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PARTE II: LA SCIENZA DELLA MENTE

2.2.1. Controllo del movimento

Il meccanismo neuronale coinvolto nel movimento volontario – come abbiamo già avuto modo di vedere nel § 1.3 – coinvolge principalmente la via piramidale che dalla corteccia motoria conduce ai motoneuroni spinali, i quali a loro volta “scaricano” sulle fibre nervose e muscolari; il comando intenzionale dell’azione, però, coinvolge in primis l’area motoria supplementare, la quale a sua volta provoca l’eccitazione della corteccia motoria primaria. Lo sviluppo della presente regione

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corticale fu senz’altro essenziale alla serie di modificazioni strutturali che portarono alla caratterizzazione della specie ominide in contrapposizione al progenitore ominoide e al parente pongide: fra queste possiamo annoverare l’acquisizione della deambulazione bipede, dei movimenti fini che coinvolgono la mano e l’abilità prensile e le trasformazioni del cavo orale e dei muscoli respiratori che portarono alla realizzazione dell’espressione linguistica (la quale fu resa possibile soprattutto grazie a condizioni ambientali che favorirono la vita in comunità). Sappiamo che la deambulazione bipede, una caratteristica prettamente umana, è presente in modo stabile già nell’esemplare Australopithecus afarensis: il ritrovamento di impronte fossili appartenenti a tre individui (Laetoli, Tanzania del Nord; M. Leakey, 1978), stampate su cenere vulcanica e datate a circa 3,6 milioni di anni fa, testimoniano un’andatura a passi lunghi, appropriata per un ominide alto in media 140-150cm. Questa traccia – oltre ad essere fondamentale, come vedremo, in prospettiva socio-antropologica – mette in evidenza la già avvenuta modificazione della relazione strutturale fra colonna vertebrale, anca, pelvi e arti posteriori, essenziale alla postura eretta e alla deambulazione bipede. Il passaggio da una posizione quadrupede a una bipede, inoltre, deve aver comportato non solo una severa modificazione strutturale, ma anche una più importante riorganizzazione morfologica e operazionale del sistema nervoso centrale in funzione del mantenimento posturale in situazioni di moto e stasi: sappiamo che questo tipo di controllo motorio è legato a meccanismi di compensazione continua dell’equilibrio, che inizialmente devono essere stati modulati anche volontariamente in relazione agli stimoli percettivi esterni, fino a diventare processi di controllo automatici e ritmici, dipendenti da scariche riverberanti che coinvolgono corteccia motoria, nuclei basali e cervelletto. Eccles ipotizza che l’incremento cerebrale (di tipo quantitativo) che ha interessato le Australopithecinae possa essere correlato proprio a tale riorganizzazione funzionale, che ha richiesto una maggiore coordinazione spazio-temporale al fine di garantire all’organismo una maggiore agilità.

Un ulteriore passo evolutivo è sicuramente rappresentato dallo sviluppo di meccanismi neuronali più specifici, deputati al controllo fine delle risposte motorie: queste, generalmente, seguono all’elaborazione di uno stimolo percettivo da parte delle strutture telencefaliche e cerebellari, e producono un riflesso – solitamente involontario – che opera attraverso la costituzione di “circuiti lunghi”, ovvero di connessioni durature che costituiscono strutture di servocontrollo con propaggini nei centri nervosi più elevati (come, appunto, la corteccia cerebrale). Tale funzione di controllo a “circuito lungo” delle risposte motorie deve aver avuto un ruolo essenziale nello sviluppo

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di movimenti complessi e raffinati, come quello manuale e prensile; nel corso dell’evoluzione, infatti, tali meccanismi devono aver avuto uno spazio sempre maggiore nei casi di compensazione automatica e involontaria dell’errore, fino al punto da poter essere controllati in funzione dello svolgimento di attività poietiche e artistiche. Sulla base dei ritrovamenti, sappiamo che probabilmente Australopithecus africanus non possedeva grandi abilità manuali, mostrando solamente una presa di potenza – non di precisione – e l’utilizzo di oggetti rudimentali.

Fu Homo habilis il primo esemplare ominide a manifestare una ottimizzata abilità di fabbricazione strumentale: egli utilizzava pietre (selce e quarzo) lavorate con la tecnica della scheggiatura, a scopo predatorio e difensivo. Sebbene anche le Australopithecinae fossero dotate di pollice opponibile, non furono ancora in grado di controllarne il movimento: «probabilmente il limite era rappresentato più dalle caratteristiche funzionali del cervello che non dalle capacità della mano»93 . La capacità di controllare i movimenti fini sarà un altro passo decisivo verso la

strutturazione di un apparato fonatorio sufficiente all’espletamento della funzione comunicativa.

La cosiddetta “Teoria della ricapitolazione” – secondo cui l’ontogenesi individuale sarebbe una ricapitolazione della filogenesi della specie – fu introdotta da E. Haeckel a completamento del paradigma darwinista classico, nel tentativo di ridurlo ad una prospettiva monistico-materialista. Sebbene essa sia stata oggi superata dalla “Biologia evolutiva dello sviluppo” (che insiste piuttosto sulla proprietà di conversione genetica), l’osservazione dello sviluppo nervoso che interessa l’individuo nei primi mesi di vita può rappresentare una risorsa fondamentale al fine di raggiungere una maggiore comprensione della duttilità che caratterizza il potenziamento morfologico e funzionale del cervello umano. Il neonato, infatti, al momento della nascita presenta uno sviluppo cerebrale estremamente ridotto (26%) rispetto agli esemplari antropomorfi (nello scimpanzè, ad esempio, esso è del 60%), una condizione necessaria per assicurare il parto pelvico della specie umana. Nei primi mesi di vita il neonato impara a controllare i movimenti solamente per mezzo dell’osservazione dei propri arti: a cinque mesi l’integrazione cinestetico-visiva è completa e il bambino possiede una percezione tridimensionale del mondo che comprende se stesso e gli oggetti che lo circondano; se nell’arco di questo periodo si verifica una privazione della libertà di movimento, la percezione del mondo che ne seguirà sarà molto differente proprio a causa della

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differente esperienza cinestetica associata alla visione94. Un caso clinico che dimostra la correlazione

fra visione ed esperienza motoria nella costruzione di un’impressione coerente del mondo è quello presentato da Von Senden (Space and Sight, 1960) circa la prima visione in età adulta da parte di soggetti a cui erano state rimosse gravi cataratte congenite: essi «riferirono che le loro esperienze iniziali erano prive di senso e completamente senza rapporto rispetto al mondo spaziale costruito in base al tatto e al movimento. Furono necessarie numerose settimane, e persino mesi, di sforzi continui per costruire, in base alle esperienze visive, un mondo percettivo coerente con quello cinestetico e in cui potessero quindi muoversi con sicurezza»95.