votato al controllo, disapplicando i fondamentali principi di ragionevolezza e di proporzionalità.

• Se la legge lo impone, infatti, il controllo preventivo, sia esso costituito dalla procedura di VIA, di AIA od altro, va esperito secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, che impongono alla Pubblica Amministrazione, nell’esercizio dei compiti attribuitigli dalla legge, di adottare, caso per caso, la soluzione idonea e necessaria, comportante il minor sacrificio possibile per le posizioni delle parti coinvolte, in primis per il soggetto istante. Ciò significa, in particolare, dimensionare i conte-nuti dell’istruttoria e del provvedimento finale – e quindi anche i tempi della procedura ed il peso delle partecipazioni alla stessa – in ragione dell’effettiva “dimensione” dello specifico oggetto da controllare. Ed è soprattutto l’inadeguata applicazione dei principi ragionevolezza e proporzionalità – se non la loro sostanziale disapplicazione – che determina l’incertezza dei tempi e degli esiti dei procedimenti amministrativi e che in tal modo penalizza coloro che li attivano e scoraggia coloro che a priori vi rinunciano;

• la sempre minor disponibilità degli impianti di smaltimento e recupero rispetto alla produzione di rifiuti, la cui necessità, invece, permarrebbe anche nel più avanzato sviluppo di “economia circolare”. Infatti, com’è noto, non tutti i rifiuti sono recuperabili, ma anche quelli che astrattamente lo sareb-bero di fatto non sono tali – e restano o diventano rifiuti da smaltire – in quanto il recupero non viene tradotto concretamente nella realizzazione dei dovuti impianti, spesso ostacolata sia nella fase di costruzione, che nella successiva eventuale fase di gestione;

• il prossimo esaurimento delle poche discariche ancora attive;

• la già accennata riduzione dei canali di esportazione sia per lo smaltimento in ambito UE che per il recupero extra UE, Cina in particolare.

In sintesi, pur non essendo allo stato prevedibile esattamente né la tempistica, né l’entità, è comun-que certo che a breve si verificheranno situazioni numericamente e dimensionalmente crescenti di emergenza, derivanti da insufficienza di impianti o comunque di canali di smaltimento.

Le difficoltà riguarderanno non solo i rifiuti da produzione e consumo attualmente avviati a smalti-mento, ma anche rifiuti oggi avviati a recupero.

Infatti come affermato in precedenza, salvo casi particolarissimi, il recupero totale non esiste, sicché anche gli impianti di recupero, nel momento in cui non avranno più sbocco per i rifiuti che essi pro-ducono come scarto non recuperabile o residuo da trattamento, non potranno che rallentare o addi-rittura bloccare la propria attività e quindi anche rifiuti che oggi vanno a recupero non troveranno più la loro attuale destinazione.

Il tutto in un contesto normativo/amministrativo che, per le problematiche accennate, certamente non agevola, ma anzi preclude la possibilità di adottare comportamenti, percorsi ed accorgimenti, che cer-tamente non risolverebbero le emergenze, ma che, quanto meno, ne potrebbero mitigare gli effetti, sia in termini numerici, che temporali, che dimensionali.

Pertanto, alla luce di ciò, appare necessaria ed indilazionabile la previsione di strumenti amministra-tivi idonei a prevenire, per quanto possibile, e comunque a fronteggiare la situazione.

2.2.1. La gestione dei fanghi derivanti da depurazione

Un caso esemplificativo riguardante la situazione emergenziale nella gestione dei rifiuti è quello re-lativo ai fanghi da depurazione.

di concimazione del terreno che è in uso in diversi paesi europei e in Italia, costituendo un chiaro esempio di economia circolare così come interpretato e previsto dalla normativa di settore.

Il progressivo aumento e miglioramento della fase di depurazione, sia di quella derivante dalle fo-gnature pubbliche che dai processi industriali, ha portato ad una maggior produzione di fanghi e quindi alla necessità di trovare diverse soluzioni di recupero/smaltimento.

Con sentenza n. 01782/2018 del 20/7/2018 il TAR della Lombardia ha però accolto un ricorso pre-sentato e sottoscritto da circa 65 sindaci di comuni ricompresi nelle province di Lodi e Pavia, avverso alla Delibera della Regione Lombardia (n. X/7076 dell’11 settembre 2017) che di fatto introduceva dei limiti (assenti nella normativa specifica nazionale D.Lgs. 99 del 1992) sulla presenza di idrocarburi nei fanghi da depurazione acque. Questi limiti erano stati ripresi da un’altra normativa regionale (Emilia Romagna) che precedentemente aveva deliberato in merito.

Il TAR nell’accogliere il ricorso ha imposto limiti ancor più restrittivi rendendo tecnicamente ed eco-nomicamente non sostenibile il recupero del fango portando a un blocco dell’intera attività della fi-liera del recupero, criticità riverberatasi quindi sugli impianti di produzione.

Inoltre,tale pronunciamento è andato a compromettere una situazione già di per sé sensibile, in

quanto, si è inserito nel corso dell’iter di approvazione di uno schema di decreto ministeriale del

Mi-nistero dell’Ambiente52 atto a modificare i valori limite relativi al contenuto di elementi

potenzial-mente tossici nei fanghi destinati all’utilizzo in agricoltura.

Tale provvedimento riveste un grande impatto per tutta l’agroindustria nazionale, in quanto da diverso tempo le imprese reimpiegano regolarmente i fanghi di depurazione degli impianti come ammendanti per l’agricoltura, reintroducendo così nel circuito produttivo fattori biologici che favoriscono la produzione agricola ed evitando, al contempo, che tali fanghi vengano destinati ad operazioni di smaltimento. Si auspica che il provvedimento in discussione non vada ad introdurre nuovi parametri o riveda valori limite in maniera immotivatamente restrittiva e vincolante. Così facendo, infatti si andrebbe di fatto ad impedire, alla pari della sentenza della TAR Lombardia, molte attività di riutilizzo dei fanghi in agricol-tura, costringendo gli operatori a richiedere lo smaltimento in discarica, laddove possibile, oppure il tra-sporto all’estero con costi non competitivi o esorbitanti, sia per gli operatori che per la collettività. Parallelamente, se l’obiettivo dello schema di decreto è quello di innalzare l’accettabilità sociale delle attività di spandimento, non deve sfuggire la circostanza per la quale una revisione dei valori limite non coerente con il livello tecnologico o le operazioni di gestione oggi in altro non farebbe che

stare” il problema dell’accettabilità da un sede all’altra.

Infatti, ad oggi, i fanghi essendo impiegati virtuosamente in agricoltura non vengono conferiti in di-scarica. Al contrario, limiti immotivatamente vincolanti e/o non traguardabili, impedirebbero a ingenti volumi di fanghi di essere riutilizzati lasciando lo smaltimento in discarica come unica opzione alla loro

gestione. Inoltre se consideriamo i dati AEEGSI53, al 2014, già il 25% dei fanghi prodotti viene

desti-nato allo smaltimento in discarica, mentre il 75% viene recuperato (di cui il 38% viene destidesti-nato allo spandimento in agricoltura mentre il 46% viene utilizzato per la produzione di compost) e, pertanto, se si va a compromettere questa porzione di attività le stesse discariche non sarebbero in grado di ge-stire a tali volumi e/o le relative sostanze in essi contenute, andando ad aggravare ancora di più la si-tuazione di emergenza impiantistica descritta precedentemnte

Di conseguenza, il problema dell’accettabilità sociale dell’utilizzo di tali fanghi, come anche per altre tematiche industriali, andrebbe piuttosto affrontato con politiche ambientali ed impiantistiche dirette a valorizzare le risorse naturali attraverso percorsi virtuosi, quale ad esempio l’utilizzo dei fanghi in impianti a biogas. Per consentire ciò si potrebbe modificare l’allegato X, alla parte Quinta, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e dettare le disposizioni per il loro utilizzo come combustibili, dimo-strando come si possono attivare leve importanti in un’ottica di economica circolare senza pregiudi-care le attività economiche e amplifipregiudi-care i problemi ambientali sul territorio.

A parziale superamento della fase di emergenza è stato inserito all’interno del D.L. n. 109 del 2018 (cd. DL “Genova”), in vigore dal 29 settembre, un articolo dove in sostanza sono stati indicati dei li-miti per i fanghi da rispettare nella fase di spandimento in agricoltura fino all’adozione della norma-tiva nazionale nella sua completezza.