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PARTE II: LA SCIENZA DELLA MENTE

2.1.3. Il modello evolutivo di J.C Eccles

Ma, prima di affrontare la narrazione dell’ominizzazione e dell’evoluzione di quell’unicum cerebrale che costituisce la condizione fisica di possibilità di M2, vale la pena soffermarsi su alcune considerazioni circa la posizione teorica che Eccles adotta nei confronti dell’ipotesi evoluzionista di derivazione neo-darwinista. Infatti, Eccles abbraccia esplicitamente (1989) una teoria che sorge negli anni ’70 dagli studi dei paleontologi Niles Eldredge e Stephen Jay Gould, chiamata “Teoria degli Equilibri Punteggiati”; nella ricerca ecclesiana, questa proposta (che intende ricostruire una narrazione dell’evoluzione umana senza interrogarsi sulle sue modalità di sviluppo) si intreccia con la “Teoria Sintetica”, che punta invece a fornire una spiegazione delle dinamiche che regolano il processo evolutivo: quest’ultimo rappresenta un tentativo di rivisitazione critica del precedente neo- darwinismo riduzionista (quello di E. Haeckel), sviluppatosi negli anni ‘50 all’interno dell’ambiente della Columbia University, per opera di genetisti quali Thomas H. Morgan e Theodosius Dobzhansky. La “Teoria sintetica” fu la naturale continuazione dei progressi conseguiti in quegli anni nel campo della genetica, che era riuscita finalmente a fornire un modello matematico ed empirico che potesse rendere conto di quel fattore evolutivo introdotto da Darwin nei termini di una variazione spontanea e tendenzialmente neutra. Infatti, sebbene nella teoria darwiniana il fattore adattivo di tipo lamarckiano (l’uso e disuso degli organi da parte dell’organismo) costituisse il principale elemento di trasformazione fenotipica e psichica, su questo processo influivano, poi, micro-variazioni indipendenti manifestate dall’organismo – la cui natura e la cui dinamica rimanevano sconosciute –, capaci di produrre effetti sul processo filogenetico; su tutta questa serie di mutamenti, infine, avrebbe influito anche la pressione ambientale (la selezione naturale, ovvero l’insieme di circostanze abitative e la competizione interspecifica). La riformulazione neo-darwinista, privando il paradigma evolutivo dell’elemento lamarckiano, assunse la selezione naturale al rango di fattore regolativo

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delle variazioni spontanee, selezionando le differenze specifiche. Queste posizioni vennero, poi, approfondite in ambito botanico dell’olandese Hugo De Vries, il quale intuì come le suddette variazioni si inserissero nella linea ereditaria della specie in modo discontinuo perché esse erano legate alla presenza o all’assenza di un fattore materiale, strutturale, contenuto nel corredo cromosomico. Fu solo nella prima metà del Novecento che vennero alla ribalta gli studi condotti mezzo secolo prima da Gregor Mendel (1865), che analizzò i meccanismi di trasmissione dei caratteri in campo botanico, riuscendo a ricavare il modello di trasmissione dell’informazione genetica e a stilare le tre leggi dell’ereditarietà dei caratteri somatici. Questo fu confermato anche dagli studi di T.H. Morgan sulla cellula animale, nella quale egli riuscì a rintracciare proprio i geni mendeliani, confermando anche in questo ambito le leggi di ereditarietà. La “Teoria Sintetica”, quindi, unendo il linguaggio della biologia con quello della genetica, fu capace di conciliare le variazioni osservate da Darwin a livello macroscopico con la scoperta delle “mutazioni” nell’ambito del microscopico, chiarendo così la natura del fattore mutageno.

«I meccanismi del processo riproduttivo assicurano un’accurata trascrizione del codice genetico con una stabilità di geni che si trasmette di generazione in generazione. Nonostante ciò si verificano delle modificazioni del codice genetico che vengono definite mutazioni genetiche. Le mutazioni possono essere conseguenza di errori nella fase di duplicazione del DNA con sostituzione di un nucleotide oppure possono verificarsi modificazioni più radicali con delezione o inversione di una o più coppie di basi nucleotidiche o addirittura di segmenti più lunghi. […] Solo di rado una mutazione può essere vantaggiosa per la sopravvivenza e la riproduzione. Tale mutazione verrà poi trasmessa alle generazioni successive e ciò che ne risulterà sarà una sopravvivenza migliore del gruppo biologico che ha acquisito questa mutazione. Dopo molte generazioni la selezione naturale determina l’inserimento della mutazione vantaggiosa in tutti i membri di quella specie la quale, conseguentemente, presenterà una piccola modificazione del genotipo»77.

La scoperta di tali connessioni fra chimica, biologia e teoria dell’evoluzione ha portato nell’immediato ad avallare un’interpretazione probabilistica e meccanicistica della dinamica che soggiace all’ereditarietà dei caratteri, mutazioni comprese; contro questa tendenza, resiste un tipo di riflessione orientata a salvaguardare, nel discorso evolutivo, il carattere di imprevedibilità nell’apparizione delle forme (in senso inter e intra-specifico), una certa concezione artistica dell’operare della natura, che tende a una sempre maggiore diversificazione, al riconoscimento di un τέλος implicito nel disegno evolutivo: fra questi: H. Bergson, P. Le Compte du Noüy, T. Dobzhansky. Quest’ultimo, in particolare, concentrandosi nell’impresa di sintetizzare rilevazioni paleontologiche e genetica delle popolazioni, non trascurò il fattore anti-casualistico dell’evoluzione, riprendendo il

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paradigma di “creazione” formulato da Bergson e sottolineando il carattere non rigidamente deterministico delle mutazioni genetiche: esse, infatti, possono essere esogene o endogene, devono coinvolgere elementi posti ad un certo livello gerarchico dell’informazione genetica, riguardano perlopiù tratti “silenti” (non direttamente implicati, cioè, nella sintesi proteica), vengono sottoposte alla pressione della selezione naturale che ne sancisce o meno l’efficacia in termini di sopravvivenza, e, infine, possono dar luogo a risposte adattative divergenti rispetto alla pressione ambientale. Le considerazioni di Eccles, quindi, si inseriscono in un percorso teorico ben tracciato, che si propone sì di fornire una sintesi coerente fra genetica e biologia dell’evoluzione, ma che si dimostra altrettanto orientato a salvaguardare quel fattore di imprevedibile ricchezza la cui più alta espressione è rappresentata dal pensiero umano78 : questo elemento evoluzionistico consiste, di fatto, nel

coefficiente di libertà che appartiene alla condizione dell’organismo vivente, in dialogo con l’ambiente fra pressione e adattamento.

La “Teoria degli Equilibri Punteggiati” viene presentata da Eccles come la «sintesi moderna» fra il primo neo-darwinismo e il mutazionismo; essa indaga le dinamiche macroevolutive delle classi animali, anziché concentrarsi sull’ereditarietà intraspecifica; e descrive come, nel panorama paleontologico, molte specie siano sorte insieme in tempi geologici brevissimi (si pensi all’era del Cambriano, ad esempio) per “speciazione allopatrica”, ovvero in seguito ad una differenziazione dei caratteri a partire da una specie precedente, la quale continua poi ad esistere parallelamente alla nuova. Questa teoria si contrappone esplicitamente a quel paradigma del “gradualismo filetico” che pretendeva di leggere la storia dell’evoluzione interspecifica come una trasformazione lenta e uniforme – per “continuità simpatrica” –, nonostante le testimonianze fossili indicassero, invece, «una storia evolutiva fatta di interruzioni nette o di veri e propri salti»79. Secondo

Eldridge, Gould ed Eccles, l‘insorgere di una nuova specie è favorito da situazioni di isolamento geografico della popolazione, quindi in mancanza di competizione interspecifica; in queste condizioni, le mutazioni “saltazionali” avvengono prima di una qualsiasi pressione selettiva da parte dell’ambiente, la quale agisce, di fatto, su nuove specie già costituite: in questo modo, l’ontogenesi

78«L’uomo può trascendere se stesso, e vedere se stesso come un oggetto fra altri oggetti. Egli ha raggiunto la condizione

di una persona in senso esistenziale, e ha vissuto la profonda esperienza della libertà […] Questa conoscenza è un pesante fardello, da cui tutti gli organismi, eccettuato l’uomo, sono liberi. La libertà induce l’uomo a porsi […] domande supreme, che nessun altro animale si pone. […] E tuttavia dobbiamo cercare una qualche risposta, perché la massima gloria dell’“umanità” dell’uomo è proprio questo suo ricercare un senso per se stesso e per il cosmo» (Cfr. T. DOBZHANSKY, Le

domande supreme della biologia, 1967, citato in J.C. ECCLES, Il mistero uomo, 1983, pp. 14-15).

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precede la selezione. Si tratta di un punto teorico fondamentale, poiché, oltre a confermare l’azione puntuale di una mutazione genetica significativa, ci permette di «ricollocare al suo posto il concetto di organismo nella biologia evoluzionistica»80, ovvero di riconoscere come fattore decisivo quella

trasformazione adattiva che dipende sì da una ricombinazione genetica, ma anche dalla capacità di adattamento dell’individuo e della specie che ne sono portatori, attraverso preferenze ecologico- comportamentali e uso-disuso degli organi acquisiti o modificati.