È mai esistito ciò che indichiamo come Rinascimento? Se l’esistenza della categoria sul piano storiografico è incontestabile e facile da verificare, più complicato risulta accertare l’effettiva consistenza dell’oggetto che il termine intende definire. Si tratta della differenza tra res gestae e historia rerum gestarum su cui si apre un recente libretto che Michele Ciliberto ha dedicato a questo tema. Nel caso del Rinascimento, sostiene Ciliberto, il polo della “coscienza” ha un netto privilegio rispetto a quello dell’“essere”: il Rinascimento, cioè, “è stato […] una costruzione storiografica prima che un oggetto storico” (CILIBERTO 2015: 7), un processo nel corso del quale
un’interpretazione spesso intrisa di elementi mitici ha progressivamente imposto i suoi caratteri
“sulla stessa realtà storica dell’Italia fra Quattrocento e Cinquecento” (ibid.: 13).
L’affermazione della preminenza dell’interpretazione sui fatti serve a Ciliberto per attaccare gli aspetti più esausti di un modello – spesso indicato come burckhardtiano ma in realtà più adatto a descrivere le semplificazioni prodotte dalle letture ispirate alla Civiltà del Rinascimento che non per riassumere le tesi dell’originale – che insisteva da un lato sulla discontinuità tra Medioevo e Rinascimento e dall’altro sulla continuità tra Rinascimento e mondo moderno, e in particolare tra Rinascimento e Illuminismo. Già criticata negli anni Venti del Novecento da Konrad Burdach, quella versione del Rinascimento è responsabile della rimozione dei tratti non corrispondenti all’immagine di un’epoca che doveva presentarsi come l’ingresso del mondo occidentale nella modernità: sono proprio quegli aspetti oscuri e drammatici che Ciliberto invita dal canto suo a recuperare, risalendo “dalla storiografia alla storia” (CILIBERTO 2015: 35) per scoprire una volta per tutte il carattere “tragico” di un’età segnata più dall’aspirazione all’armonia che non dal raggiungimento di quella stessa armonia con cui la si è voluta spesso caratterizzare.
Questo riesame di categorie storiografiche ormai inservibili riapre però la questione della consistenza propriamente storica dell’epoca, il problema di capire quale fosse la realtà dell’Italia quattro-cinquecentesca che le interpretazioni successive hanno a lungo impedito di vedere.
Nell’idea di arrivare a una migliore adaequatio intellectus et rei è infatti implicita la convinzione che ci sia una res – un’accezione di Rinascimento, in questo caso – in parte irriducibile al modo di parlarne, e che anzi proprio modo di parlarne debba essere in grado di comprendere la differenza del Rinascimento rispetto a una versione logoratasi nel tempo e anche di capire la sua specificità in quanto epoca, se è vero che il modello storiografico della Epochisierung rimane inevitabile (HEMPFER 2017).
In un saggio che aveva lo scopo di ricostruire alcune delle più importanti soluzioni al problema fornite dagli studiosi nel corso del Novecento e insieme di suggerire una nuova impostazione della questione, Hempfer ha applicato al Rinascimento il modello elaborato da Foucault nella seconda metà degli anni Sessanta con Le parole e le cose e, con maggiore enfasi sull’aspetto metodologico, con L’archeologia del sapere. A Hempfer interessano l’idea di
“episteme” e quella di “formazione discorsiva”, due strumenti concettuali che, una volta rivisti, consentirebbero di ripensare in maniera innovativa il Rinascimento come epoca e di conseguenza la sua posizione nel sistema “triadico”, anch’esso da rivedere, di “antichità, medioevo e tempo moderno” (HEMPFER 1998: 5). Pur individuando nell’accezione di “discorso” adoperata da Foucault un’ambiguità nel fatto che il termine comprende “sia le condizioni del ‘come si parla’ a proposito della prassi sociale, sia le condizioni della prassi stessa” (ibid.: 20) e restringendone quindi l’uso al valore semiotico (restano insomma fuori gli ambiti in cui il “discorso” di Foucault include discorsi e pratiche sociali, come nel caso dell’economia e della politica), Hempfer ha infatti riconosciuto che l’impostazione di Foucault rende “tutti i tipi di modellizzazione discorsiva […] descrivibili tramite un tertium comparationis, cioè tramite l’episteme su cui si fondano” (ibid.:
23-24), ed è questo che permette al costrutto epocale di raggiungere “un grado di generalità che supera quello delle periodizzazioni tradizionali” (ibid.: 24). Qui non importa seguire l’argomentazione proposta da Hempfer per la definizione di “epoca” sotto il profilo del metodo:
conta, invece, che sulla base di quel metodo egli abbia indicato nell’“eterogeneità” l’elemento specifico del Rinascimento. Il dato decisivo è che questa “eterogeneità” viene intesa come qualcosa di strutturale e non di contenutistico: anzi, è proprio rifacendosi ai numerosi riferimenti degli studiosi del Rinascimento all’impossibilità di conciliare posizioni diverse anche all’interno delle opere di un singolo autore – è ciò che Kristeller ha detto per la storia della filosofia, ma vale anche
per la “visione pluralistica” del Rinascimento di Garin, e ci si potrebbe riallacciare al progetto sulle
“letture discrepanti” dell’Orlando furioso condotto dallo stesso Hempfer7 – che egli ha considerato impraticabile una definizione contenutistica del Rinascimento suggerendo invece di cercarne una
“strutturale, che faccia dell’eterogeneità il suo fattore costitutivo” (HEMPFER 1998: 19).
Si risale così al problema di un’armonia più inseguita che raggiunta: con le parole di Hempfer, si dirà allora la che “conciliazione armonizzante” è una tra le possibili soluzioni della pluralità e dell’eterogeneità, queste ultime tratto strutturale dell’epoca. Anche in questo caso occorre segnalare un punto su cui le direzioni di ricerca si dividono: se a Hempfer preme articolare “un fondamento epistemologico per le discrepanze” (ibid.: 34), qui importa piuttosto insistere sulla dimensione se si vuole “superficiale” (34), ma preferirei dire immanente, dei tentativi di ricondurre la molteplicità all’unità. Questa indagine potrà essere indirettamente utile anche per chi si interessa alle strutture profonde, quelle dell’eterogeneità; ma ciò che riguarda più da vicino questa ricerca è la ricostruzione sul piano del discorso visibile di alcune tra le manifestazioni dello sforzo di armonizzazione che ha caratterizzato il Rinascimento. Fu uno sforzo che contraddistinse varie discipline, ed è facile immaginare che in anni in cui i contatti fra professionisti attivi in campi diversi erano frequenti, così come era consueto che uno stesso artista o intellettuale si dedicasse a svariate attività,8 dovettero verificarsi condizionamenti tra una disciplina e l’altra. Rimane tuttavia aperto il compito di trovare un modello soddisfacente per spiegare questi scambi e i loro effetti.
Non può infatti bastare la categoria di “influenza”, che, come ha scritto ancora Foucault nell’Archeologia del sapere, “fornisce un supporto – troppo magico per potere essere analizzato – ai fatti di trasmissione e di comunicazione; che riferisce a un processo di funzionamento causale
7 Cfr. HEMPFER 1987. Su Garin e Kristeller cfr. HANKINS 2001e ora RUBINI 2014.
8 Il caso più ovvio è quello di Alberti, di cui è stato suggestivamente detto che “could be described as a whole academy rolled into one” (PAYNE 1999: 33). Su questa immagine di Alberti è da vedere anche GRAFTON 2000.
(ma senza delimitazione rigorosa né definizione teorica) i fenomeni di somiglianza e di ripetizione”
(FOUCAULT 1969: 30). L’analisi della formazione discorsiva deve insomma svolgersi su un piano almeno in parte indipendente dalla divisione in discipline.
Nel suo libro sul trattato di architettura nel Rinascimento italiano, Alina Payne ha dato un contributo fondamentale a questo tipo di ricerca. Richiamando l’attenzione sul contesto culturale in cui si svolse la ricezione di Vitruvio e in cui si prepararono – e talvolta si progettarono soltanto, senza essere poi portate a termine9 – le prime traduzioni del De architectura in volgare, Payne ha messo in luce come il trattato, notoriamente l’unico dedicato all’architettura che fosse giunto dall’antichità, facesse parte di una serie di testi che andavano incontro negli stessi anni ad analoghi programmi di volgarizzamento. “The simultaneous translation of all available ancient texts into a still unstable Italian” – osserva Payne riferendosi a una lingua che era ancora da inventare e poi da uniformare – “played no small part in setting off the dialogue across disciplines” (PAYNE 1999: 53).
I testi di Vitruvio e di Cicerone, di Orazio e di Varrone, di Aristotele e di Quintiliano, di Euclide e di Platone divennero dunque testi contemporanei, e contemporaneamente presenti nella biblioteca degli umanisti e degli architetti. Il De architectura entrò in “a world of word-driven intertextual relationships” (ibidem) – altri due tipi di relazione, su cui tornerò in seguito, riguardavano i rapporti del testo con le immagini, mancanti sebbene spesso richiamate, e quelli tra
9 Un caso pressoché sconosciuto di traduzione soltanto progettata (e per quel che si sa nemmeno incominciata) è documentato dalle postille autografe di Marcantonio Magno, padre del più noto poeta Celio, a una copia dell’importante edizione De architectura curata da Fra’ Giocondo conservata presso la Houghton Library di Harvard (GEN Lv 35.4*). La copia reca manoscritto il sonetto di dedica dello stesso Marcantonio all’architetto napoletano Giovanni Francesco Mormando (1449-1530): “A voi nuovo Vitruvio al tempo vostro / Vengono e libri di Vitruvio antico, / Dove se troverete alcuno intrico / Cagion è ’l tempo e no ’l difetto nostro. / Ché se a Vitruvio potessi esser mostro / Il suo parlar, dov’io tanto fatico, / Rimarrebbe sdegnato, e a me nemico, / Che d’eloquente, il fo parer un mostro. / Ben ch’i’ creda, che harrebbe assai più sdegni, / Veggendo mozze, false, e in tanti errori / Sue fatiche et suo’
dotti alti disegni. / Ma così van tutti e mondani honori / Soggetti al tempo et fato, in fin gli ingegni, / E nomi, et e volumi de gli auttori”. Oltre a questo sonetto, la copia tramanda una serie di altri epigrammi manoscritti di Marcantonio Magno che situano il progetto di traduzione a Napoli, nella cerchia di cui facevano parte anche una figura come Vittoria Colonna, tra le dedicatarie degli epigrammi. Questo aspetto della biografia di Marcantonio Magno è stato finora trascurato dagli studi, rivolti soprattutto al ruolo che egli ricoprì nell’ambiente degli “spirituali” come traduttore dell’Alfabeto cristiano di Juan de Valdés, su cui cfr. almeno FIRPO 2006 e più in generale già FIRPO 1990.
il testo e le rovine, frammenti del mondo di cui il trattato parlava – che si sarebbe rivelato decisivo per la creazione della lingua dell’architettura. Payne si è concentrata soprattutto sulla parola decor e sul suo corrispettivo retorico di decorum, insistendo opportunamente sul contributo dei testi non architettonici per la ricezione di Vitruvio:
the reader of Vitruvius […] was also a reader of Aristotle, Cicero, Horace, and Ovid […], painstakingly making language and theory from this reading. Though not about architecture, these texts represented a powerful historical force, for they not only provided the lexical field for theory, but were the known cultural siblings of Vitruvius. Renaissance readers could not but use Romans (and their Greek sources) to understand another Roman – Vitruvius – and these ancient texts, whether on the language arts or on natural history inevitably left a deep imprint on their thinking.
(PAYNE 1999: 9)
È sempre difficile tracciare in modo affidabile questi rapporti, perché i testi non possono bastare a documentarli eppure sono quasi tutto quello che abbiamo. Resta il fatto, però, che la giusta osservazione di Payne può valere anche nella direzione inversa: in altre parole, anche la lettura – e in senso lato la circolazione – di un testo come quello di Vitruvio dovette lasciare un’impronta nel modo di pensare dei lettori del Rinascimento. Guardata dalla prospettiva della lingua, quella che interessa principalmente Payne, la relazione tra la teoria dell’architettura e la teoria della letteratura (la retorica, diciamo) si lascia leggere in direzione univoca, “from literary to architectural theory”
(ibid.: 60); se si considera la questione da un punto di vista più ampiamente epistemologico, però, il rapporto si complica.
In un capitolo ancora essenziale per gli studi di visual culture, Michael Baxandall ha parlato di
“occhio del Quattrocento” (“the period eye”, nell’originale inglese), cercando di dimostrare l’esistenza di un rapporto tra lo stile pittorico di una determinata cultura e la capacità visiva che gli individui appartenenti a quella stessa cultura si formano attraverso l’esperienza quotidiana, e in particolare attraverso le esperienze condivise. C’è un passo che fornisce un importante strumento
di metodo per comprendere le relazioni extra-linguistiche o extra-testuali che si possono istituire tra un campo e un altro, tra una sfera dell’esperienza (o del pensiero) e un’altra:
a certain profession […] leads a man to discriminate particularly efficiently in identifiable areas.
Fifteenth-century medicine trained a physician to observe the relations of member to member of the human body as a means to diagnosis, and a doctor was alert and equipped to notice matters of proportion in painting too. (BAXANDALL 1972: 39)
Leggere Vitruvio e interessarsi ai problemi dell’architettura doveva essere un’esperienza che lasciava il segno negli intellettuali del Rinascimento: se si vuole dare credito all’ipotesi di Baxandall, un’esperienza che doveva rendere coloro che si dedicavano all’architettura sensibili a vedere le questioni dell’architettura (per come le aveva poste Vitruvio) all’interno degli altri campi, e cioè degli altri testi, a cui si rivolgevano.
Pur concentrandosi sulla lingua,10 e quindi prevalentemente sul contributo delle discipline linguistiche al nascente discorso dell’architettura – “Ut lingua architectura” si intitola significativamente un paragrafo del libro (PAYNE 1999: 60-65) –, Payne ha individuato con precisione le due aree a cui occorre guardare anche nel caso in cui si voglia esplorare la relazione inversa del problema. La prima riguarda i contatti tra gli intellettuali, i contesti sociali e culturali in cui le formazioni discorsive (e davvero interdiscorsive) vennero a crearsi: si tratta in primo luogo delle accademie, ma potenzialmente – e ne vedremo qualche esempio – non si possono escludere neppure incontri se non occasionali quantomeno non sempre favoriti da istituzioni (tali, appunto, devono essere considerate le accademie). La seconda è invece un’area propriamente testuale, che attiene cioè ai rapporti tra testi che di solito vengono catalogati in discipline diverse. In questo caso, il punto di partenza è stata l’osservazione secondo cui a far avvicinare architettura, poetica e retorica fu una metafora che potrebbe sembrare un luogo comune, ma che nella pratica, essendo
10 Su questo punto, con diversa prospettiva, cfr. BIFFI 2006e 2009.
riferibile tanto ai testi quanto agli edifici, ebbe il ruolo di un “facilitator” (ibid.: 63) e favorì la mediazione tra un discorso e l’altro: la metafora del corpo umano.
Nei prossimi due capitoli seguirò queste due direzioni cercando di approfondirle e di leggerle in una maniera in parte diversa da quella di Payne. La differenza si deve soprattutto al diverso obiettivo di questa analisi: non si tratta, infatti, di ripercorrere la formazione di un discorso specifico dell’architettura, quanto piuttosto di ricostruire il contesto culturale in cui sarebbe stato elaborato un concetto di unità innovativo, difficilmente spiegabile da un punto di vista soltanto poetico-retorico. È un’archeologia dell’unità, uno studio del modo in cui intorno a un apparente luogo comune, e un luogo comune già antico come quello della metafora del corpo umano, prese forma un discorso nuovo, importante per definire il Rinascimento in prospettiva interdisciplinare e utile per capire la rilettura filosofica del concetto originariamente poetico di unità di azione.
Che non si debba temere di lavorare su un luogo comune è un insegnamento ricavabile ancora una volta dal Foucault, che nell’Archeologia del sapere ha richiamato l’attenzione sul modo in cui gli enunciati cambiano, pur apparentemente rimanendo identici, a seconda delle condizioni in cui vengono espressi. È il campo di utilizzazione, quello che fa sì che un enunciato ripetuto, per l’appunto anche lo stesso enunciato, cambi identità a seconda delle formazioni discorsive in cui è inserito:
L’identità di un enunciato è soggetta a un secondo insieme di condizioni e di limiti: quelle che gli vengono imposte dall’insieme degli altri enunciati e in mezzo ai quali figura, dal campo in cui si può utilizzare o applicare, dal ruolo o dalle funzioni che deve esplicare. L’affermazione che la terra è rotonda o che le specie si evolvono non costituisce lo stesso enunciato prima e dopo Copernico, prima e dopo Darwin; non che sia cambiato il significato delle parole, trattandosi di formulazioni così semplici; quel che si è modificato è il rapporto tra queste affermazioni e altre proposizioni, sono le loro condizioni d’utilizzazione e di reinvestimento, è il campo di esperienza, di verifiche possibili, di problemi da risolvere a cui si possono riferire. La frase che «i sogni realizzano i desideri» può essere stata ripetuta attraverso i secoli; ma non si tratta dello stesso enunciato in Platone e in Freud. Gli schemi di utilizzazione, le regole d’uso, le costellazioni in cui essi possono svolgere una funzione, le loro virtualità strategiche costituiscono per gli enunciati un campo di stabilizzazione che consente, malgrado tutte le differenze di enunciazione, di ripeterli nella loro identità; ma questo stesso campo
può anche, dietro le identità semantiche, grammaticali o formali più manifeste, definire una soglia a partire dalla quale non ci sia più equivalenza e sia necessario riconoscere l’apparizione di un nuovo enunciato. (FOUCAULT 1969: 138-139)
Sono questi alcuni dei motivi per cui una metafora antica può rivelarsi interessante. Come cambia la metafora del corpo umano una volta inserita in un discorso che è insieme architettonico e poetico-retorico? Come cambia il discorso dell’unità di un testo una volta che l’unità diventa un problema affrontato anche in altri “campi di esperienza”? Esiste un rapporto tra l’unità in architettura, l’unità in pittura, l’unità nella pratica e nella teoria letteraria nel momento in cui questi discorsi vengono portati avanti negli stessi anni e, in qualche caso, da intellettuali in contatto tra loro? Quali questioni passano da un campo all’altro quando in ciascuno di essi si verifica uno sforzo strutturalmente analogo di conciliare l’eterogeneità in modo organico, subordinando al principio dell’unità la varietà delle parti? Sono le domande a cui questa prima parte del lavoro tenterà del lavoro di dare una risposta.