• Non ci sono risultati.

Dalla scena all’azione: dietro la maschera dell’aristotelismo

Il motivo dell’illusione riguarda innanzitutto il luogo, ma presenta conseguenze anche per l’azione che si svolge sulla scena, e in particolare per il rapporto tra l’azione degli attori sul palco e la scenografia. Nel capitolo dedicato alla scena tragica del suo “Trattato sopra le scene”, Serlio sconsiglia per esempio allo scenografo di dipingere “personaggi che rappresentano il vivo” perché ciò contrasterebbe con i movimenti degli attori. Se si vogliono inserire figure, suggerisce Serlio, bisognerà assicurarsi che si tratti di “qualche persona che dorma a buon proposito, overo qualche cane o altro animale che dorma, perché non hanno il moto”, o in alternativa “qualche statue, o altre cose finte di marmo o d’altra materia, o alcuna istoria o favola dipinta sopra un muro”

(SERLIO 1545: 68).

Da una prospettiva complementare a quella di Serlio, che guardava cioè al rapporto tra scena e movimenti degli attori dal punto di vista di questi ultimi, Leone de’ Sommi avrebbe dato pochi anni più tardi ai “recitanti” la regola di non voltare le spalle agli spettatori e di “ridursi a ragionare più in mezzo et più in ripa al proscenio che sia possibile”, e ciò per due motivi: “sì per accostarsi il più che si può a gl’uditori, come per iscostarsi quanto più sia possibile dalle prospettive della scena, poiché accostandolisi pèrdono del lor naturale, et il molto discostarsene par però poco a i veditori, come benissimo la esperienza ci mostra” (SOMMI 1968: 55). Da un lato, il fatto che gli attori si muovano condiziona il modo in cui si deve concepire la scena; dall’altro, la forma della scenografia condiziona il movimento degli attori: la prospettiva dà un’illusione di realtà solo a patto che gli attori sappiano giocare con la scena, senza avvicinarsi troppo allo sfondo e svelare così l’inganno della scenografia.

La cura per la rappresentazione è un aspetto inevitabilmente secondario se osservato dalla gerarchia aristotelica, ma questo non significa che da coloro che nel Cinquecento si interessarono alla messinscena ci si debba aspettare una consapevole presa di distanza dalla Poetica. Basti dire che ancora a fine secolo Angelo Ingegneri sentirà il bisogno di introdurre le sue considerazioni sulla poesia rappresentativa individuandone la “radice nei fondamenti dell’arte poetica e nei precetti dati di quella dal gran mastro Aristotele” (INGEGNERI 1989: 5) proprio all’atto di rivendicarne la novità: “nulladimeno né per osservazione d’altri così fatti poemi, né per avvertimento di chi abbia trattato di tal materia, ho veduto ancora [e ciò sia detto senza arroganza]

che sieno state fatte se non da me” (ibidem). Si tratta di un aristotelismo professato anche a dispetto di posizioni ormai in parte diverse che può ricordare il problema indicato da Marc Bloch – secondo cui “au grand désespoir des historiens, les hommes n’ont pas coutume, chaque fois qu’ils changent de mœurs, de changer de vocabulaire” (BLOCH 2006: 872) – e più di recente

discusso da Carlo Ginzburg nel tentativo di chiarire il metodo dello storico, che cerca appunto di mediare tra domande formulate con le proprie categorie e risposte ottenute nel linguaggio degli attori.18

Un caso importante di formulazione aristotelica di principi non aristotelici si trova nei Discorso sulle comedie e sulle tragedie di Giraldi Cinzio. Come si è già ricordato, all’interno del gruppo di coloro che resuscitarono l’arte tragica in Italia, Giraldi è da sistemare sul versante opposto a Trissino: è una distinzione che si deve allo stesso Giraldi, disponibile a riconoscere a Trissino di essere stato il “primo di tutti a comporre lodevole tragedia” in italiano ma altrettanto pronto a sottolineare che “non fu però introdotta in scena la sua Sofonisba”, e quindi ad assegnare a sé il merito di aver “rinovato l’uso dello spettacolo delle tragedie” (GIRALDI CINZIO 1970: 480-481) con le prime rappresentazioni dell’Orbecche a Ferrara e a Parma. Le “fortissime implicazioni coreutiche” (PIERI 2006: 178) che la tragedia presenta per Giraldi sono parte di una centralità della rappresentazione che riguarda tutti i generi teatrali a cui egli si dedica: nel Discorso sulle satire atte alle scene, per esempio, Giraldi afferma che “è di non picciola importanza l’apparato, perché, essendo principalmente composta la favola per la rappresentazione, non si puote ella, senza l’apparato, convenevolmente rappresentare” (GIRALDI CINZIO 1864: 138). Che questo principio valga per la tragedia è però più sorprendente, perché sul genere tragico gravava la gerarchia aristotelica e l’estromissione della rappresentazione dall’arte del poeta. Il peso della Poetica ispira a Giraldi una retorica dell’eccezione19 con la quale si ribadisce l’estraneità dell’apparato dalle competenze del poeta mentre gli si attribuisce il compito di prendersene cura:

18 Cfr. GINZBURG 2012.

19 Cfr. le recenti osservazioni di GINZBURG 2018 a partire da STRAUSS 1941.

Resta a parlare dello apparato, il quale è posto tra le parti quali della comedia e della tragedia, e quantunque egli non entri nella favola e non sia parte né del nodo, né della soluzione, è egli però necessario alla rappresentazione. Perocché con l’apparato s’imita la vera azione, e si pone ella negli occhi degli spettatori manifestissima. E posto che questo apparato non s’appartenga al poeta, ma sia tutta impresa del corago, cioè di colui al quale è data la cura di tutto l’apparecchio della scena, dee nondimeno procurare il poeta di fare che si scopra, all’abbassar della coltrina, scena degna della rappresentazione della favola, sia ella comica o tragica. (Ibid.: 109)

La differenza della posizione di Giraldi sull’apparato rispetto al declassamento di Aristotele corrisponde a una diversa importanza accordata alla vista rispetto all’udito, e cioè al fatto che l’effetto di un’opera teatrale – da intendere come testo per Aristotele, mentre per Giraldi come spettacolo – cambi a seconda della modalità attraverso cui viene fruita. “Molto più pigramente movono gli animi le cose che si odono che quelle che si vedono”, sostiene Giraldi; “laonde”, continua, “meno compassionevole fia il caso raccontato, ch’egli fia veduto” (ibid.: 38).20 Pur preoccupandosi di non contraddire mai esplicitamente Aristotele, e anzi avendo cura di invocarne l’autorità anche per legittimare aspetti della concezione della tragedia che in realtà non sono aristotelici (JAVITCH 2011: 202-203), Giraldi arriva tuttavia a formulazioni contrarie a quelle della Poetica, per esempio quando scrive che “è meglio che compaia nella scena favola di non molto pregio, che sia ben rappresentata, che averne una lodevolissma che abbia gli istrioni freddi ed inetti nell’azione” (GIRALDI CINZIO 1864: 111).

La critica ha insistito sul fatto che l’acquisita centralità della rappresentazione è il risultato dell’interpretazione moralistica che Giraldi dà della tragedia: la necessità di avere un effetto morale sullo spettatore spinge a una ricerca della verosimiglianza per favorirne il coinvolgimento estetico, e

20 La superiorità della vista sugli altri sensi è un principio già fissato da Aristotele nel De anima (III, 3, 428 b 30), ma l’idea di Giraldi che la vista sia da preferire specificamente all’udito – e che quindi la visione di una scena sia più efficace dell’ascolto di un racconto – riprende un celebre passaggio dell’Ars poetica di Orazio: “Segnius inritant animos demissa per aurem / quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quae / ipse sibi tradit spectator; non tamen intus / digna geri promes in scaenam multaque tolles / ex oculis, quae mox narret facundia praesens” (180-181). Resta il fatto che, come si vedrà poco più avanti, Giraldi si sentirà libero di contraddire Orazio sulla sconvenienza delle morti in scena (due degli esempi con cui Orazio illustra il passo appena citato riguardano i casi di Medea e Atreo). Su queste questioni cfr. HÉNIN 2003 (soprattutto p. 32), mentre sul significato del termine opsis nel lessico critico rinascimentale si veda COTUGNO 2003.

ciò spiega l’importanza della scena e della recitazione degli attori. Giraldi leggerebbe dunque la Poetica attraverso la mediazione di Vincenzo Maggi, del quale seguì le lezioni a Ferrara (JOSSA

1996: 41), e cercherebbe nella rappresentazione lo strumento con cui realizzare l’idea che la poesia sia capace di rendere gli uomini “bramosi di apparare, col mezzo dell’orrore e della compassione, quello che non sanno, cioè di fuggire il vizio e di seguir la virtù” (GIRALDI CINTIO

1864:120).

Proprio l’insufficiente sfruttamento dello spettacolo allo scopo di “muovere gli animi a compassione” (cit. in SPERONI 1982: 125) è una delle critiche che Giraldi, probabile autore del Giudizio d’una tragedia di Canace e Macareo,21 rivolse a Speroni, colpevole di non aver colto l’occasione di mettere in scena nella sua Canace la morte di un fanciullo e di essersi limitato a raccontarla, secondo un precetto di Orazio che in realtà ammetteva molte eccezioni, come afferma

“il Fiorentino” – che nel Giudizio sostiene un punto di vista simile a quello espresso da Giraldi in altri suoi scritti – rifacendosi agli esempi di alcune tragedie di Seneca, di Euripide e di Sofocle.22 Speroni non rispose direttamente alla questione delle “morti palesi” (cit. in SPERONI 1982: 127) nella sua Apologia,23 ma lo fece in un brano che l’editore settecentesco delle sue opere, Marco Forcellini, indica come “trattatello” Delle arti liberali, un testo in cui, discutendo un altro problema già affrontato da Aristotele nell’ultimo capitolo della Poetica – quello di quale dei due generi fosse

21 Lo ha dimostrato, con argomenti perlopiù ancora accolti dalla critica (ma cfr. le obiezioni di JAVITCH 2001a alle pp.

136-137), ROAF 1959.

22 È interessante osservare che anche la legittimazione delle “morti palesi” avviene, oltre che con gli esempi citati a testo, col ricorso all’autorità di Aristotele: il fraintendimento della Poetica – anche Aristotele considerava preferibile il racconto delle morti rispetto alla loro rappresentazione, pur se non escludeva questa possibilità – potrebbe essere dovuto a una scarsa comprensione del testo (così crede Roaf), ma forse anche a una lettura intenzionalmente parziale del trattato.

23 Come notava già WEINBERG 1961 (a p. 923), “Speroni concentrates on two of the charges brought against him, that his Canace could not be ranked as a tragedy, and that its verse form was inappropriate”. I tempi della polemica, dalla scrittura in due mesi della Canace (9 gennaio-9 marzo 1542) fino alla ripubblicazione postuma della tragedia (la princeps, scorretta, è del 1546)con l’Apologia e le Lezioni in difesa della Canace cura del nipote di Speroni, Ingolfo de’ Conti, nel 1597, passando per la circolazione prima manoscritta e poi a stampa del Giudizio e la lenta preparazione della replica, sono ricostruiti da Roaf in SPERONI 1982: XIV-XVI).

da considerare superiore, se la tragedia o l’epica –, Speroni fornisce anche un argomento che consente di capire quale fosse l’elemento decisivo della posizione di Giraldi:

La tragedia e commedia imitano più, che la epopeja, perché movono due nostri sensi, cioè l’occhio e l’orecchia; ove l’epopeia un solo, cioè l’orecchia. Non però sono più nobili dell’epopeja: perché essendo la imitazione genere a ogni poema, dal genere non deriva la nobiltà della specie, ma dalla differenzia: anzi nel genere è tale imperfezione, che il denominar la specie col nome del genere è quasi ingiuria, come dire all’uomo animale. Qui dimando una cosa, cioè se ’l fare morir in scena imita più essa morte, che ’l farla dire; perché dunque non si fa morire altrui in scena? Rispondo.

Proprio del poema è il meraviglioso: però la morte, che non è meravigliosa, essendo naturale e comune cosa, non si dee imitare in scena: ma perché parole rare dette in morte sono meravigliose, però quelle sono imitate, e non essa morte. Dunque meglio è dire, che la imitazione tragica abbracciando più sensi è maggiore, ma non migliore imitazione. E più dirò, che maggiore e più forte imitazione, perché move la plebe, e li fanciulli, il che non fa la epopeia, la quale non è idonea a putti, e femmine, e vulgo: onde viene anche ad essere più ignobile. Più dico, che ’l poema epico è artificio più razionale, che ’l tragico, perché la ragione è delle parole, e non della veduta, e la ragione è nel significar dei concetti con le parole, le quali si significano, e non con veduta, nella quale non si profonda il concetto, ma va alla cosa immediate. Più dico risolvendo ogni cosa: la giostra è spettacolo di opera senza parole, la epopeia di parole senza opera, la tragedia d’uno e d’altro. La giostra è tutta materiale, la epopeia tutta razionale e spirituale, la tragedia mista: però ignobilissima è la giostra, manco nobile la tragedia, nobilissima la epopeja. La giostra è del corpo solo, la epopeia dell’animo, la tragedia dell’uno e dell’altro: la giostra delle membra, la tragedia delli affetti, la epopeia della unità.

(SPERONI 1740: 427)

L’inferiorità della tragedia rispetto all’epica rovescia, rendendo unilaterale il principio aristotelico secondo cui la dimensione performativa era estranea alla valutazione dell’imitazione, il giudizio dato dallo stesso Aristotele al termine della Poetica, dove la tragedia era stata preferita. Ciò avveniva con argomenti contraddittori, perché Aristotele sembrava appunto restituire un valore determinante agli aspetti che aveva invece ripetutamente declassato, e cioè la musica e lo spettacolo. Pare in realtà che Aristotele risolva il confronto a favore della tragedia sulla base della maggiore unità, e che quindi musica e spettacolo, pur sorprendentemente presenti dopo essere stati liquidati nei capitoli precedenti, non siano essenziali per stabilire la gerarchia;24 tuttavia la contraddizione resta, ed è utile segnarla per capire la difficoltà di isolare un argomento dall’altro e la necessità di chiarire di volta in volta cosa significhi “aristotelismo”: la contraddittorietà della

24 Così sostiene Halliwell in ARISTOTLE 1987:180-184.

Poetica permette a posizioni tra loro distanti di apparire tutte come aristoteliche, mentre di fatto a essere condivisi sono soltanto i problemi (o alcuni aspetti dei problemi) e non le loro soluzioni.

Questa situazione è dovuta all’intersecarsi di piani diversi già nella Poetica, piani che poi vengono spesso sovrapposti in modo diverso dai lettori cinquecenteschi: Speroni inverte la gerarchia aristotelica tra epica e tragedia sulla base del principio aristotelico che mette in secondo piano lo spettacolo; Giraldi concorda invece con la gerarchia fissata dalla Poetica, pur riconoscendo alla messinscena un valore che per Aristotele essa non aveva. Tali sfasature permettono tuttavia di far luce su presupposti che i testi non sempre tematizzano in maniera esplicita. Se si confrontano i passi citati di Giraldi e di Speroni, si vede che il secondo valuta la tragedia e l’epica dal punto di vista di una distinzione tra imitazione più o meno razionale che invece dal primo non era stata discussa, mentre da parte sua Speroni non considera rilevante la gerarchia tra vista e udito che aveva portato Giraldi a suggerire di mostrare e non di raccontare le azioni più spaventose. Proprio quest’ultimo punto è ciò che è importante sottolineare: il fatto che Giraldi parli della superiorità della vista sull’udito non deve infatti far dimenticare che, così facendo, egli dà per scontata la superiorità dei sensi sulla ragione, per usare i termini che avrebbe usato Speroni. È invece questo un elemento decisivo della poetica di Giraldi, perché indica che, rispetto ad Aristotele – per il quale al contrario la “devaluation of opsis” era un riflesso della sua intenzione di “shifting the locus of the poet’s art from the realm of the sensual to the that of the cognitive” (HALLIWELL 1986: 67) –, la prospettiva da cui si guarda alla tragedia non è più quella della coerenza testuale valorizzata dalla centralità della favola, ma piuttosto quella dell’effetto sul pubblico: dall’azione – dalla

“favola”, come si è già detto che la si chiamava solitamente nel Cinquecento25 – si passa allo spettacolo.

25 A questo proposito si è sostenuto che l’uso del termine “favola” implichi una riduzione del concetto aristotelico di muthos all’oraziano fabula, “with the consequent loosening of the texture and the rigour of the idea” (HALLIWELL