È possibile in questo senso riprendere il discorso sui contatti tra architetti e letterati proprio da Palladio, di cui sono noti i rapporti con uno dei più importanti poeti e teorici della poesia del Cinquecento, Gian Giorgio Trissino. La proverbiale sfortuna critica e di pubblico che ha sempre caratterizzato l’opera di questo autore, infatti, contrasta col fatto che, quantomeno “nella temperie culturale vicentina dal terzo al quinto decennio del Cinquecento, nulla di importante avvenne che […] non dipendesse o […] non risentisse dei lumi del Trissino” (BARBIERI 1980: 192), e ed è indicativo che gli studiosi che si sono occupati della relazione tra Trissino e Andrea di Pietro, che a un personaggio dell’Italia liberata dai Goti deve il nome di Palladio con cui sarebbe stato poi ricordato,19 abbiano spesso insistito sul ruolo che ebbe il poeta nel favorire l’ingresso dell’architetto, più giovane di lui di trent’anni, nei circoli intellettuali della città di Vicenza. A una fase prevalentemente concentrata su aneddoti difficili da verificare – come quello, celeberrimo, che farebbe risalire la scoperta delle doti di architetto del giovane Andrea di Pietro, al tempo ancora sconosciuto, al momento in cui il Trissino stava completando alcuni lavori di ristrutturazione nella sua villa di Cricoli –, si è più di recente sostituita un’indagine sulle affinità strutturali tra i principi che ispirarono la poetica di Trissino e quelli, in gran parte analoghi, che guidarono l’opera teorica e pratica di Palladio: alla base dell’attività di entrambi, infatti, ci sarebbe l’“intento di dare una simmetria perfetta al tutto” (LEONELLI 2014: 942), un “desiderio di ordine, semplicità e misura”
(ibid.: 925).
Oltre a essere una conclusione condivisibile, questa analogia a livello dei principi di fondo è utile in un campo tradizionalmente biografico perché sposta la discussione verso una direzione innovativa, quella cioè che riguarda non soltanto l’influenza, nelle vesti di protettore o scopritore,
19 Nel poema, infatti, “Palladio” è il nome dell’angelo custode di Belisario nonché “dotto illustrator di castramentazioni militari, di strutture edilizie e di conformazioni urbane” (BARBIERI 1980: 194), che libera i “baroni” imprigionati nel giardino di Acratia nel libro V dell’opera.
di Trissino su Palladio, ma anche la possibilità che i paradigmi della poetica trissiniana siano fin dall’origine l’esito di un incontro con discipline diverse dalla letteratura. Da questo punto di vista, però, il titolo del saggio di Leonelli – “Ut Architectura Poesis. Un rapporto speculare: Trissino e Palladio” – promette qualcosa di più di ciò in cui in effetti consiste il lavoro, che corrisponde meglio al sottotitolo e all’idea che ci sia un “rapporto speculare”, appunto, tra la poesia e la poetica del Trissino e gli edifici e la trattatistica di Palladio, e inoltre che proprio l’enfasi sui rapporti speculari sia ciò che contraddistingue rispettivamente l’opera di entrambi, come si è già detto a proposito della centralità della simmetria. Dall’influenza di Trissino su Palladio – comunque importante anche nel lavoro di Leonelli, che infatti, riferendosi all’“immaginario poetico” del primo, parla di “influsso determinante sull’impostazione culturale e ideologica” del secondo (ibid.:
943) – e dall’idea di un rapporto speculare, suggerirei invece di passare all’ipotesi che l’immaginario poetico trissiniano si formi fin dall’inizio in senso architettonico, e dunque che la sua poetica sia da subito una poetica ‘architetturale’. Per ragioni anche semplicemente biografiche sarebbe assurdo ipotizzare un influsso in direzione inversa (di Palladio su Trissino, cioè), ma che il rapporto vada dall’architettura alla poetica – quantomeno anche dall’architettura alla poetica, e non solo nel senso più consueto dalla poetica all’architettura – è certamente possibile se si guarda ai discorsi invece che alle persone. Trissino arriva a conoscere Palladio quando ha già alle spalle tutta la propria formazione: una formazione complessa, bisogna ricordarlo, dove trovano posto interessi per “la filosofia, la matematica, le scienze naturali e […] le teorie musicali in voga nel Rinascimento” (ibid.: 2014: 921). Sono studi che Trissino coltiva soprattutto a Milano, dove risiedette per alcuni anni a partire dal 1506 e studiò greco con Demetrio Calcondila, e a Ferrara, dove tra gli altri entrò in contatto con Nicolò Leoniceno e Celio Calcagnini.20
20 Sull’attività di quest’ultimo dal punto di vista dell’architettura cfr. MATTEI 2012.
Proprio l’ambiente milanese è quello su cui occorre portare l’attenzione. Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, infatti, lavorano a Milano artisti e intellettuali attivi nei campi della matematica, della pittura e dell’architettura, della musica. Leonardo da Vinci è senza dubbio il caso più noto, ma con lui si trovano in città figure come Luca Pacioli, studioso di matematica e autore del De divina proportione illustrato proprio da Leonardo, e Franchino Gaffurio, maestro di cappella del Duomo e possibile soggetto del Ritratto di musico ancora di Leonardo; qualche anno più tardi, sarà sempre a Milano che Cesare Cesariano lavorerà alla sua edizione tradotta, commentata e illustrata del De architectura Vitruvio. A questi nomi si può aggiungere quello di Francesco di Giorgio Martini, presente non di persona ma per mezzo di almeno una copia manoscritta del suo Trattato di architettura posseduta da Luca Pacioli – visti appunto “i riflessi diretti del testo martiniano che si possono cogliere nel suo De divina proportione” (MUSSINI 1991: 182)21 – ma forse conosciuto anche prima dell’arrivo dello stesso Pacioli a Milano. Tornerò più avanti sulle opere di queste intellettuali, tutte accomunate da una ricerca che – sia essa prevalentemente rivolta alla matematica, alla musica o all’architettura – è caratterizzata dall’importanza delle proporzioni armoniche, un tema in senso lato neoplatonico e neopitagorico che attraversa discipline diverse.
Ora, Trissino non era sicuramente tra coloro che furono costretti ad attendere la traduzione di Alessandro de’ Pazzi per leggere la Poetica di Aristotele: al di là dell’insoddisfacente traduzione di Giorgio Valla uscita nel 1498, il letterato vicentino può essere annoverato tra coloro che dovevano essere in grado di accedere al testo greco pubblicato da Aldo Manuzio nel 1508.
Bisogna quindi immaginare una precoce conoscenza del testo aristotelico, del resto documentata
“dalla Sofonisba e dalla dedica prepostavi a Leone X” che è “un piccolo ma sufficiente compendio
21 Si vedano già le osservazioni di Arnaldo Bruschi nel commento alla sua selezione del De divina proportione (BRUSCHI 1978, soprattutto 39-40 e 95-96).
dell’intera Poetica dello stagirita” (FLORIANI 1980: 57). Rimane però il fatto che, per quanto tempestiva possa essere stata questa lettura della Poetica, essa avvenne negli stessi anni in cui Trissino faceva esperienza di numerosi altri campi, da quello dell’architettura a quello della teoria musicale, cui ebbe l’opportunità di dedicarsi a Ferrara con Nicolò Leoniceno, docente di medicina nello Studio estense e traduttore di un’opera come gli Harmonica di Claudio Tolomeo, alla quale si accinse proprio su richiesta del lodigiano Franchino Gaffurio che come si è detto lavorava nel Duomo di Milano (CATTIN 1980: 155). Per quanto riguarda l’architettura, il documento di più grande valore consiste nel frammento di trattato che Trissino scrisse in una data imprecisata. È un testo brevissimo, ma nel quale Trissino “si muove con larghezza di respiro” (SEMENZATO 1985:
21). L’architettura è presentata come un “artificio circa lo abitare de li uomini” che concerne soprattutto “le sicureze e comodità e ornamenti pubblici e privati” (TRISSINO 1985: 27), tre paradigmi che si combinano variamente – in essenziali o accidentali – a seconda del tipo di edificio che si intende costruire. L’interruzione, brusca, sopraggiunge mentre Trissino sta discutendo alcuni esempi a proposito del luogo adatto per costruire una città, ma la parte più interessante è quella in cui Trissino espone i motivi per cui ha deciso di intraprendere la fatica del trattato, e cioè
“per aver veduto quanto essa architettura abbia bisogno di luce” (ibid.: 28).
Si è già ricordato come l’oscurità di Vitruvio fu rilevata fin dalla riscoperta del testo, ma l’osservazione di Trissino è in parte sorprendente perché si accompagna al silenzio sulle imprese editoriali che nei primi decenni del Cinquecento caratterizzarono l’esegesi vitruviana. L’unico interprete moderno del De architectura che Trissino menzioni è infatti Alberti, la cui opera era però uscita ormai diversi anni prima. Sulla base di questo silenzio, gli studiosi hanno ipotizzato che il frammento possa risalire alla metà degli anni Trenta del Cinquecento, ma comunque prima del 1537, anno in cui uscì a Venezia il quarto libro (in realtà il primo) del trattato di Sebastiano Serlio.
Va detto però che a quel punto il silenzio di Trissino è addirittura più eloquente, perché coinvolge quantomeno anche il Vitruvio tradotto e commentato da Cesare Cesariano (oltre che la prima edizione illustrata di Fra’ Giocondo, dove tuttavia il testo è quello dell’originale). Non è sicuro che si debba pensare a una retrodatazione che preceda la pubblicazione del Vitruvio ‘milanese’ del 1521, ma certamente se è poco probabile che Trissino ignorasse intenzionalmente il Serlio a cui pure “era legato” (PUPPI 1973: 81), altrettanto improbabile è che scegliesse di non citare l’opera di Cesariano, peraltro uscita per lo stesso editore che aveva poco prima pubblicato il De harmonia musicorum instrumentorum di Franchino Gaffurio che abbiamo visto non estraneo agli interessi di Trissino per via milanese e ferrarese insieme.
Sbilanciarsi sui motivi di questi silenzi rischia di dar luogo a speculazioni, perché dopotutto non si tratta che di un testo brevissimo, per il quale proprio la brevità e l’incompiutezza devono rimanere le ragioni principali con cui spiegare ogni eventuale assenza. Può darsi però che Trissino intendesse questa necessità di “fare luce” sul testo di Vitruvio da una prospettiva che non era quella di due architetti come Cesariano e Serlio: e in questo senso non si dovrebbe escludere che ci sia qualche rapporto diretto, al di là della analogia che si vede leggendo i testi, tra l’operazione a cui dichiarava di volersi accingere Trissino e quella che, come si apprende dalla celebre lettera di Claudio Tolomei al conte Agostino de’ Landi del 14 novembre 1542, animava le riunioni della Accademia della Virtù di Roma.