Rifacendomi al concetto di “rimotivazione” di Orlando, nel paragrafo precedente ho sostenuto che esista un rapporto per cui l’analogia testo-edificio ridetermina quella testo-corpo in modo che la metafora organica diventi uno strumento utile per apprezzare in sede estetica il rispetto delle regole di poetica. In questo paragrafo seguirò ancora l’idea di rimotivazione applicandola a un’altra serie analogica – quella che lega il corpo, l’edificio e la città – per mostrare come essa contribuisca a una reinterpretazione della categoria di spazio che influisce sulla concezione della tragedia, un genere che, come si avrà modo di vedere dettagliatamente più avanti, è strettamente connesso all’idea di città già sulla base di un’indicazione vitruviana. Credo infatti che in questa
‘rimotivazione’ stiano alcune delle ragioni che causarono l’estensione del concetto di unità all’unità di luogo, introducendo nell’esegesi della Poetica di Aristotele e nella costruzione dei testi letterari un elemento innovativo.
In un saggio di poco più di trent’anni fa, Bernd Jager ha scritto che, in architettura, “the house, body and city form a privileged unity of mutual implication” (JAGER 1985: 217). La genealogia che ha dato luogo a questa terna di concetti collegati tra loro sembra chiara. Si potrebbe discutere sulla generalizzazione secondo cui “it has always been impossible to speak of building without either explicit or silent reference to the human or animal body” (ibid.: 219), ma è indubbio che la “mutual implication” tra i tre termini abbia avuto origine a partire da una iniziale analogia tra l’edificio e il corpo umano e che poi, facendo leva su un’analogia tra casa e città, sia arrivata come per proprietà transitiva al rapporto tra corpo umano e città.
L’analogia tra corpo umano ed edificio è formulata nel De architectura di Vitruvio nel contesto di un discorso sui templi, un passo celeberrimo32 che già nel Medioevo si salda con un’interpretazione teologico-allegorica della pianta della chiesa cristiana. L’opera che di solito si cita per dare un esempio di questa lettura è il Rationale divinorum officiorum scritto da Guglielmo
32De architectura III, 1. Il brano, troppo ampio per essere riportato nella sua interezza, si legge in latino e in traduzione italiana in VITRUVIO 1997: 236-241. Riporto soltanto il passo che fissa il principio proporzionale e la parte dell’analogia – in realtà molto più estesa e dettagliata – che più direttamente ha ispirato la figura dell’homo ad circulum et ad quadratum: “Proportio est ratae partis membrorum in omni opere totiusque commodulatio, ex qua ratio efficitur symmetriarum. Namque non potest aedis ulla sine symmetria atque proportione rationem habere compositionis, nisi uti ad hominis bene figurati membrorum habuerit exactam rationem […]. Item corporis centrum medium naturaliter est umbilicus. inamque si homo conlocatus fuerit supinus manibus et pedibus pansis circinique conlocatum centrum in umbilico eius, circumagendo rotundationem utrarumque manuum et pedum digiti linea tangentur. Non minus quemadmodum schema rotundationis in corpore efficitur, item quadrata designatio in eo invenietur” (“La proporzione è la commensurabilità sulla base di un’unità determinata delle membrature in ogni impianto e in tutta quanta tale opera, con cui viene tradotto in atto il criterio delle relazioni modulari. E infatti non può alcun tempio avere un principio razionale della composizione senza ‘simmetria’ e proporzione, se non l’ha avuto aderente al principio razionale precisamente definito proprio delle membra di un uomo dalla bella forma […]. Parimenti il centro in mezzo al corpo per natura è l’ombelico. E infatti se un uomo fosse collocato supino con le mani e i piedi distesi e il centro del compasso fosse puntato nell’ombelico di questi, descrivendo una circonferenza le dita di entrambe le mani e dei piedi sarebbero toccate dalla linea. Analogamente come la forma della circonferenza viene istituita nel corpo, così si rinviene in esso il disegno di un quadrato”.
Durando poco dopo il 1280, ma già dietro il Rationale esiste una serie di altri testi che declina in senso architettonico la concezione paolina della chiesa come corpo di cui Cristo è il capo, una tradizione che comprende Pietro di Celle, Onorio di Autun, Riccardo di San Vittore (citato dallo stesso Durando), e che può risalire fino al tentativo di Agostino di spiegare l’arca come una prefigurazione della chiesa attraverso il parallelo con il corpo di Cristo: “Dispositio autem Ecclesiae materialis modum humani corporis tenet. Cancellus namque sive locus ubi altare est, caput repraesentat, et crux ex utraque parte brachia et manus; reliquia pars ab occidente quicquid corpori superesse videtur. Sacrificium altaris votum significat cordis”.33
La pianta a croce latina riflette la figura del Cristo crocifisso, uno schema al quale in età umanistica si preferì quello della pianta centrale, che al Cristo patiens sostituiva il Cristo Pantocrator: a un Cristo che aveva sofferto per l’umanità subentrava un Cristo che era emblema di perfezione e di armonia (WITTKOWER 1964: 31). L’affermazione della pianta centrale non è quindi da leggere come il segno di una secolarizzazione dell’architettura religiosa, anche se dopo il Concilio di Trento si propugnò esplicitamente il ritorno alla croce latina, la cui più corretta simbologia cristologica aveva continuato a essere comunque sostenuta da diversi trattatisti del Quattrocento e del Cinquecento, dal Filarete a Pietro Cataneo.34
Mettere in luce il modello di perfezione armonica che il corpo di Cristo offre una volta reinterpretato in senso matematico è tuttavia utile per sottolineare il fatto che il corpo, non solo il
33 Su questo passo cfr. SAUER 1924: 98-140; RYKWERT 1996: 39, 402; FRINGS 1998: 57-62. Tutti e tre questi studi riportano il brano citato a testo.
34 Così Filarete nel settimo libro del suo trattato: “Il perché le chiese si fanno in croce si è perché poi che venne Cristo s’è usato perché fu posto in croce” (FILARETE 1972:186);e così Cataneo nel primo capitolo del terzo libro del suo:
“giudichiamo che, essendo per noi Cristiani morto il figliuol di Dio sopra il legno della croce, doppo tal morte per commemoratione della nostra redentione, volendo servare il decoro della religione Cristiana, si conveniva, si conviene, e sempre con nostro debito si converrà anco a crociera fabricare il principal tempio della città”(CATANEO 1554: 35v).
Sul tema dell’analogia tra tempio e corpo umano cfr. LONGHI 2013con ulteriori rinvii bibliografici.
corpo di Cristo, diventa un paradigma di perfezione per ogni edificio, al di là del caso, principale ma pur sempre particolare, della chiesa:
Sed, quemadmodum in animante caput pes et qualecunque velis membrum ad caetera membra atque ad totum reliquum corpus referendum est, ita et in aedificio maximeque in templo conformandae universae partes corporis sunt, ut inter se omnes correspondeant, ut, quavis una illarum sumpta, eadem ipsa caeterae omnes partes dimetiantur. (De re aedificatoria VII, 5)35
“Soprattutto nel tempio”, dice Alberti, ma nell’edificio in generale occorre osservare la corrispondenza tra le parti che caratterizza il corpo umano. Si è già detto dell’importanza che ha la concezione organicista nel De re aedificatoria, dove il principio secondo cui “aedificium quod corpus quoddam esse animadvertimus” (“abbiamo rilevato che l’edificio è un corpo”) compare fin dal prologo (ALBERTI 1966:14-15). L’idea è già nel De architectura, ma uno degli elementi che distinguono l’uso dell’analogia da parte di Alberti rispetto a Vitruvio consiste nell’enfasi posta sulla dimensione ‘vivente’ dell’organismo. Al paradigma retorico della concinnitas si aggiunge infatti un
“paradigma fisiolog36ico” (DI STEFANO 2016: 150) – anch’esso già parzialmente sfruttato nel campo della retorica da Cicerone (De oratore III, 179) – per cui a ciascuna parte del corpo, e perciò a ciascuna parte dell’edificio, è assegnata una funzione specifica.
Si vedrà più avanti come questo punto riveli che l’obiettivo della venustas, il cui raggiungimento è garantito dalla concinnitas, non si separa dal requisito dell’utilitas. Ma prima di passare alle fasi successive della serie di analogie che ci sono in gioco – quella tra edificio e città, e di lì a quella tra città e corpo – è importante notare che la reinterpretazione albertiana del modello
35 “D’altra parte, a quel modo stesso in cui nell’organismo animale la testa, i piedi e ogni altro membro sono strettamente connessi alle membra tutte e all’intero corpo nel suo complesso, del pari in ogni edificio, e soprattutto nel tempio, occorre conformare tutte le parti del suo corpo in modo che corrispondano interamente le une alle altre, al punto da poter agevolmente ricavare le dimensioni di tutte quante dalla misurazione di una sola di esse” (ALBERTI
1966:558-559).
36 Sull’uso albertiano di concinnitas cfr. anche VAGNETTI 1973.
di armonia organica di Vitruvio porta verso una letteralizzazione della metafora che dà i suoi risultati più noti nei trattati quattrocenteschi di Filarete e di Francesco di Giorgio Martini.
Anche per Filarete, come è stato scritto per Alberti, si può dire che “the parallel between body and building is repeated too often to warrant separate reference” (RYKWERT 1996: 410).37 Ciò che conta ora però non è la semplice frequenza dell’analogia, ma ciò che già in precedenza si è indicata come la sua Entwicklungsfähigkeit. Se “per similitudine lo edificio si è dirivato da l’uomo, cioè dalla forma e membri e misura”, questo significa per Filarete che l’edificio è “proprio uno uomo vivo”: che nasce, che deve essere nutrito, protetto dalle fatiche eccessive, assistito quando ammalato, e che presto o tardi, “per rispetto del tempo”, muore (FILARETE 1972: 29). Questa accezione biologica dell’analogia tra corpo ed edificio serve non tanto ad arricchire il modello di armonia tra parti e tutto che Filarete propone, quanto piuttosto a definire i ruoli delle figure coinvolte nel processo di costruzione e conservazione, dall’architetto visto come “madre e balia”
dell’edificio – e come tale incaricato di trovare anche “buoni maestri al figliuolo”, vale a dire
“quelli da muro e tutti gli altri che hanno a lavorare” – al committente, e quindi al “padrone”, ritratto come “marito” della donna-architetto e “padre” dell’opera (ibid.: 41). Rimane implicito nel testo di Filarete un passaggio per il quale bisognerà tornare al De re aedificatoria, e cioè quello per cui l’edificio ha un rapporto di omologia con la città. Vale tuttavia anche per la città la similitudine con il corpo umano, e dunque l’idea che la città esista nel tempo, che nasca – il brano che segue è
37 Trovo un esempio meno scontato dall’analogia casa-corpo nel De amore di Ficino, dal quale estraggo un passo che può essere utile anche per l’idea albertiana di “building-outside-time”, come l’ha definita Trachtenberg: “E però el corpo e la bellezza sono diversi. Se alcuno dimanda in che modo la forma del corpo possa essere simile alla forma e ragione dell'anima e dell'angelo, priego quel tale che consideri lo edificio dello architectore. Da principio l’architectore la ragione e quasi idea dello edificio nello animo suo concepe, dipoi fabrica la casa, secondo ch’e’ può, tale quale nel pensiero dispose. Chi negherà la casa essere corpo, e questa essere molto simile alla incorporale idea dello artefice, alla cui similitudine fu facta? Certamente per uno certo ordine incorporale, più tosto che per la materia, simile si debba giudicare” (FICINO 1934:71).Su Filarete, invece, un buon punto di partenza è costituito da GIORDANO 1998, uno studio contenuto in un volume collettivo che a sua volta costituisce un’ottima introduzione ai trattati di architettura del Rinascimento (HART-HICKS 1998).
tratto dal racconto della fondazione di Sforzinda – e che, compiuto il suo ciclo vitale, prima o poi fatalmente muoia:38
Questo vaso è a similitudine che una città debba essere quasi come uno corpo umano, e perciò debbe essere piena di quello che dà la vita a l'uomo; e ’l suo coverchio sono quelle tre fatale Idee nelle quali consiste essa nostra vita, cioè che l’una fila, l’altra ricoglie il filo, l’altra lo rompe, e in sul vaso non è altro se non queste due parole scritte, cioè “vita e morte”, ché altro non è questo mondo che perché in una città non consiste altro per infino vivere e morire, e che gli è concesso il suo termine. (Ibid.: 103-104)
È possibile che Filarete applicasse alla città il paradigma del corpo (in questo caso esclusivamente biologico) da lui già riferito all’edificio sulla base di una latente analogia che legava direttamente i due termini dell’edificio e della città. Come si è visto, a istituire un rapporto di omologia non mediato dal corpo tra edificio e città era stato Alberti, che nel De re aedificatoria aveva ripreso in prospettiva architettonica una relazione tra casa e città suggerita a livello politico da Aristotele nel primo libro della Politica: “quod si civitas philosophorum sententia maxima quaedam est domus et contra domus ipsa minima quaedam est civitas, quidni harum ipsarum membra minima quaedam esse domicilia dicentur?” (De re aedificatoria I, 9).39 Attraverso la mediazione di Alberti il principio sarebbe stato ripetuto ancora più di un secolo dopo da Palladio ma in un contesto diverso, a proposito del “sito da eleggersi per le fabbriche di villa” (I quattro libri dell’architettura II, 12), un problema per il quale, appunto, bisogna agire allo stesso modo in cui si opera per la scelta del
38 Da una lezione di Benedetto Varchi si ricava che l’assimilazione dell’architettura alla medicina veniva già da Galeno, il quale appunto “agguagliava” le due arti. Varchi riprende l’idea per negarla: preposta alla scultura e alla pittura, perché più “utile”, più “necessaria” e col “fine più nobile” di quelle, l’architettura è però inferiore alla medicina perché, pur se “conserva anch’ella la sanità […] non però né la conserva in quel modo, né la introduce, dove non è;
oltra che al medico è necessaria la cognizione di molto più cose; conciosia che tutte le parti del corpo hanno diverse virtù ed operazioni, le quali è necessario che sappia il medico, dove le parti d’un edifizio non hanno operazione alcuna, non essendo animate” (VARCHI 1859:633).Come si vede, è una contestazione della letteralizzazione della metafora: per Varchi l’edificio non è un corpo allo stesso modo in cui lo era per Filarete. Il brano citato viene dalla seconda delle due lezioni “Sopra la pittura e scultura” (ibid.: 611-648).
39 “E se è vero il detto dei filosofi, che la città è come una grande casa, e la casa a sua volta una piccola città, non si avrà torto sostenendo che le membra di una casa sono esse stesse piccole abitazioni” (ALBERTI 1966:64-65).Cfr. CHOAY
1980: 95-96 e CASSANI 2013. Ulteriori rinvii a passi albertiani su questo tema si trovano in WULFRAM 2001: 143.
luogo destinato alla città, considerato come “la Città non sia altro che una certa casa grande, e per lo contrario la casa una città piccola” (PALLADIO 1570:46).
Al di là dell’uso specifico in un determinato contesto, è questo duplice rapporto di analogia tra corpo ed edificio e di omologia tra edificio e città a legittimare l’estensione della similitudine organica dall’edificio alla città. È un’ipotesi teorica che trova conferma empirica nel testo che più di ogni altro sfrutta la metafora del corpo in campo architettonico – quasi al punto da farla sembrare un “verbal tick” (FIORE 1998: 75) –, il Trattato di architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini.
Nell’opera, inedita per secoli eppure circolante in forma manoscritta,40 l’analogia col corpo interessa ogni aspetto dell’architettura, ma il punto di partenza è pur sempre l’edificio: “essendo il corpo dell’uomo meglio organizzato che alcun altro”, scrive Francesco di Giorgio nel prologo del terzo libro del suo trattato, “è cosa conveniente che qualunque edifizio ad esso si può assimigliare”
(MARTINI 1841: 71). La similitudine investe non solo l’insieme dell’edificio, ma anche ciascuna sua parte (celebre, attraverso le illustrazioni dello stesso Francesco di Giorgio, il caso delle colonne) e ciò di cui l’edificio è parte, ovvero la città (figg. 6-8). I disegni che accompagnano il trattato sono
40 Un primo inquadramento della tradizione del testo, piuttosto intricata e giunta solo nel 1967 a una versione più affidabile ma comunque non ancora risolutiva, è offerto da FIORE 1998, al quale si rinvia anche per ulteriori approfondimenti bibliografici.
Fig. 6 Fig. 7 Fig. 8
probabilmente ancora più noti del testo (ONIANS 1988: 172-174) e giustamente si è scritto che
“per Francesco la documentazione grafica è essenziale” (MALTESE 1967: XIX), ma possiamo ora soffermarci sui passi che illustrano il rapporto tra la città e il corpo umano. È una relazione che Francesco di Giorgio articola in modo diverso a seconda che si tratti delle “parti estremali”, vale a dire della “circonferenza ovvero mura della città”, o delle “parti intrinseche come sono strade, piazze e altri luoghi pubblici” (MARTINI 1841:193). Nel primo caso ci si concentra esclusivamente sulla relazione tra corpo e capo:
Adunque la rocca dà essere principale membro di tutto del corpo della città, siccome el capo è principal membro di tutto el corpo. E come perso quello perso el corpo, così perso la fortezza persa la città a essa signoreggiata […]. Parmi di formare la città, rocca e castello a guisa del corpo umano, e che el capo colle appricate membra abbi conferente corrispondenzia, e che el capo la rocca sia, le braccia le sue aggiunte e ricinte mura, le quali circulando partitamente leghi il resto di tutto el corpo, amprissima città. (MARTINI 1967:3-4)
Nel secondo caso, invece, si considera l’intero spazio urbano. È qui che l’analogia tra città e corpo viene estesa a un più lungo elenco di particolari:
In prima è da sapere steso in terra el corpo, posto a filo l’imbellico, alle stremità d’esso tirata circolare forma sarà. Similmente quadrata ed angolata disegnazione sirà. Dunque è da considerare, come el corpo ha tutte le partizioni e membri con perfetta misura e circonferenzie, el medesimo in nelle città e altri difizi osservar si debba. E quando in esse città rocca da far non fusse, il luogo d’essa cattedral chiesa s’attribuischi, co’ la sua antiposta piazza dove el palazzo signorile abbi correspondenzia. E dall’opposita parte e ritondità dell’ombellico la prencipal piazza. Le palme e piei ed altritempi e piazze da costituir sono. E così come gli occhi, urecchi, naso e bocca, le vene intestina e l’altre interiora e membra che dentro e intorno al corpo organizzati a la necessità e bisogno d’esso, così nelle città osservar si debba, siccome partitamente alcune forme mostraremo. (MARTINI 1967:
20)
Se nel primo di questi due esempi Francesco di Giorgio imposta il problema della forma della città in senso statico, considerandone la pianta a partire dall’edificio principale, nel secondo egli adotta una concezione organica e situa gli edifici in funzione di una figura del corpo che li trascende.
Come già nella pagina vitruviana dedicata alle proporzioni del tempio, il punto di partenza è
l’ombelico, il cui valore non è però limitato alla funzione di centro della circonferenza all’interno della quale il corpo si trova inscritto. “Per lo umbelico”, infatti, “la natura umana piglia [ogni]
nutrimento e perfezione” (ibid.: 363), ed è questa la ragione per cui la piazza nella città deve prendere la posizione centrale che l’ombelico ha nel corpo: si tratta insomma di una disposizione ispirata alla “necessità” e al “bisogno” dell’organismo-città, al suo carattere vivente.
L’analogia città-corpo nei trattati di Francesco di Giorgio agisce sui due piani che si sono già visti nelle precedenti fasi dell’applicazione della metafora organica in architettura: il corpo è modello di perfezione armonica per l’organizzazione del rapporto tra il tutto e le parti, e insieme modello di funzionamento per la vita della città. Sono due paradigmi – retorico l’uno e fisiologico l’altro, come si è detto parlando di Alberti – che rimangono attivi nella successiva trattatistica sulla città: ancora Vincenzo Scamozzi, a inizio Seicento, scriverà che “il Palazzo del Prencipe, o Casa Reale […] dee esser vicino alla Piazza principale, così per maggior decoro, come anco per comodo universale”, perché “il Prencipe dee risieder nella Città, come a punto fa il core nel mezo del corpo dell’animale, al fine di poter vedere, e signoreggiar il tucto come l’anima per tutte le parti del corpo” (II, xxi, SCAMOZZI 1615:171). L’armonia sul piano estetico (“decoro”, venustas) si concilia con una funzione politica (“comodo”, utilitas);41 allo stesso modo, le parti della città sono disposte in modo da garantire il funzionamento, la vita, appunto, dell’organismo urbano: “le strade nella Città sono a simiglianza delle vene del corpo humano, perciò ve ne devono esser, e di Reggie, e di
L’analogia città-corpo nei trattati di Francesco di Giorgio agisce sui due piani che si sono già visti nelle precedenti fasi dell’applicazione della metafora organica in architettura: il corpo è modello di perfezione armonica per l’organizzazione del rapporto tra il tutto e le parti, e insieme modello di funzionamento per la vita della città. Sono due paradigmi – retorico l’uno e fisiologico l’altro, come si è detto parlando di Alberti – che rimangono attivi nella successiva trattatistica sulla città: ancora Vincenzo Scamozzi, a inizio Seicento, scriverà che “il Palazzo del Prencipe, o Casa Reale […] dee esser vicino alla Piazza principale, così per maggior decoro, come anco per comodo universale”, perché “il Prencipe dee risieder nella Città, come a punto fa il core nel mezo del corpo dell’animale, al fine di poter vedere, e signoreggiar il tucto come l’anima per tutte le parti del corpo” (II, xxi, SCAMOZZI 1615:171). L’armonia sul piano estetico (“decoro”, venustas) si concilia con una funzione politica (“comodo”, utilitas);41 allo stesso modo, le parti della città sono disposte in modo da garantire il funzionamento, la vita, appunto, dell’organismo urbano: “le strade nella Città sono a simiglianza delle vene del corpo humano, perciò ve ne devono esser, e di Reggie, e di