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Il cambiamento di prospettiva dall’azione allo spettacolo è verificabile anche riguardo a una delle questioni fondamentali dell’esegesi aristotelica, quella della verosimiglianza. Se per Aristotele la verosimiglianza dell’azione riguardava innanzitutto la connessione degli eventi tra loro, per Giraldi essa si riferisce invece al modo in cui la rappresentazione viene percepita.26 Certo, il poeta deve assecondare con la sua scrittura l’obiettivo della verosimiglianza dell’azione rappresentata, ma il verosimile è una qualità che la tragedia deve avere una volta messa in scena. Come sempre Giraldi inserisce le sue proprie innovazioni in un discorso che sembra ricalcare, ma che in realtà modifica, la Poetica di Aristotele:

[…] posto che l’apparato giovi molto alla scena, e gli istrioni che sono atti all’azione imprimano maravigliosamente con la voce e coi movimenti gli affetti nel core, dee nondimeno il poeta nel comporre la favola usar ogni diligenza ch’ella abbia in sé, per le parole in essa poste, una occulta virtù, che, senza lo spettacolo anco muova gli affetti di chi legge, sicché non paia che ciò avvenga solo per la forza dell’apparato, del quale, prima ch’io finisca di ragionare, voglio raccordarvi una cosa che non meno è dell’azione che del poeta, cioè che tale dee introdurre l’azione della favola il poeta, che non abbia mai bisogno di voltare il suo ragionare agli spettatori […] Perché, se l’azione scenica deve avere somiglianza col vero, non essendo né vero né verisimile, che, se coloro che sono introdotti nella scena maneggiassero l’azione che rappresentano gli istrioni, andassero nel cospetto del popolo e il facessero partecipe dei loro ragionamenti e dei lor fatti, così nol dee anco far l’istrione nella scena, ma dee egli trattare tutta la rappresentazione non altrimenti che s’ella si trattasse domesticamente tra persone famigliari, e come non vi fossero spettatori […]. (GIRALDI CINTIO 1864: 111-113)

Dall’iniziale rispetto della gerarchia aristotelica con la prescrizione per il poeta di un testo che sia in grado di muovere “gli affetti di chi legge”, Giraldi passa in realtà a rovesciare la prospettiva:

l’azione che si svolge “domesticamente tra persone famigliari” come in assenza di spettatori –

1986: 299).

26 Sul verosimile nella teoria drammatica di Giraldi cfr. anche ROAF 1991.

nasce qui la teoria della quarta parete27 – è un’azione la cui verosimiglianza è valutata dal punto di vista della percezione, e non della coerenza interna.28 Aristotele non aveva sottratto l’azione testuale al controllo della rappresentazione: Carcino, poeta tragico vissuto nel IV secolo a.C., era stato appunto criticato per non aver visualizzato mentalmente una scena di un testo per noi perduto dove il personaggio di Anfiarao si trovava a compiere sulla scena un movimento inefficace per gli spettatori. Il concetto aristotelico di probabilità era soprattutto “a principle of structural coherence and continuity, and therefore of the intelligibility of the plot-structure” (HALLIWELL 1986: 298), eppure il fugace riferimento alla verifica della visione, per quanto non trasformi l’unità o la verosimiglianza dell’azione in un fatto estetico, lascia aperta la possibilità che questa verifica dia risultati diversi a seconda delle condizioni materiali in cui un’azione si trova a essere rappresentata.

In altre parole: il punto di vista di Aristotele rimane testuale, e cognitiva la sua concezione della probabilità di un’azione; ma il fatto che il poeta tragico debba tenere conto di come l’azione sarà una volta rappresentata implica che, a mutate condizioni della rappresentazione, debbano corrispondere modi diversi di concepire il testo scritto.

È questo un passaggio che Aristotele non compie, né lo compiono esplicitamente alcuni di coloro che nel Cinquecento ribadirono l’idea della necessità per il poeta di considerare la messinscena. Nella già citata Quinta divisione della Poetica, Trissino riprende il principio di Aristotele in un brano dedicato al decorum e alla recitazione degli attori, ma non sembra che il

27 Formalizzata da Diderot nel Settecento, la teoria della “quarta parete” trova una sua prima definizione nell’opera di Leone de’ Sommi (lo sostiene HÉNIN 2003: 253), e quindi a maggior ragione in Giraldi Cinzio, che precede il Sommi di qualche anno e lo sopravanza quanto a diffusione cinquecentesca.

28 Da notare su questo punto la convergenza con l’anonimo autore – lo stesso Giraldi, secondo Roaf – del Giudizio d’una tragedia di Canace e Macareo: “Ora, per tornare alla Canace, dico che gli Istrioni deono rappresentare le cose come veramente le fariano tra sé le persone che essi fingono, e non dare a vedere che siano cose che solo si narrino, o che si fingano: ché ciò reca fastidio allo spettatore e toglie la fede alla favola. E come quelle persone che fingono gli Istrioni fariano le cose in casa tra sé, o fuori solo coi suoi compagni, o con coloro che avessino a intravenire ne’ loro negozi, così gli Istrioni non hanno a mostrare di vedere gli spettatori, ma parlare come se le cose nel vero si facessero tra lor soli” (in SPERONI 1982: 113).

passaggio alla rappresentazione comporti qualcosa di più che una semplice manifestazione dell’astratto in concreto e quindi la necessità di prevedere l’esposizione della poesia “alli sensi”:

E però il poeta […] dee aver cura di quelle cose che di necessità segueno alli sensi della poesia, cioè al vedere et a l’udire. Dico che dee considerare che la tragedia che scrive debbia esser recitata, e veduti i gesti et uditi i sermoni e la melodia di essa. Laonde dee trattare la favola con parole belle et accomodate, e nel constituirla si de’ ponere ogni cosa avanti gli occhi e fare come se egli stesso fosse intervenuto in quelle azioni. Ché così facendo vederà manifestamente tutti e’ costumi, e troverà agevolmente ciò che ad ognuno si convenga, e non li saranno le cose contrarie e repugnanti nascoste.

E ponendosi quanto li sarà possibile avanti gli occhi i gesti e le figure che fanno quelli che sono nelle passioni, si ponerà quasi in esse. Perciò che coloro che sono nelle passioni per la istessa natura persuadeno, ché il corrucciato verissimamente si corruccia et il perturbato verissimamente si perturba. (TRISSINO 1970: 31)

Diverso è il caso di Angelo Ingegneri. Anche se apparentemente simile alla critica mossa da Aristotele a Carcino, infatti, l’opinione di Ingegneri secondo cui “nella maggior parte dei facitori di favole sceniche” del Cinquecento è da individuare il difetto che i drammaturghi “non si fingono (sì come essi arrebbono a fare) spettatori di quelle”29 in realtà non soltanto comporta una specifica presa in considerazione delle condizioni del palco, ma implica anche che proprio la scena debba guidare la scrittura della favola:

Converrebbe adunque che il poeta, il quale si dà a fare alcuna opera dramatica, primieramente si figurasse dinnanzi agli occhi la scena, divisandone fra di sé gli edifici, le prospettive, le strade, il proscenio e ogn’altra cosa opportuna per l’avvenimento di quel caso ch’ei si prende ad imitare; e ne facesse nella sua mente propria una cotal pratica, che non uscisse personaggio che non gli sembrasse vedere ond’ei si venisse, né si facesse su ’l detto proscenio gesto, né vi si dicesse parola ch’egli in certo modo no ’l vedesse e non la udisse, mutando e migliorando, a guisa di buon corago e di perfetto maestro, quegli atti e quelle voci che a lui non paressero bene a proposito. Se così avessero fatto alcuni, per altro forse dei migliori tragici de’ nostri tempi, non si trovarebbono nelle tragedie loro di quelle difficoltà che vi si scorgono per ciascuno. Verbigrazia: ch’il medesimo proscenio, il quale fu per dianzi la piazza principale d’una città, tutt’a un tratto divenga campo dell’esercito nemico fuor delle mura. Il che mi fa ricordare d’una tragedia di Sofonisba, fatta in ottava rima da un poeta di cui non mi sovviene il nome, ma l’ho veduta alla stampa né credo che vi sia gran pena a ritrovarne, la quale inchiude nella sua scena non solo Cirta, Cartagine e la patria di Massinissa, ma la città di Roma e la reggia di Tolomeo in Egitto e diverse altre parti del mondo, dall’una all’altra delle quali i personaggi fanno traggitto a lor beneplacito, sì però che quando occorre uno di così fatti passaggi (per dargli per aventura verisimilitudine di tempo) si fornisce l’atto. Di maniera che la favola è divisa in quindeci o venti atti, con una rarità d’essempio maravigliosa. E questo è quanto alla situazione della scena. (INGEGNERI 1989: 17-18)

29 È questo un cambio di prospettiva che, in polemica con Aristotele, Castelvetro giudicava impossibile (cfr.

CASTELVETRO 1978:477-478).

L’esempio della Sofonisba di Galeotto del Carretto, non nominato ma facilmente individuabile, chiarisce quale sia il problema secondo Ingegneri: la condizione della scena – che non può cambiare “subito” dalla piazza di una città al campo di un esercito, figurarsi da una città all’altra – impone che la favola si adegui. Il luogo materiale, cioè, determina il luogo ideale, e quindi l’azione:

“se bene il teatro si trova in certo modo in obligo di concedere agli istrion, così come all’apparato, molte cose lontane dal vero e sopra di essere fondare quella credenza onde in lui si destano gli affetti”, aveva scritto Ingegneri poche pagine prima riguardo alle unità di tempo e luogo, “quanto più le dette cose s’avvicinano alla verità, tanto sono elleno di maggiore efficacia” (ibid.: 8).

Ingegneri stabilisce qui un’ideale coincidenza tra finzione della scena e verità del luogo e del tempo in cui si svolge l’azione che, al tempo in cui veniva pubblicato l’opuscolo Della poesia rappresentativa, era già stata proposta da Ludovico Castelvetro nel suo commento alla Poetica di Aristotele.