A fronte del disinteresse per la dimensione dello spettacolo che avrebbe dimostrato la Poetica di Aristotele una volta pienamente riscoperta, chi assisteva alle rappresentazioni tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento sembrava più attratto dalle scene e dagli intermezzi che non dai testi stessi. La famosa lettera in cui Isabella d’Este scrive il 5 febbraio 1502 da Ferrara al marito Francesco Gonzaga che la rappresentazione della Bacchide avvenuta nel contesto dei festeggiamenti per le nozze di Alfonso d’Este con Lucrezia Borgia “fu tanto longa et fastidiosa et senza balli intramezzi, che più volte me augurai a Mantova” non è certo un giudizio inequivoco sulla qualità dell’opera, tanto più che il messaggio era inviato al marito rimasto per l’appunto a Mantova, ma è vero che nelle testimonianze degli spettatori dell’epoca le descrizioni degli apparati prevalgono spesso su quelle dei testi.6 Il 13 febbraio 1501, Sigismondo Cantelmo, un gentiluomo al servizio di Ercole d’Este, scriveva al duca per riferire degli spettacoli che avevano avuto luogo durante le celebrazioni per il carnevale a Mantova. Alle “recitationi”, pur “belle et delectevole”, Cantelmo dedica soltanto poche righe in chiusura, mentre per tutta la lettera si impegna a descrivere il “sumptuosissimo”
apparato, addirittura così bello da essere quasi ineffabile:
non dubito V. Ex.a per più vie harà inteso l’essere del spectaculo quale sia stato: non di meno ancor mi non voglio mancare dal offitio della mia debita servitù: certificandola scrivo la verità, quantuncha tanta magnificentia recerchasse chi sapesse meglio scrivere, et exprimendo pengere la nobilità et excellentia del prefato spectaculo; la vaghezza del quale con quanta brevità potrò, me sforzarò demostrare […]. (cit. in D’ANCONA 1891,II,p.381)
6 La lettera è riprodotta in D’ANCONA 1891,II,p.385.
Tra le testimonianze più note sull’attività teatrale nelle corti italiane tra Quattrocento e Cinquecento e sull’ammirazione che poteva suscitare l’apparato per la scena c’è la lettera del marzo 1508 in cui Bernardino Prosperi informa Isabella d’Este sulla rappresentazione ferrarese della Cassaria di Ludovico Ariosto. “Lo suggieto fu bellissimo”, scrive Prosperi,
ma quello che è stato il meglio in tutte queste feste et representationi, è stato tute le sene, dove si sono representate, quale a facto uno Mo Peregrino depintore che sta con el Sig.re; che è una contracta et prospectiva di una terra cum case, chiesie, campanili et zardini, che la persona non si può satiare a guardarle per le diverse cose che ge sono, tute de inzegno et bene intese, quale non credo se guasti, ma che la salvarano per usarla de le altre fiate. (Ibid.: 394)
Gli studiosi che si sono occupati di questa lettera, portata all’attenzione della critica a fine Ottocento e già considerata famosa più di un secolo fa,7 hanno discusso sul significato da attribuire al termine “prospectiva”, dietro al quale si nasconderebbe forse un tipo di scena “solo parzialmente e imperfettamente prospettica” (ZORZI 1977: 28). Questa riserva non cancella comunque il riconoscimento delle innovazioni nel campo della scenografia che si devono all’ambiente ferrarese, e ciò fin dalla rappresentazione dei Menechini di Plauto del 1486, recitata, secondo la cronaca del diarista Bernardino Zambotti, “suxo uno tribunale novo in forma de una citade de asse con caxe dipinte” (cit. in PARDI 1904: 12).8 I confini tra medievale pluralità dei luoghi della rappresentazione e rinascimentale unificazione dello spazio scenico non si possono collocare in un anno o in un luogo preciso, ma è vero che la “città ferrarese” (POVOLEDO 1975, RUFFINI 1994) – una contrada, un unico luogo – segna uno scarto rispetto alla varietà delle sacre rappresentazioni.
Nel tentativo di chiarire se il resoconto di Bernardino Prosperi si riferisse a una scena già prospettica in accezione tecnica, gli storici dell’arte e della scenografia hanno studiato l’attività di
7 Tale la ritenevano già Alessandro Luzio e Rodolfo Renier in uno studio originariamente apparso tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e di recente ripubblicato da Simone Albonico (cfr. LUZIO-REINER 2005).
8 Sul ritorno in scena dei testi plautini a Ferrara cfr. GUASTELLA 2007.
Pellegrino da Udine – secondo la lettera, il pittore responsabile della scena, che in quel tempo si trovava al servizio di Ercole d’Este – e un bozzetto conservato presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara di attribuzione e datazione controverse che documenterebbe l’uso della prospettiva nella scena ferrarese. Non si è tuttavia stabilito se questo disegno, solo parzialmente leggibile, sia da ricondurre a una rappresentazione dei Suppositi del 1509, e quindi anch’esso a Pellegrino da Udine (ibid.: 377), o a una data successiva al 1532 e forse all’opera di Girolamo da Carpi (ZORZI 1977: 28), con la conseguenza che Pellegrino non sembrerebbe più essersi occupato di pittura per la scena dopo il lavoro del 1508. Quale che sia l’ipotesi da preferire, non si trova nell’ammirata descrizione di Bernardino Prosperi un elemento su cui, se si confronta il testo con analoghi resoconti di poco successivi, lo spettatore non avrebbe probabilmente mancato di soffermarsi, e cioè l’effetto di illusione del reale generato dall’eventuale uso della prospettiva nella scenografia.
È il febbraio 1513 quando un entusiasta Baldassarre Castiglione racconta a Ludovico di Canossa la sua esperienza di regista ma anche di spettatore della Calandria, la commedia di Bernardo Dovizi di Bibbiena appena rappresentata presso la corte di Urbino con la scenografia di Girolamo Genga:
La scena poi era finta una città bellissima, con le strade, palazzi, chiese, torri, strade vere: et ogni cosa di rilievo, ma aiutata ancora da bonissima pittura, e prospettiva bene intesa. Tra le altre cose ci era un tempio a otto facce di mezo rilievo, tanto ben finito, che con tutte l’opere del Stato d’Urbino non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con historie bellissime, finte le finestre d’alabastro, tutti gli architravi e le cornici d'oro fino et azzurro oltramarino, et in certi lochi, vetri finti di gioie, che parevano verissime: figure intorno tonde, finte di marmo, colonnette lavorate. Saria longo a dire ogni cosa.9
9 Una trascrizione integrale della lettera si trova RUFFINI 1983(197-199),da cui si cita e al quale si rinvia per ulteriori approfondimenti sulla rappresentazione urbinate della Calandria (ibid.: 125-203, ma anche RUFFINI 1986).
L’anno successivo la stessa commedia fu rappresentata a Roma con una scena altrettanto sorprendente di Baldassarre Peruzzi.10 A documentare la meraviglia del pubblico sarebbe stato Vasari, non presente a differenza di Castiglione sul luogo della rappresentazione – era nato solo tre anni prima – ma pronto a riconoscere il ruolo di Peruzzi per la storia della scenografia; sappiamo peraltro che, ripresi dall’allievo Serlio nel Secondo libro di prospettiva uscito in edizione bilingue a Parigi nel 1545, i bozzetti di Peruzzi sarebbero stati importanti per la canonizzazione delle tre scene rinascimentali, comica, tragica e pastorale (POVOLEDO 1975: 374):11
[Baldassarre Peruzzi] Fece nel tempo di Leone, in Campidoglio di Roma per recitare una comedia, uno apparato et una prospettiva, nel qual lavoro si mostrò quanto di perfezzione e di grazia fosse nell’ingegno di Baldassarre dal cielo infuso; né mai si può pensare di vedere i palazzi, le case et i tempii nelle scene moderne, quanto di grandezza mostrasse nella piccolezza del sito dell’ingegno di sì gran prospettivo fatto, le stravaganti bizzarrie di andari in cornici e di vie, che con case parte vere e finite ingannavano gli occhi di tutti, dimostrandosi essere, non una piazza dipinta, ma vera; e quella si di lumi e di abiti nelle figure de gli istrioni fece propri et al vero simili, che non le favole recitare parevano in comedia, ma una cosa vera e viva, la quale allora intervenisse.12
Le descrizioni di Castiglione e di Vasari documentano dal punto di vista degli spettatori l’effetto di illusione di realtà con cui ironicamente aveva giocato l’autore stesso della commedia introducendo il testo al pubblico:
La terra che vedete qui è Roma. La quale già esser soleva sì ampla, sì spaziosa, sì grande che, trionfando, molte città e paesi e fiumi largamente in se stessa riceveva; e ora è sì piccola diventata che, come vedete, agiatamente cape nella città vostra. (Cit. in SANESI 1912:9)
10 Su questa rappresentazione romana cfr. BRUSCHI-CRUCIANI 1968,CRUCIANI 1983, BOTTONI 2005e il recente HARA 2017,a cui si rinvia per una più esaustiva bibliografia. Sull’attività di Peruzzi come scenografo cfr. CRUCIANI
1974 e più in generale FAGIOLO-MADONNA 1987.
11 Si ricorderà la genealogia stabilita da Egnatio Danti nel suo commento a Le due regole della prospettiva pratica di Jacopo Barozzi da Vignola: “Piero della Francesca fu il primo che ne scrisse, Francesco di Giorgio la tramandò a Baldassarre Peruzzi che la insegnò a Serlio” (VIGNOLA 1583: 82). Su questi rapporti si veda la sintesi di ROCCASECCA
2013.
12 Il testo si legge in svariati studi dedicati al teatro, ma risale a VASARI 1550,III,p. 170.
Elena Povoledo ha distinto tra un uso della città prospettica “con intendimento realistico” che si traduce in un “pretesto di splendore celebrativo” (POVOLEDO 1975: 381) di una determinata città – con la idealizzazione sulla scena di una città reale che a teatro contempla sé stessa (ZORZI 1977:
92) – e un uso al contrario generico, dove conta sì la presenza degli edifici sulla scena, ma non il fatto che questi edifici rimandino a una specifica città. Questo secondo uso è già visibile nel prologo della Calandria, ma l’esempio più noto è quello della Mandragola di Machiavelli, dove si gioca su una città “che non ha volto” (POVOLEDO 1975: 382):13
Vedete l’apparato, quale or vi si dimostra:
questa è Firenze vostra;
un’altra volta sarà Roma o Pisa:
cosa da smascellarsi dalle risa. (Prologo, 7-11)
Eppure l’ironia verso l’identificazione della città ritratta sulla scena con una città in particolare rivela che quell’identificazione era possibile, e che tale possibilità era oramai percepita dagli spettatori.14 È questo il punto in comune tra i due usi sopra ricordati, ed è ciò che più conta, perché significa che la questione dell’illusione di realtà – in una parola, il problema della verosimiglianza – non entra a teatro per via teorico-testuale, ma piuttosto attraverso la messinscena.