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1 - La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali

“Noi vogliamo un’Europa unita, restituita in tutta la sua estensione alla libera circolazione degli uomini, delle idee e dei beni; Noi vogliamo una Carta dei diritti dell’uomo che garantisca la libertà di pensiero, di riunione e di espressione, come pure il libero esercizio di una opposizione politica; Noi vogliamo una Corte di giustizia che possa applicare le sanzioni necessarie perché la Carta sia rispettata”.

Il proclama del Congresso del Movimento europeo, svoltosi all’Aja nel maggio del 1948, ben sintetizza il contenuto ideale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, adottata dal Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa il 4 novembre 1950, ed entrata in vigore il 3 settembre 1953. Essa è il primo trattato internazionale a dare attuazione alla Dichiarazione universale dei diritti umani attraverso norme giuridicamente vincolanti, introducendo inoltre un meccanismo di controllo giurisdizionale affidato alla Corte

Europea dei diritti umani (vedi cap.3 “Le istituzioni dalla città all’ONU”). La Convenzione è stata arricchita

negli anni da una serie di Protocolli Addizionali che aggiungono nuovi diritti a quelli già riconosciuti dalla Convenzione medesima. Questo dinamismo della Convenzione europea ha sicuramente contribuito alla diffusione della cultura dei diritti umani anche in ambito comunitario. Infatti alla Corte Europea possono ricorrere non solo gli Stati ma anche singoli individui, gruppi di individui o organizzazioni non governative per presunte violazioni dei diritti garantiti dalla Convenzione da parte degli Stati firmatari, attualmente 47, e ciò ha comportato a partire dagli

una revisione del meccanismo di controllo previsto nel 1959, anno di nascita della Corte stessa;la revisione è stata attuata con due Protocolli alla Convenzione, il primo entrato in vigore nel 1998 e il secondo aperto alla firma nel 2004 ed entrato in vigore all’inizio del 2010 (una parte delle sue disposizioni erano state tttvia “stralciate” ed inserite nel Protocollo 14-bis, entrato in vigore nel 2009..

A livello europeo, in particolare nell’Unione Europea, troviamo un altro strumento di portata fondamentale per la promozione dei diritti umani, la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, alla quale è dedicata una specifica scheda più avanti.

2 – La Convenzione americana dei diritti umani

All’adozione della prima Convenzione regionale sui diritti umani, segue in seno all’Organizzazione degli Stati Americani l’adozione nel 1969 della Convenzione americana dei diritti umani, conosciuta anche come “Patto di S. Josè de Costarica” dal nome della città ove si era riunita l’apposita conferenza. Questa convenzione, che tende a gerarchizzare le generazioni

dei diritti (v. la scheda 1.A nel cap. “Concetti chiave”), secondo una linea politica affermatasi dopo

l’approvazione in sede ONU dei due Patti sui diritti umani, si ispira anche alla Convenzione europea, per evidenti motivi cronologici e di affinità fra le due aree del pianeta. La Convenzione americana è entrata in vigore il 18 luglio del 1978, a seguito della undicesima ratifica e ad oggi è stata ratificata da 25 dei 34 Stati membri dell’OAS - in particolare, non ne fanno parte né gli gli Stati Uniti d’America né il Canada.. Non tutti questi paesi peraltro riconoscono la competenza della Corte americana sui diritti umani a trattare casi interstatali o individuali. Poiché la Convenzione americana contiene all’art. 26 solo un debole riferimento ai diritti economici, sociali e culturali, la Commissione interamericana dei diritti umani ha redatto nel 1988 un protocollo aggiuntivo in materia: entrato in vigore nel 1991, esso è stato finora ratificato da 14 Stati appartenenti all’America Latina. Esiste inoltre un protocollo aggiuntivo sull’abolizione della pena di morte, che tuttavia è attualmente in vigore solo fra 11 degli Stati membri dell’OAS. Anche in questo sistema regionale opera una Corte con funzioni di protezione dei diritti umani.

3 - La Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli

L’adozione da parte della Conferenza dei Capi di Stato e di Governo dell'Organizzazione dell'Unità Africana, riunitasi a Nairobi il 28 giugno 1981, della Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, segna sicuramente un punto di svolta nel processo di disseminazione regionale dei diritti umani. Essa è entrata in vigore il 21 ottobre 1986, e gli Stati Parte al gennaio 2009 sono 53, cioè tutti gli Stati membri dell'Unione Africana. La Carta africana, che consta di 68 articoli, è stato il primo documento internazionale a proclamare congiuntamente oltre ai diritti civili e politici e a quelli economici, sociali e culturali, i cosiddetti diritti di solidarietà. Questa tipologia di diritti, di cui si è già parlato sopra come diritti di terza generazione, è caratterizzata dal fatto che soggetti attivi non

sono più solo singole persone, ma anche i popoli (v. sezione concetti-chiave).

Il riconoscimento dei diritti di solidarietà, può essere considerato un carattere tipico della società

africana, nella quale l’uomo è tale quando partecipa al gruppo(Cfr. C. Zanghì, op. cit., p. . l’autore rimarca

la differenza di tale approccio rispetto all’individualismo occidentale. Una più ampia disamina della questione si trova in K. Vasak, P. Alston, The International Dimension of Human Rights, UNESCO, 1982;) .

È inoltre significativo che la Carta Africana preveda esplicitamente alcuni doveri in capo all’individuo con speciale riferimento alla famiglia, la società, lo stato, la comunità internazionale (artt. 27-29). Nel 1998 è stato altresì adottato un Protocollo relativo alla creazione di una Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. Tale strumento di protezione dei diritti umani è entrato in

vigore il 25 gennaio 2004, ma gli Stati dell’Unione hanno adottato un Protocollo il 1° luglio 2008

contenente lo Statuto della Corte africana di giustizia e dei diritti umani che sostituisce i vecchi protocolli del 1998 e del 2003. Il nuovo Protocollo entrato in vigore nel 2009.

Le tre Convenzioni regionali sommariamente descritte, riguardano aree geografiche ben delimitate e, almeno per quanto riguarda Europa ed Americhe, tendenzialmente omogenee dal

punto di vista culturale: da questo punto di vista “negli ambiti regionali si sono spesso affrontati temi

che solo a distanza di anni si sarebbero potuti trattare, con strumenti di portata giuridica vincolante, in sede globale, ma soprattutto si sono potute sperimentare modalità di monitoraggio e controllo giudiziario sulla

condotta degli Stati che la dimensione globale rende molto più difficile attuare (De Stefani, 2009)”.

In linea generale va tuttavia osservato che, pur nel comune riconoscimento dei diritti fondamentali, le Convenzioni regionali sui diritti umani finiscono inevitabilmente per differenziare i diritti umani riconosciuti costantemente alle persone (il cosiddetto noyeau dur dei diritti umani) da quelli ancora da riconoscere a seconda della collocazione geografica dei loro destinatari; da

questo punto di vista “il grado di autoreferenzialità dei vari documenti regionali è la spia di quanto questi

siano orientati”: se l’autoreferenzialità è bassa, la convenzione regionale assume il significato di una specificazione e attualizzazione dei diritti universali; se viceversa l’autoreferenzialità è alta, essa diventa

“uno strumento per consolidare politiche statuali di “contenimento” della forza espansiva dei diritti”.(ibidem)

4 – I diritti umani in Asia

Le fonti del diritto regionale del continente asiatico sono ancora frammentate specialmente per l’area indo-cinese e del Sud-Est, e ciò “impedisce che si possa parlare di una compiuta regionalizzazione del diritto internazionale dei diritti umani.(De Stefani, 2009)”.

Per quanto riguarda il mondo arabo islamico tuttavia, assistiamo ad un grande passo avanti, rappresentato dalla nuova Carta Araba dei diritti umani, adottata dal Consiglio della Lega degli Stati Arabi nel 2004 ed entrata in vigore il 15 marzo 2008, con 7 Stati Parti al 1° gennaio 2009; la Carta Araba è uno strumento regionale di protezione dei diritti umani piuttosto peculiare: in primo luogo vi aderiscono Stati ed un ente non propriamente statale come l’Autorità palestinese; in secondo luogo alcuni degli Stati ad essa aderenti, hanno ratificato anche la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli; inoltre tutti quanti gli Stati che hanno adottato la Carta Araba fanno parte anche dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, nel cui ambito fu adottata la Dichiarazione del Cairo del 1993. Benché tale situazione richieda delicati passaggi interpretativi di alcuni articoli della Carta Araba, la sua adozione rappresenta un innegabile passo avanti nella regionalizzazione del diritto internazionale dei diritti umani. Si cercherà di affrontare tale complessa questione negli “approfondimenti”.

In Asia, diversi Governi non democratici giustificano il loro disimpegno nei confronti della protezione dei diritti umani, affermando l’esistenza di “valore asiatici” in contrapposizione ai principi occidentali, ispiratori dell’attuale ordinamento internazionale sui diritti umani. Nel merito, una Dichiarazione dei Governi dell’Area Asia-Pacfico sui diritti umani fu adottata a Bangkok nell’ormai lontano aprile del 1993 in preparazione della Conferenza di Vienna: essa contiene gran parte di queste “particolarità” asiatiche, caratterizzate dall’accettazione dell’universalità solo per un ristretto gruppo di diritti accompagnata dalla richiesta di rispetto delle diversità; ciò implicava fra l’altro un’interpretazione particolarmente “flessibile” degli standard internazionali, subordinati a quelli nazionali. Vicende come quella del Dalai Lama, ci mostrano come il continente asiatico sia il luogo dove più di altri una concezione “unilaterale” dei diritti umani rappresenti una dura sfida non solo per il loro rispetto universale, ma anche per la loro effettiva attuazione sul piano interno .

Sempre in ambito asiatico vanno ricordate le cosiddette iniziative sub-regionali, che oltre a riguardare aree molto estese e densamente popolate, sono forse le più interessanti sul piano del riconoscimento dei diritti umani, in base alla considerazione che il risultato in termini di protezione dei diritti è inversamente proporzionale al numero di Stati parte della convenzione (Zanghì,2006). Possiamo citare la Convenzione contro il traffico delle donne e dei bambini e la Convenzione per la protezione e l’assistenza dei bambini dell‘Asia del sud, preparate nel 2002 dall’Associazione Sud Asiatica per la Cooperazione Regionale (SAARC, che riunisce i paesi del subcontinente indiano), ed infine una iniziativa nell’ambito dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN, un raggruppamento di paesi emergenti): la Dichiarazione dei doveri fondamentali dei popoli e dei governi che un gruppo di ONG riunite nel Consiglio asiatico dei diritti umani aveva adottato già nel 1983

I paesi arabo islamici e i diritti umani Evoluzione sul piano normativo

Nonostante l’Arabia Saudita si fosse astenuta dall’adottare la Dichiarazione Universale dei diritti umani, e i paesi arabi abbiano a lungo sostenuto che essa riflette in larga misura i valori della cultura liberale occidentale estranei a quella islamica, la Carta Araba del 2004, come abbiamo visto, rappresenta un grande passo in avanti da parte del mondo arabo nel rispetto dei diritti umani. In origine il problema filosofico e religioso che ha caratterizzato le iniziative arabo-islamiche sul tema, era infatti la difficoltà di conciliare l’interpretazione letterale della legge coranica con la nozione stessa di diritti della persona, anche rispetto a taluni principi fondamentali dei diritti umani universali ormai consolidati.

Nel dicembre del 1948, quando, con 48 voti a favore e 8 astensioni, l’Assemblea Generale delle NU adottò la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, l’Organizzazione delle Nazioni Unite era formata da 56 Stati indipendenti fra i quali, come è noto, non erano annoverate le entità politiche ancora sotto il dominio coloniale estese in buona parte dell’Asia e nella quasi totalità dell’Africa. Anche per questo motivo alla formulazione della DUDU mancò quasi del tutto il contributo della cultura islamica: solo 7 fra gli Stati oggi aderenti alla Lega Araba erano presenti ai lavori e, come abbiamo appena visto, il paese guida di una buona parte del mondo arabo si astenne dall’adozione; successivamente un altro paese guida del mondo arabo, l’Egitto, adottò la il Patto sui diritti vili e politici, con le riserve già accennate riguardo al conflitto con la legge coranica. D’altra parte le nuove Costituzioni dei paesi arabi che via via ottenevano l’indipendenza, pur rifacendosi magari indirettamente ai principi della Dichiarazione, da un lato affermavano un attaccamento generico alle libertà fondamentali, dall’altro richiamavano i principi della Shari’ah islamica, senza curarsi delle eventuali incompatibilità fra gli uni e le altre.

Se all’elaborazione della Dichiarazione Universale mancò il contributo sostanziale della cultura islamica, non altrettanto si può dire riguardo ai due Patti che furono approvati all’unanimità dall’Assemblea Generale nel dicembre del 1966, dopo 18 lunghi anni di lavoro nel corso dei quali fu portata a compimento la conquista dell’indipendenza da parte di tutti i paesi arabo islamici.

Sul piano delle iniziative all’interno del mondo islamico, in seguito alla prima Conferenza dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite svoltasi nel 1968 a Teheran, la tematica dei diritti umani si ripropose nei paesi arabi ed in quelli islamici. Per quanto riguarda i primi, la presenza di paesi dichiaratamente laici all’interno della Lega Araba mitigò l’incompatibilità fra i principi della Shari’ah islamica e quelli della Dichiarazione universale, portando nel 1994 ad una prima versione della Carta Araba che accoglieva l’accezione universale dei diritti umani, che però non entrò mai in vigore. La nuova versione della Carta del 2004 conferma questo indirizzo e, nonostante alcune incertezze interpretative, rappresenta un mirabile sforzo per allineare gli ordinamenti giuridici interni ai testi internazionali in materia: torneremo sulla questione fra breve.

Per quanto riguarda i paesi islamici e l’organismo che li raggruppa, la Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), essendo l’Islam l’elemento di coesione fra realtà eterogenee e geograficamente distribuite in un territorio che va dall’Africa nera all’Estremo Oriente, l’incompatibilità fra legge coranica e diritti umani è apparso un problema rilevante. Senza ripercorrere le tappe del dibattito interno alla OCI, e prendendo come riferimento la Dichiarazione del Cairo del 1990 è possibile individuare tre diversi gruppi di diritti: 1) diritti compatibili con lo standard minimo dei diritti umani universali, indipendentemente dalla loro fonte, come la protezione della vita, il diritto alla personalità giuridica e all’onore, il diritto dei popoli di disporre di loro stessi 2) diritti in contraddizione con il diritto internazionale, quali la legge del taglione, le sanzioni penali corporali, l’assegnazione alla donna di diritti e doveri limitati 3) diritti condizionati dalla Shari’ah da esercitarsi in modo da non essere in contrasto con essa, come la libertà di espressione e di

circolazione. “In sintesi la Shari’ahstruttura la Dichiarazione, fonda i diritti, è la condizione per il loro esercizio, è il limite da non oltrepassare, è il punto di riferimento in materia di interpretazione”(Zanghì, p.477).

Evoluzione sociale e religiosa

Secondo una ipotesi di lettura in chiave sociologica, la Dichiarazione del Cairo ha rappresentato “la ricerca di una intesa etica di fondo sulla necessità del riconoscimento di un diritto panumano, positivo e non astratto, che non resti lettera morta nei documenti, ma diventi dispositivo concreto che ne favorisca l’applicazione”. Non va dimenticato infatti che molti paesi islamici stanno “faticosamente cercando una propria identità nazionale, spesso compressa e ingessata in regimi autoritari e dispotici” (Pace,1994). Se analizziamo l’evoluzione sociale di questi paesi dal punto di vista degli ordinamenti giuridici interni, assistiamo ad un processo di acculturazione giuridica della Shari’ah: esso nasce dall’interazione fra il diritto autoritativo, prima del potere coloniale e poi di quello statuale, che si pone in concorrenza con il diritto musulmano classico. Le fonti giuridiche del diritto musulmano sono il Corano e la Sunna (tradizione che raccoglie l’insieme dei comportamenti e dei detti del Profeta), sulle quali si basa il diritto di produzione dottrinale (il fiqh): in estrema sintesi quest’ultima fonte rimane sacra ed inviolabile come le due fonti principali – ed è la posizione della corrente wahabita, oppure non è per nulla di origine divina - ed è la posizione della corrente “moderata”; la seconda posizione apre evidentemente la strada per una riforma, più o meno radicale, della stessa Shari’ah. Esempi in tal senso sono stati l’abolizione della schiavitù, pur prevista dal Corano, da parte di tutti gli Stati musulmani (ultima la Mauritania nel 1984) e la rivisitazione dell’istituto della poligamia che è stato fortemente limitato se non del tutto abrogato (Zanghì, pp. 478-480).

Se l’evoluzione dei sistemi giuridici dei paesi islamici è, pur in modo semplificato, quella appena delineata, appare chiaro che i diritti umani – purché non vengano impiegati come strumento di dominazione culturale da parte dell’occidente - possono ancora rivelarsi lo strumento giusto approfondire il dialogo interreligioso ed interculturale nel segno del rispetto reciproco fra i

popoli (v. scheda 4.2 nel cap. “Le politiche”). Ad esempio, poiché resta aperta la questione se la

posizione secondo la quale i diritti rappresentano delle protezioni attribuite all’uomo da una volontà divina assolutamente libera sia conciliabile con la teoria innatista dei diritti dell’uomo, sarebbe necessario riflettere con attenzione sui sistemi di protezione dei diritti umani nel mondo islamico senza presupporre né un'immediata compatibilità né una permanente contraddizione fra diritti umani e religione.

Piuttosto che continuare a rappresentare in modo antagonista diritti umani e religione islamica, pratica alquanto diffusa a livello mediatico e talora utilizzata per giustificare gli “interventi umanitari”, forse sarebbe più utile vedere fra questi due termini una relazione di sinergia e di influenza reciproca. In effetti, ogni volta che fra Occidente ed Islam è prevalso lo spirito di dialogo, la posizione di apertura verso e dal mondo islamico ha permesso grandi passi avanti proprio sul tema dei diritti umani.

Questa chiave di lettura ci permette di comprendere meglio il significato della Carta araba dei diritti umani, entrata in vigore dopo un travaglio durato 15 anni: poiché il processo di legittimazione religiosa richiede – nello specifico contesto socioeconomico di una determinata società - un approccio non pregiudiziale alle questioni teologiche, possiamo dire che la Carta araba dimostra la possibilità di accogliere i diritti umani senza rinnegare le proprie radici culturali, e ciò nonostante il ritardo dovuto al passato coloniale. Condizione necessaria per questo processo di acculturazione è che – nel nostro mondo globalizzato – il dialogo prevalga sullo scontro. (“Gli Stati Uniti non sono in guerra con l'Islam. Ci deve essere un nuovo inizio nei nostri rapporti, basato sull'interesse reciproco”. Così il presidente statunitense Barak Obama – insignito ora del Premio Nobel per la Pace - ha iniziato il suo storico discorso all’Università del Cairo il 4 giugno 2009, suscitando favore generale nel mondo arabo).

Zanghì, C.(2006), La protezione internazionale dei diritti dell’uomo (Torino, G. Giappichelli)

Mascia M. (a cura di), Dialogo interculturale, diritti umani e cittadinanza plurale, Marsilio,

Venezia, 2007

Mascia M., La società civile nell’Unione Europea. Nuovo orizzonte democratico, Marsilio,

Venezia, 2004

Pace E., Perchè le religioni scendono in guerra?, Laterza, Roma-Bari, 2004

Pace E., Raccontare Dio. La religione come comunicazione, Bologna, Il Mulino,2008.

Agenzia Habeshia per la Cooperazione allo Sviluppo, a proposito di partenariato Euromediterraneo e rifugiati.

http://habeshia.blogspot.com/2009/05/immigrazione-barrot-ai-27-traferire.html

Il partenariato Euromediterraneo (v. anche la scheda 3.C nel cap. seguente) ha preso avvio con la

Dichiarazione di Barcellona del 1995, che ha stabilito nuove linee guida di collaborazione basandosi su tre pilastri: il dialogo politico, la cooperazione economica, la dimensione umana del partenariato. Il processo di Barcellona ha portato alla Dichiarazione finale del Forum civile Euromed di Marsiglia del 2000 della quale ci interessa porre in rilievo la definizione di sicurezza “Oggi il concetto di sicurezza implica molto più fattori che la difesa militare e include necessariamente lo sviluppo economico e sociale, la partecipazione dei cittadini, la democratizzazione della vita pubblica, il rispetto dei diritti umani e delle differenti culture. Senza la presa in considerazione globale di tutti questi fattori, è impossibile creare un reale spazio di cooperazione mediterranea ( Mascia M., 2004, p.192)” Se consideriamo questo concetto “denso” di sicurezza, non possiamo che rammaricarci del fatto che le motivazioni politiche che hanno spinto l’Unione europea ad abbandonare questa linea di impegno sul versante mediterraneo a favore del consolidamento del mercato unico e dell’allargamento ad Est, giocano a sfavore della creazione sul fronte sud dell’Unione Europea di una legislazione sull’immigrazione che rispetti realmente i diritti umani; la mancanza di una strategia comune dell’UE sull’immigrazione, a lungo bloccata anche dal fatto che tale materia richiedeva l’unanime consenso intergovernativo, rischia di spingere gli stati europei, compreso il nostro, sul vicolo cieco di una legislazione inutilmente severa e di chiusura.

La Convenzione Americana sui diritti umani dichiara all’art. 21, comma. 2 che “nessuno sarà